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Autore: Mrs Carstairs    25/06/2015    1 recensioni
-tratto dalla storia-
A svegliare Tris fu la luce del sole che entrava dalle finestre. La sera prima doveva essersi dimenticata di chiudere le veneziane. Si accorse poco dopo di non essere a letto ma… in poltrona. Aveva dormito tutta la notte in quella scomoda posizione, appollaiata su quella poltrona infossata, perché? D’istinto, lo sguardo corse al letto, trovandosi a rimirare le coperte sfatte, il lenzuolo attorcigliato e uno dei due cuscini a piedi del letto. Andrea sussurrò. E decise finalmente di alzarsi per sgranchirsi quelle povere gambe piegate da chissà quante ore. Come si avvicinò al materasso dalla parte dello scendiletto, vide qualcosa, incastrato tra le pieghe del piumone. Allungò una mano e lo prese tra due dita. Un biglietto. “Grazie.” A.
in un certo senso la storia è presa dalla realtà. quello che ho sentito ho descritto.
Genere: Introspettivo | Stato: in corso
Tipo di coppia: Het
Note: Lime | Avvertimenti: nessuno
Capitoli:
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Dopo che Connie se n’era andato, Andrea e Tris erano rimasti a guardarsi per parecchio, guardinghi, mentre la pioggia continuava a cadere su di loro, rendendo i vestiti zuppi e delineando percorsi d’acqua sui loro visi. A rompere l’immobilità del momento, fu Andrea. Dopo quel lungo sguardo, aveva respirato velocemente, rabbiosamente, per poi voltare le spalle a Tris e incamminarsi dalla parte opposta ai dormitori. Tris aveva provato l’impulso di seguirlo, i piedi si erano mossi senza che lei se n’accorgesse, ma poi si bloccò. Voleva che tornasse, voleva urlare il suo nome per farlo tornare, ma.. le riuscì solo di dar voce a un sussurro che solo la pioggia sentì, mentre guardava la sua figura allontanarsi. Tutto ad un tratto, il freddo e l’umidità che sentiva addosso per i vestiti bagnati dalla pioggia, svanirono, soppiantati da un’indifferenza profonda, un vuoto interiore e un senso di debolezza che le fecero dimenticare la pioggia e a stento le permettevano di mettere un piede davanti all’altro per andarsene da lì. Quando arrivò all’edificio dei dormitori, i corridoi erano già al buio e Tris si sentì come in uno di quei sogni in cui si percorrono corridoi di labirinti interminabili, nei quali non si fa altro che camminare, per poi rassegnarsi all’infinito di cunicoli bui e desolati. Andando a memoria, salì le scale e svoltò nell’ala femminile, contando i passi per arrivare alla 121. Poi si fermò davanti alla porta, cercando le chiavi a tentoni nelle tasche dei jeans zuppi. Aperta la porta non accese nemmeno la luce, la richiuse dietro di sé, lasciando cadere la borsa sulla sedia di fronte alla propria scrivania. Alla luce del lampione che entrava dal finestrone constatò che Madeleine doveva essersi trasferita altrove senza dirle nulla, perché l’anta aperta dell’armadio rivelava che il mobile era vuoto e il suo comodino e la scrivania erano vuoti. Scosse la testa, non avendo nessuna intenzione di pensarci in quel momento, lasciando che le sue mani corressero a sollevarle la maglietta, levando l’indumento bagnato dal suo corpo infreddolito; che scivolassero sull’orlo di jeans per slacciarne i bottoni e lasciarli cadere sul pavimento, con i calzini; prendere dal letto la felpa di due taglie più grandi di lei e infilarsela da sopra la testa. I capelli, ancora umidi, le ricaddero sulle spalle e Tris camminò, quasi senza accorgersene, fino alla finestra, dove si rannicchiò nel suo incavo, con le ginocchia al petto e le braccia strette attorno ad esse. Appoggiò la testa al muro dietro di lei e guardò attraverso i vetri. Dapprima non vide nulla, la vista offuscata dalle lacrime che spingevano per scenderle sulle guance. Poi cominciò a mettere a fuoco il cortile, gli acciottolati che portavano da una parte all’altra del campus, la bancarella coperta del caffè e più in là la palestra, la biblioteca. E spariva tutto di nuovo, diventando un insieme sconnesso di linee, un paesaggio sfocato, un acquarello ancora fresco su cui è caduto un barattolo