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Autore: Briseide    14/01/2009    5 recensioni
Post-Hogwarts. Pansy Parkinson e un matrimonio che non vuole da organizzare.
Blaise Zabini intorno a lei a renderle difficile il compito.
Millicent Bullstrode a rendere difficile il compito di Blaise Zabini.
E Draco Malfoy, che di sparire nel cassetto dei ricordi non vuole proprio saperne.
STORIA COMPLETA [revisione in corso]
Genere: Introspettivo, Malinconico, Romantico | Stato: completa
Tipo di coppia: Het | Personaggi: Blaise Zabini, Millicent Bullstrode | Coppie: Draco/Pansy
Note: nessuna | Avvertimenti: nessuno | Contesto: Dopo la II guerra magica/Pace
Capitoli:
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The Way We Were

 

IV

Memoria.

 


I saw you this morning.
You were moving so fast.
Can’t seem to loosen my grip
on the past.
And I miss you so much.
There’s no one in sight.
And we’re still making love
in my secret life.

[In my secret life – Leonard Cohen]

 

«Pansy, tesoro».

Theodore Nott aveva da sempre avuto la lesiva tendenza a cercare compromessi con Pansy Parkinson, fin dai tempi di Hogwarts. La maggior parte dei compagni di Casata, e i Caposcuola delle altre tre Case avevano capito ben presto quale fosse la cosa più conveniente da fare: darle ragione, o offrire qualcosa in cambio, per cui valesse la pena una sua ipotetica concessione.

Invece Theodore aveva quella ridicola ossessione che hanno tutti gli innamorati, ed era ancora convinto di poter ottenere un dialogo con lei.

Pansy non si era fatta scrupoli e sin dall’inizio della loro relazione aveva lasciato ad intendere di avere ben poca voglia di parlare, in primo luogo di sé. Theodore sosteneva di non averne bisogno. Era già innamorato di lei, di quello che lei non sapeva neanche di avere.

Pansy ci aveva riflettuto, poi aveva deciso di poter fingere che lui avesse ragione e che così fosse davvero. Di avere dei lati nascosti che meritavano l’affetto a tal punto sincero di un uomo onesto e generoso di sentimenti come era Theodore Nott. Si era sempre chiesta che ci facesse uno come lui a Slytherin, come avrebbe potuto sopravvivere lì in mezzo, lui che aveva ancora tanta fiducia nelle persone. Invece ce l’aveva fatta, perché lo aveva scoperto un ottimo calcolatore. Non gli piaceva ma all’occorrenza non opponeva principi. Lì giaceva la sottile differenza tra uno Slytherin e un Gryffindor dal cuore d’oro.

«Sei sicura? Possiamo sempre ritrattare su qualcosa di meno… estroso. So che odi discutere con mio nonno, ma per il nostro matrimonio potrebbe anche tacere una volta tanto».

Pansy lasciò ricadere i propri capelli sulle spalle, sciogliendo lo chignon.

Aveva addosso tutti gli odori della serata, un miscuglio di profumi e acque di colonia, e tutto quello che poteva desiderare era un po’ di silenzio e un bagno caldo.

«Theo, sono troppo stanca per pensarci ora. Il silenzio di tuo nonno vale cento orrori floreali».

La sua voce andò spegnendosi mentre riponeva collana e orecchini al loro posto, e lasciava riempire la vasca di acqua bollente, immergendovi scaglie di sapone da aromi particolari.

«Prima o poi dovrete andare d’accordo» borbottò Theo dalla camera da letto, riponendo la cravatta nel primo cassetto del suo comodino. Pansy finse di non sentirsi soffocare dalla meticolosità di quel gesto. Quella sera aveva dovuto fingere di non notare molte cose e il risultato era un pessimo umore, un terribile mal di testa e un vuoto all’altezza del cuore.

Una tristezza diffusa e irreparabile, che sperava sarebbe scivolata via con quel bagno di mezzanotte.

«Non lo trovo così necessario» mormorò lasciando scivolare in terra la sottoveste.