d’acqua. Poi la lacrima scendeva e allora tutto tornava nitido, come se il pittore avesse ripreso a calcare tratti e ombreggiature. Perché si era allontanato così da lei? forse aveva sbagliato a confessargli ciò che provava, forse era stata la cosa più sbagliata da fare. Aveva rovinato tutto, come si era detta un migliaio di volte di non fare. Eppure non aveva più voluto trattenersi. Glielo diceva sempre Andrea, Carpe diem accidenti! altrimenti non combinerai mai nulla nella vita, Tris! Rischia, buttati, cazzo! A che serve zittire le emozioni? ‘te lo dico io a che serve! A evitare di perderti, ecco a che serve. -pensò- Mi serviva ad averti vicino, serviva a tenerti con me..’ Non cambierà niente, donna. Te lo prometto. E invece era cambiato tutto. Ho bisogno di tempo. Nemmeno un migliaio di anni sarebbero bastati a dimenticare. *** Andrea aveva sempre e solo camminato, da quando aveva voltato le spalle a Tris nel viale dietro la biblioteca. La pioggia continuava a scendere e i suoi piedi a mettersi uno di fronte all’altro. Si muoveva, come ramingo, poi si sedeva su una panchina bagnata, poi si alzava di nuovo, non trovava un posto, il posto giusto, non.. non poteva pensare ad un posto giusto. Beh, forse poteva.. ma il posto giusto non era il posto giusto in quel momento. Però non riusciva a non pensarci, non riusciva davvero ad evitarlo. Qualunque direzione prendesse, qualunque stradina del campus prendesse, ritornava sempre lì, al dormitorio delle ragazze. Sempre la stessa scena: si fermava a qualche metro dall’edificio silenzioso e guardava su, ad una delle finestre del primo piano, le stanze dal 111 al 121 e si ritrovava a fissare i vetri scuri dell’ultima finestra da destra, dove forse stava seduta Tris, nella sua solita posizione rannicchiata. Andrea sapeva benissimo a che cosa pensava la ragazza. Anzi no, forse non lo sapeva per niente. Sapeva solo che a lui mancava tanto. A mancargli era la sua voce, quella voce che gli rompeva tanto le scatole che.. che trovava bella, calda, a volte l’unica cosa che gli serviva per resistere. E quegli occhi. Quegli occhi che sapevano dire tante cose, tante cose che lui non aveva saputo sentire. E poi i capelli che adorava scompigliarle, per vederle stampata in viso quell’espressione contrariata che si trasformava in un sorriso subito dopo. Era stato stupido allontanarsi così. Aveva bisogno di tempo, si. Ma Andrea la rivoleva indietro. E di tempo.. glie ne aveva lasciato anche troppo. Due settimane senza parlarsi, guardarsi, toccarsi. Era stato troppo anche per lui. Non credeva di poterlo sentire. Non credeva di poter sentire così la mancanza di una persona. In fondo, lui non aveva bisogno di nessuno. Non aveva mai avuto bisogno di qualcuno. Se l’era sempre sbrigata benissimo da solo. E allora perché, tutto a un tratto, non sentiva che una stretta alla gola, una difficoltà a respirare, come avesse il diaframma schiacciato da un masso? E perché, se non aveva bisogno di lei, si ostinava a guardare in su, verso quella dannata finestra? Dopo qualche minuto, passato con la testa quasi all’indietro, come un lupo che ulula alla luna, ficcò le mani nelle tasche dei jeans e a forza, riprese a camminare. Ma i suoi piedi non gli diedero quiete quella sera. Continuando ad avanzare, finì per svoltare a destra all’altezza della caffetteria, uscì dal campus, ritrovandosi in una stradina familiare. Camminò sempre senza pensare a dove stava andando e, misteriosamente, o chiaramente-dipende dai punti di vista- si ritrovò di fronte a quel maledetto locale. Joe’s risaltava nel buio delle strade della periferia, con la scritta al neon che gridava quel comunissimo nome ai passanti. Era un posticino mica male, arredato in stile anni 50, con quei divanetti in pelle rosso fuoco e il bancone incurvato. Oltre a un vecchio juke-box, risaltava un flipper che sembrava nuovo di pacca, ma il pezzo forte era il tavolo da biliardo in mezzo alla sala. Il panno verde del tavolo era consumato qua e la dai numerosi passaggi delle stecche e dal rotolare delle palline. Ma era la parte preferita di lui e Tris. Era stato Andrea ad insegnarle a giocare a biliardo, a tenere la stecca nel modo giusto e quasi tutti i venerdì sera uscivano dal campus per giocare almeno una partita. In più, in quel locale i due avevano preso la sbronza più pesante della storia. Non si ricordava perché, non si ricordava come, avevano bevuto come due spugne e la mattina dopo si erano ritrovati in camera sua, rannicchiati tra le coperte scombinate del suo letto con un mal di testa che non avrebbero dimenticato in tutta una vita. E non si era accorto nemmeno di aver spinto la porta di Joe’s, di essere entrato e, continuando a pensare, di essersi piantato a qualche metro dal tavolo da biliardo, a fissare una delle stecche muoversi sul panno verde. Il tiro non andò male, ma la pallina rossa restava ancora un poco lontana dalla buca. Il turno dopo però, una seconda stecca mandò la pallina rossa e quella verde in buca. Andrea allora seguì con lo sguardo la stecca, fino ad arrivare alla mano del proprietario, in questo caso una ragazza. Continuò a far scorrere lo sguardo su di lei, arrivando alle spalle, ai capelli ricci messi tutti da una parte, scendendo dalla nuca alla schiena, coperta da una felpa molto più grande del dovuto, poi alle gambe asciutte, avvolte in quel paio di jeans neri strappati qua e là… Tris.. fu appena un sussurro, sovrastato dalla musica rock ad un volume pazzesco, ma lei parve sentirlo. Infatti si voltò quasi di scatto, cercando per un attimo la stanza, con una bottiglia di birra in mano. Poi forse si convinse d’essersi sbagliata, perché tornò al tavolo da gioco, impugnando la stecca. Andrea allora, senza farsi notare, salì i tre scalini che portavano sul palchetto del gioco, sorpassò spettatori e giocatori, arrivando a lei. “no, non quella.. mira a quella vicino alla bianca. Se riesci a mantenere la traiettoria giusta ne mandi in buca due..” a quel sussurro Tris parve concentrarsi ancora di più, mirare e far scivolare le palline, con uno schiocco, in buca. I ragazzi attorno al tavolo urlarono complimenti, mezzi rimbambiti dalla musica e dall’alcool e lei sorrise soddisfatta. Poi si voltò, sistemando la punta scheggiata della stecca. “guarda guarda..” disse senza alzare lo sguardo “non mi aspettavo di vederti. Anzi forse invece, era proprio il posto dove avrei creduto di trovarti” Tris parlava in tono pacato, ma tagliente, quasi rabbioso. “e forse era quello dove anche io mi aspettavo di trovarti.” Lo aveva pensato, era vero. Quando aveva continuato a guardare alla finestra della camera della ragazza e l’aveva sempre trovata buia, aveva pensato fosse uscita e.. in automatico, aveva pensato a Joe’s. Tris sembrò sbalestrata per qualche secondo, ma poi, ripresa la bottiglia in mano, poggiò la stecca al supporto, scendendo i tre scalini per sedersi ad uno dei tavoli ancora liberi. Teneva lo sguardo basso, sul legno lucido del tavolo, giochicchiando con la bottiglia ormai vuota. “senti io..” cominciò il ragazzo, non sapendo nemmeno da dove cominciare. “non lo so perché mi sono comportato così.” La ragazza sorrise un po’, lasciandosi andare sullo schienale del sedile in pelle. Ancora non lo aveva degnato di uno sguardo che non fosse pieno di sarcasmo o di confusione. “e va bene!- la voce di Andrea cominciava ad alzarsi, i pugni erano stretti l’uno contro l’altro- sono stato un idiota, ok? Non so cosa mi sia preso.” Il sorriso malinconico di Tris cominciava a sparire, soppiantato da un’espressione sempre più seria. “sono tre settimane che non mi parli, che non mi guardi negli occhi.” “lo so. anche tu.” Rispose lei in un sussurro. “si, lo so. vuoi piantarla di infierire? Non era mia intenzione farlo, ok? Avrei dovuto starti vicino..” “si, avresti dovuto. Quindi?” Tris era fredda, rispondeva come una macchina, senza macchia d’emozione nella voce. Andrea la guardò stranito. “non fare quella faccia. Prenditi della Vodka e torna qui, magari da ubriaco farai discorsi più sensati e vivaci di questo.” “Tris, quante ne hai bevute di queste?” chiese lui indicando la bottiglia che la ragazza stava facendo girare sul tavolo. Lei sorrise storto, scuotendo un po’ la testa. “e