Theodore percorse con lo sguardo il profilo del suo corpo, cercando di conservare un po’ dell’amarezza per l’indifferenza di sua moglie verso i futuri parenti. Ma il candore della sua pelle e i segni appena lasciati dal corpetto del vestito che aveva indossato quella sera gli rendevano il compito difficile.

«E’ quanto di più simile a un padre abbia avuto, Pansy».

Tentò di giustificarsi e di farle capire le proprie ragioni, ma non ebbe risposta. Nel silenzio della stanza risuonò l’incresparsi dell’acqua, che avvolse il corpo di sua moglie.

Pansy non avrebbe mai dato ascolto a ciò che non voleva sentire. Era fatta così e quella sua reticenza lo faceva diventare matto e innamorare ogni giorno di più. Si sentiva stupido, un bambino davanti alla prima immagine di donna della sua vita. Eppure ne aveva viste tante.

Raggiunse cauto la porta del bagno, fermandosi sullo stipite.

Pansy aveva gli occhi chiusi, giaceva nella vasca con una serenità d’animo tale da sembrare che fosse raccolta nell’abbraccio di qualcuno.

«Pans».

Mormorò, la voce rauca che cercò di sembrare conciliante prima che desiderosa di lei.

«Lo so Theo, lo so. Mi dispiace».

Di cosa ti dispiace? Avrebbe voluto chiederle lui. Ma la risposta era un pericolo alla sua felicità. Non aveva sentito quello che aveva da dirle, eppure aveva pronunciato quelle scuse con una placida sicurezza, che avrebbe ingannato chiunque. Theo sorrise, tanto lei non avrebbe potuto vederlo.

Così le dispiaceva, a priori. O forse c’era della sincerità in quelle parole, e si scusava per tutto quello che a lui non voleva concedere, perché non era Draco Malfoy.

«Riparliamone domani mattina» le propose scostandosi dallo stipite e raggiungendo la vasca.

Respirò il profumo di fiori asiatici, nel chinarsi a baciarle la fronte. Immaginò il momento in cui Pansy lo avrebbe raggiunto a letto, per dormire. La sua pelle avrebbe avuto quel profumo e lo avrebbe impresso tra le lenzuola e sul cuscino, così il mattino dopo lui avrebbe avuto in piccola parte l’odore di Pansy.

Non resistette oltre, non potendo aspettare il mattino. Una mano andò a posarsi sul bordo della vasca, mantenendo un equilibrio.

L’ombra del corpo di Theodore ridestò Pansy dai suoi vagheggi. Dischiuse pigramente gli occhi, aprendoli su Theodore e lo sguardo di richiesta e intenzione che aveva nello sguardo e tra la piega delle labbra. Non disse niente, aspettò che facesse ciò che voleva.

Certi giorni non poteva a fare a meno di concedersi perché sapeva che non avrebbe mai potuto dargli altro che quello.

Così si lasciò baciare, accarezzando il suo collo con le dita umide e calde. Lo attirò a sé lentamente, con grazia ma senza tenerezza. Theodore si chiese se anche quello sarebbe stato così per sempre.

«L’acqua è ancora calda» mormorò lei, avvicinandolo ancora a sé. Theodore lasciò scivolare dalle spalle la camicia e tutto il resto lo gettò a terra, senza distogliere lo sguardo da Pansy e da quello che le sue mani stavano facendo su di lui.

Sapeva di essere vinto e di averla data vinta a lei, per i fiori, per suo nonno, per quella discussione.

Non riusciva a fermarsi. Si immerse nell’acqua, accarezzando il suo corpo e rabbrividendo per il calore dell’acqua e il contatto con Pansy. Lei gli lasciò sufficiente spazio, si adagiò contro il suo corpo possente e lasciò che la toccasse e baciasse e le parlasse all’orecchio.

I loro corpi sapevano stare vicini, eppure non combaciavano perfettamente.

Nessuno dei due aveva mai sentito quella perfetta unione, conoscevano un’armonia spezzata, che mai sarebbe stata sincronia.