io che ne so?!” rispose con leggerezza, come se non le fosse mai importato un accidente di niente. “ok, adesso alzati, se ci riesci e torniamo al campus.” Il tono di Andrea le lasciava poca scelta, ma per tutta risposta, Tris ridacchiò. “perché, chi sei tu? Mia madre? E poi non darei ascolto neanche a lei.” disse convinta. Andrea alzò gli occhi al cielo, scostò la sedia dal tavolo, prese la ragazza da sotto le gambe, facendole passare un braccio dietro la schiena e la sollevò di peso. “volente o nolente tu vieni con me” disse tra i denti e poi s’incamminò verso l’uscita del locale. Tris si dibatté, scalciando, finché non furono fuori dal locale e Andrea la mise giù, schiacciandola contro il muro, facendola prigioniera del suo corpo. Il petto di Andrea si alzava e si abbassava contro il suo, rendendole difficile respirare a fondo, il suo bacino incollato al proprio, un ginocchio appoggiato alle sue gambe. Le labbra le tremarono leggermente e se le morse, per nasconderlo. Voltò la testa di lato, guardarlo negli occhi, adesso, le era impossibile. Non le venne da piangere, come s’aspettava, anzi, rimase con lo sguardo fisso sulle case del vicolo, ma il respiro affrettato la tradiva. Andrea se ne rese conto pochi secondi dopo, continuando a fissarla. Pian piano le lasciò andare i polsi, finora stretti nelle mani callose del ragazzo. “adesso te ne vai a letto, intesi? E mentre vai al dormitorio non fare stronzate.” Come ferito, più da sé stesso che da lei, fece per allontanarsi, ma la voce di Tris lo fermò. “vieni con me ti prego..” il sussurro strozzato che uscì dalla bocca della ragazza suonò alle orecchie di Andrea come la cosa più bella del mondo. Si voltò verso di lei e la prese per mano con cautela. Fece scivolare le dita tra le sue con leggera dolcezza, attenzione. poi strinse un po’, come per confermare la sua risposta e cominciarono a camminare, insieme, sotto quella dannata pioggerellina che non smetteva mai di scendere. Quando arrivarono al dormitorio salirono le scale con lentezza, perché le gambe di Tris sembravano starsi sciogliendo come burro ad ogni passo. in corridoio, Andrea si passò un suo braccio sulle spalle e la trascinò fino alla 121. “Tris. Tris… le chiavi” il ragazzo cercò di svegliarla da quel sonno che sembrava averla avvolta in una strana incoscienza, ma lei gli si aggrappò al collo con entrambe le braccia, appoggiando la testa sul suo petto. “tasca posteriore dei Jeans.” La voce flebile della ragazza si spense subito, sostituita da un respiro altrettanto sussurrato e che come un venticello estivo, si abbatté caldo sul collo di Andrea. Il ragazzo sospirò, nel suo modo spazientito, ma poi s’accorse della sua mano che stringeva la schiena di Tris per sostenerla e.. il suo sguardò s’addolcì, come il suo respiro che rallentava. Con discrezione fece scivolare l’altra mano sulla felpa della ragazza, sollevandone l’orlo per raggiungere la tasca dei pantaloni e farci scivolare dentro due dita. Si sentiva strano, imbarazzato come mai in vita sua, nonostante Tris fosse la sua migliore amica e lui le stesse solo facendo un favore e premesso che lei, probabilmente, non avrebbe ricordato il viaggio della sua mano su di lei. in ogni caso si sentiva strano e voleva che tutto questo finisse al più presto. Dopo qualche sforzo e un po’ di pressione sulla porta, Andrea riuscì ad aprirla e a scivolarci dentro, con Tris che si muoveva solo per inerzia. Chiuse l’uscio con una pedata e quando furono più o meno vicini al letto, la prese in braccio, depositandola sulle lenzuola e coprendola con le coperte. Ripiegandone l’orlo, sedette sul bordo del letto e guardò il viso della ragazza per un momento. La luce dei lampioni entrava dalla finestra aperta, illuminandole gli zigomi e le labbra. La carnagione sembrava ancor più pallida in quella luce zenitale e i capelli, scombinati sul cuscino, portavano riflessi ambrati sul bianco della federa. Andrea sorrise, passandole un dito sul braccio che usciva dalle coperte. Poi voltò lo sguardo sul comodino, trovandoci l’album da disegno aperto su una delle ultime pagine. Lo prese in mano, avvicinandoselo per guardare meglio. Appena comprese che cosa avesse disegnato, lasciò cadere il blocco di fogli tanto era stupito. Il rumore sordo aveva fatto muovere Tris, facendola rannicchiare su un fianco, più verso di lui. Il ragazzo continuò a tenere gli occhi spalancati e la bocca socchiusa, mentre si sentiva afferrare il polso da quelle dita affusolate che stringevano delicate sulla sua pelle. “non andartene ti prego- la voce della ragazza non era più impastata di sonno come quando gli aveva risposto per le chiavi. Era più vigile e forse un po’ più triste. Andrea levò il polso dalla sua stretta e Tris spalancò gli occhi , come spaventata. Ma il ragazzo allungò la mano verso di lei, passandola fra quei capelli ricci indisciplinati, per poi voltarle le spalle e armeggiare vicino al pavimento. La ragazza si sollevò su un gomito e si sporse da dietro le sue spalle per capire che stesse combinando. Constatò che si stava slacciando le scarpe e sorrise un po’, per poi stendersi di nuovo e rannicchiarsi su un fianco, facendo spazio al ragazzo. Dopo poco Andrea era steso anche lui su un fianco, faccia a faccia con Tris, un braccio sotto al cuscino, l’altro fermo sulla piccola porzione di materasso che li separava. Tris invece, cercava di farsi sempre più piccola nell’enorme felpa grigia di cui ora tirava i polsini per coprirsi le mani. Andrea la guardò rannicchiarsi e poi aprire gli occhi, puntandoli nei suoi. Nell’oscurità della stanza, quelle iridi fulve diventavano grigie e tutto sembrava una vecchia foto in bianco e nero. Poi Tris sembrò aver l’intenzione di dire qualcosa, perché schiuse le labbra e Andrea la sentì chiaramente prendere fiato. Però le sue corde vocali non produssero nessun suono. Solo un sospiro, prolungato, esasperato. E d’un tratto fu come se lei non riuscisse più a sostenere il suo sguardo. Infatti si voltò sull’altro fianco, fissando un punto a caso della stanza, senza nemmeno vederlo. La mano del ragazzo allora si scostò dalle lenzuola, andando a poggiarsi sul fianco di lei. Tris sobbalzò al suo tocco, cercando di allontanarsi, ma il bordo del letto non le permetteva maggior spostamento di quello e la stretta di Andrea non la lasciava andare, le dita che si stringevano ancora di più su di lei. la ragazza rimase immobile, il respiro che cominciava a mancarle. Poi Andrea si tirò su, sostenendosi con il gomito e prese ad accarezzarle il braccio, percorrendo con le dita le pieghe della felpa. Arrivato al polsino, stretto nel pugno di Tris, tirò leggermente la stoffa, ma le dita di lei rimanevano dov’erano. Allora lui accarezzò il pugno stretto attorno alla manica, cercando di farle allentare la presa e, dopo qualche minuto, ci riuscì. Tris aveva mollato la manica e ora cercava le dita di Andrea con le sue. Finalmente riuscì ad imprigionarne uno in una stretta leggera, prima che si divincolasse per tirarle su la manica. Poco dopo quelle dita corsero a sfiorare quella porzione di pelle scoperta, facendole venire i brividi. D’un tratto Tris voltò la testa verso il ragazzo, ritirando il braccio, allarmata. Voleva urlargli di piantarla, di smettere di giocare, sapendo cosa provava per lui, ma… le parole e la rabbia le morirono in gola quando si ritrovò a fissare il viso di Andrea da una così poca distanza, una distanza millimetrica, che le permetteva di contare le striature dorate nei suoi occhi fulvi. “che stai facendo?” chiese soltanto, in un sussurro. Il ragazzo le prese i fianchi, in modo che fosse supina e si avvicinò ancora al suo viso, quasi a sfiorarlo con il proprio. “quello che è giusto.” Mormorò sulle sue labbra, prima di farle poggiarle completamente a quelle di Tris in un bacio leggero. Staccandosi piano la guardò negli occhi e poi scese al collo, soffiandole sulla pelle mentre parlava ancora. “quello che voglio.” E la baciò appena sotto la linea della mandibola. Per poi tornare faccia a faccia con lei, tuffandosi in quell’abissale color cioccolato in cui si era sempre perso e solo ora se ne rendeva conto. “quello che non ho voluto fare per troppo tempo..” e fece aderire di nuovo la bocca a