«Pans…» si mossero le labbra di Theodore ma non finirono la frase. Forse non c’era niente da dire se non quello. Pansy. Era un’ossessione, lo era sempre stata da quando era diventata grande, e aveva smesso di avere le fattezze acerbe di una bambina. Pansy.

«Credo che-» aveva fatto per aggiungere, quando lei era scivolata tra le sue gambe, con un guizzo leggero dell’acqua e un aroma di fiori dalle radici lontane, come era lei. Tra le sue gambe, contro e dentro di lui, ma lontana, terribilmente lontana.

«Sssh» lo interruppe lei, poggiandogli le dita sulle labbra, poi sulla bocca, premendo perché ricacciasse indietro qualsiasi parola. Non voleva sentirsi dire niente. Perché quello era il momento in cui avrebbero fatto l’amore, in cui sarebbero divenuti una cosa sola, e tutto quello che lei avrebbe voluto era che al posto di chiunque altro ci fosse di nuovo Draco.

Non voleva sentire nessuna voce, né guardare nessun viso, o odorare nessun corpo. Non sarebbe stata la voce calda di Draco, così calda a dispetto della freddezza dei suoi occhi; né i lineamenti affilati e precisi del suo viso, né l’odore della sua pelle, che era suo e di nessun altro uomo. Non voleva saperne niente, continuava a pensare, mentre Theodore sprofondava in lei, rimpiangendola nel prenderla, rammaricandosi di averla voluta.

Chiuse gli occhi anche lui, mentre lei sospirava su un pensiero che vedeva un altro protagonista, e dietro gli occhi chiusi vedeva l’immagine di Pansy la prima volta che l’aveva desiderata, quando aveva davvero potuto pensare che un giorno sarebbe stata sua.

Su quel pensiero, la loro unione in quella vasca da bagno si accese e si spense, fievolmente, tra i loro gemiti che erano sospiri, e i loro desideri che in realtà erano ancora inappagati per entrambi.

 

●●●

 

Oh chosen love, Oh frozen love
Oh tangle of matter and ghost
Oh darling of angels, demons and saints
And the whole broken-hearted host
gentle this soul

[The window – Leonard Cohen]

 

Il giorno dopo Millicent si presentò di mattina presto a casa Nott, scortata dalla sarta rapita senza troppe cerimonie dal negozio di Madama McClan. Pansy l’aveva accolta in sottoveste e a piedi nudi, facendole cenno di raggiungerla nella camera da letto, al piano di sopra.

Millicent la seguì riluttante. Era sempre in imbarazzo quando si trattava di entrare nella stanza in cui qualcuno aveva dormito con un altro uomo. Sentiva che un posto del genere avrebbe dovuto essere off-limits, troppo privato per poterlo dividere con la presenza di un terzo, di un estraneo.

Pansy lasciò la porta aperta per lei e la sarta, e Millicent come altre volte non si oppose se non con uno sguardo vago.

«Theodore non c’è?»

Le chiese mentre la sarta in un silenzio meticoloso indicava a Pansy di salire in piedi sulla cassapanca riposta ai piedi del letto. Millicent cercò con lo sguardo lo sgabello della volta prima. Lo individuò nell’angolo della stanza, coperto da un telo, adagiato lì quasi per caso, come se Pansy non vi fosse mai salita con il suo abito da sposa indosso.

«Lavora»

Rispose Pansy distrattamene, mentre la sarta prendeva le misure per accorciare il vestito dell’abito da ricevimento per quella sera.

«Ma è domenica mattina».

Osservò Millicent facendosi di lato per non essere di intralcio alla donna. Quella la guardò con aria torva, appuntando uno spillo all’orlo del vestito.

«Non troppo corto».

Pansy ignorò l’appunto di Millicent, guardando ai propri piedi, pur senza prendere fuoco allo sguardo lanciatole dalla sarta. Srotolò un po’ del tessuto, per allungarlo come richiesto. Millicent assisteva alla scena senza perdersi un passo dell’operazione, ma trovava il tempo per puntare due occhi accusatori su Pansy ad ogni occasione.

Non solo il vestito doveva essere più corto secondo il modello; non solo aveva annunciato il matrimonio prima a Blaise che a lei, che era la sua migliore amica nonché damigella d’onore, ma si permetteva anche di fingersi del solito umore e di non menzionare affatto quel piccolo particolare riguardo il ricevimento di quella sera.

«Theodore non avrebbe avuto niente a che ridire, sull’orlo del vestito».

Commentò piccata dopo l’ennesimo sguardo scoccato a Pansy e che l’amica aveva prontamente evitato. Pansy la fissò glaciale, dall’alto della cassapanca. Era mezza svestita, con i capelli sciolti a coprire il viso e le spalle, a piedi nudi e senza un filo di trucco sul viso, ma aveva ancora la stessa fierezza e la stessa intransigenza nel portamento che aveva ad Hogwarts, con la spilla di Caposcuola appuntata sul petto.

«Theodore non ha mai niente da ridire».

Rispose seccata, con una certa punta di veleno. Millicent rise nervosamente.

«Lo sventurato è troppo innamorato».

«E’ una sua scelta amarmi, io non gli impongo niente».

La sarta per poco non si punse con lo spillo, colpita dal gelo nella voce di Pansy. Si sentiva pericolosamente di troppo in quella stanza, nel bel mezzo di una contesa taciuta e per questo ben peggiore di tante altre.

«A parte la sfacciataggine di Blaise Zabini e un invito in carta bollata a Draco Malfoy al ricevimento di questa sera».

Pansy si ritrasse di scatto, sbilanciandosi quasi all’indietro, come punta da uno spillo. La donna sollevò lo sguardo terrorizzata, eppure timidamente certa di aver fatto attenzione a non sfiorare la pelle liscia di Miss Parkinson neanche con un’unghia della sua mano callosa di sarta.

«Non si preoccupi, non è colpa sua, è la signora Nott che ha una allergia istintiva al nome Malfoy».

A quel punto Judith Hossas fu certa di essere nel bel mezzo di una guerra civile.

Le labbra di Pansy disegnavano una linea sottile ed esangue, a metà tra lo stupito e l’oltraggiato di tanta malignità proprio da parte di Millicent Bullstrode.

«Il vestito è perfetto così, grazie per il suo tempo» mormorò infine, scendendo dalla cassettiera con un movimento nervoso, nonostante l’usuale delicatezza della movenza. I piedi nudi a contatto con il pavimento gelido di marmo le mandarono un brivido lungo la schiena, ma era niente in confronto allo spillo che sentiva ruotare sulla propria punta, al centro dello stomaco.

«Soffri molto per il cuore del mio povero marito?» domandò mentre Miss Hossas lasciava la stanza il più in fretta possibile.

Millicent si voltò a guardare Pansy, cercandone lo sguardo per assistere vittoriosa alla perdita dell’usuale compostezza emotiva che gli era propria. Non lo faceva con la cattiveria che Pansy, sulla difensiva, le aveva certamente attribuito.

Per chi non conoscesse Pansy, era facile provare astio nei suoi confronti. Così fredda e scostante, altera e supponente, mai generosa verso gli altri, abile a contrattare, pessima nel chiedere scusa, restia a qualsiasi elargizione di affetto ed estranea ad ogni tenerezza.

Ma altrettanto era impossibile agire con cattiveria nei suoi riguardi, per chi conosceva la storia della sua glacialità.

«Soffro molto per te, stupida».

Rispose Millicent, senza fare niente per celare la durezza della propria voce. Non attese neanche di vedere quanto e come avesse colpito nel segno, quanto l’avesse stupita, in che modo Pansy avesse abbassato lo sguardo, e strattonato il vestito per sciogliersi dal nodo soffocante dei suoi lacci.

Uscì dalla stanza a testa alta, dispiaciuta per quella incapacità di Pansy di rendersi felice.