quella di Tris, che restava immobile, con il cuore che le batteva a mille. Avrebbe voluto chiedergli perché. Perché ora, perché in un momento del genere. Perché rischiare che non lo ricordasse allo schiarire dell’alba. Ma in quel momento non le importava davvero di nessuna di queste cose. Voleva solo sentire quelle labbra morbide su di lei. quella bocca che dalla sua scendeva al suo collo, spostando la stoffa della felpa per posare baci caldi sulle sue clavicole; sentire quelle mani ruvide poggiarsi sulle sue spalle, scivolare sulle sue braccia e infine stringerle la cassa toracica e i fianchi, mandandole scosse e brividi di piacere ovunque, mentre quelle dita dribblavano il tessuto della felpa e cominciavano ad accarezzarle la pelle. Tris aveva chiuso gli occhi per sentire a pieno tutte quelle sensazioni.. il freddo dell’anello d’acciaio che Andrea portava sempre, che a contatto con la pelle della sua schiena la fece inarcare, portandosi più verso il ragazzo, che la strinse.. ed ecco un altro dettaglio, il graffiare del bracciale di cuoio intrecciato che portava sul polso sinistro, quello che le aveva regalato lei e che lui non aveva mai tolto… il fruscio del morbido tessuto della maglietta di Andrea tra le sue dita. La sua pelle liscia sotto le unghie e i muscoli sotto di essa che si tendevano allo sfiorare di un punto più sensibile. Tris non era consapevole del momento in cui avesse mosso anche le sue di mani, andando ad accarezzare le spalle del ragazzo, ma ora si rendeva conto di star saggiando il suo corpo con tocchi decisi, come di studio. Voleva sapere, conoscere ogni parte che ogni giorno lo materializzava davanti a lei. Tutt’a un tratto poi Andrea si puntellò sulle ginocchia, passando le mani sotto la sua schiena, tirandola su con sé in una posizione seduta. La sollevò dal materasso, facendola sedere sulle sue gambe, con il bacino che aderiva al suo. Tris gli accarezzò il collo con una mano, l’altra salda sulla sua spalla sinistra, le gambe ad avvolgergli i fianchi. Anche lei si tuffò negli occhi dorati e liquidi di lui, per poi tirarlo a sé e questa volta baciarlo come non aveva mai immaginato di poter fare. Fece sempre più pressione con le labbra su quelle di lui, voleva fargli capire che non c’era nient’altro, nessun’altro che volesse se non lui. Lo voleva sempre più vicino a sé, quasi che potessero fondersi come metalli in una lega nuova. Andrea si staccò da lei soltanto per sollevarle la felpa, fermandosi a metà, come per chiederle il permesso e lei alzò le braccia, invitandolo a levargliela del tutto. Senza aspettare di sentire il suo sguardo su di sé, Tris corse alla maglietta del ragazzo con impazienza, restando a rimirare il suo fisico perfetto. Ma ora che era fatta, lui aveva preso a guardarla, ad osservare le sue curve e Tris si sentiva quasi in imbarazzo. Sapeva di non essere un gran che, con quelle clavicole sporgenti e il fisico che aveva. Aveva voltato il viso allora, non volendo incontrare uno sguardo probabilmente deluso. Senza dire nulla, Andrea sorrise leggermente alla vista della timidezza di quella ragazza tanto sfacciata. Allungò le mani, carezzandole le spalle, contando le costole una ad una per scendere sui fianchi, sulle gambe ancora coperte dai pantaloni. Nel sentire la delicatezza e l’attenzione con cui la sfiorava, Tris cominciò a seguire con lo sguardo le mani del ragazzo, finché con estrema calma non risalirono al suo petto, fermandosi dove più o meno c’è il cuore, dove se ne sente maggiormente il battito. Tris inspirò di colpo e fece per allontanarsi un po’, ma Andrea non glie lo permise. Con una mano dietro la sua schiena la strinse a sé, affondando la testa nell’incavo del suo collo. Tris rimase stupita, ma poi poggio anche lei la testa alla sua, carezzandogli i capelli con delicatezza. Senza nemmeno accorgersene, si trovarono stesi, abbracciati, con Tris rannicchiata tra le bracci di Andrea, i due corpi pigiati l’uno contro l’altro, i respiri caldi che s’incrociavano e le coperte che li proteggevano dal mondo esterno al loro.
   
 
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