 

●●●

 

Walk me to the corner
Our steps will always rhyme,
You know my love goes with you
As your love stays with me,
It’s just the way it changes
Like the shoreline and the sea,
But let’s not talk of love or chains
And things we can’t untie,
Your eyes are soft with sorrow,
Hey, that’s no way to say goodbye.

 

[Hey, that’s no way to say goodbye – Leonard Choen]

 

Astoria Malfoy aveva chiuso gli occhi su molte cose, perché sua madre le aveva consigliato di farlo, e lei di sua madre si era sempre fidata ciecamente. Il modello di paragone da non seguire era sempre stato quello di sua sorella maggiore, e con il tempo era divenuta una rivale più che un esempio di scelte da non replicare.

Su quel matrimonio Daphne aveva gettato oscuri pronostici, con un’aria irrisoria e l’espressione sorniona di chi conosce molti retroscena che le consentono la certezza di quanto asserito.

Astoria non chiese mai di cosa fosse a conoscenza, perché credeva in quel matrimonio e nella sua possibilità di riuscita.

Per consolarla della malignità di Daphne – che forse altro non era che una manciata di sincerità proposta con troppo sarcasmo per poter essere colta nella sua veste di buona intenzione – sua madre le aveva svelato dei piccoli trucchi del mestiere.

Astoria venne a sapere che non in tutti i matrimoni l’amore è il presupposto, in alcuni si crea vivendo insieme, e così sarebbe stato nel suo caso.

Ma sua madre non le aveva detto di quanto fosse difficile combattere con il fantasma di un vivo.

 

Se Pansy Parkinson fosse morta, Astoria avrebbe potuto fare leva sulla crudeltà del destino e l’inevitabilità delle leggi di natura. Avrebbe potuto parlare a suo marito della necessità di un compromesso storico, del bisogno che c’è di andare avanti, guardando sempre dritto e altre amenità retoriche di questo tipo.

Ma Pansy era viva.

Era viva nel cuore di suo marito, era viva tra le lenzuola del loro letto, e si insinuava in ogni suo timore, in ogni suo pensiero, in ogni desiderio partorito per sé e Draco.

«Astoria, sei tu che devi dargli sicurezze. Se non ti mostri sicura del vostro matrimonio, come pretendi che lo sia lui?» le disse sua madre la sera in cui la figlia minore si presentò pallida e tesa alla casa natia. Daphne era uscita in silenzio dalla stanza, biasciando qualcosa che Astoria preferì non ascoltare.

«Draco? Sei pronto?»

Si affacciò alla porta della loro camera, cercando con lo sguardo la figura del marito. Draco si voltò a guardarla, distratto. Era molto bella e i capelli raccolti in quel modo la facevano sembrare quasi una bambina. E invece, era sua moglie.

«Metti quella».

Aggiunse entrando e raggiungendolo davanti all’armadio. Si sporse sulle punte, per raggiungere la cravatta riposta più in alto. Le dita smaltate si allungarono fino a prenderla per un lembo, e con un sorriso soddisfatto la annodò al collo di Draco.

Lui la lasciò fare incurante, perso in tutt’altri pensieri, fino a quando lei non lo indirizzò verso lo specchio.

«No. Questa no. »

Replicò affrettandosi a sciogliere il nodo. Le dita si insinuarono velocemente tra la stoffa, desiderose di liberarsi di quel cappio, mentre lui lottava contro tutto quello che avrebbe preferito tenere rilegato lassù, nel posto tanto in alto che aveva riservato a quella cravatta.

«Perché no? Non la metti mai».

Finalmente Draco sciolse il nodo, lanciando la cravatta sul letto dietro di sé e massaggiandosi il collo. Astoria gli lanciò uno sguardo perplesso senza celare un’ombra di gelosia. Quella cravatta aveva una storia di cui lei non aveva fatto parte e che lui non le avrebbe mai raccontato, se non fosse stato per quell’incidente.

«E’ maledetta?»

Scherzò facendo per prenderla e rimetterla a posto, ma poi ci ripensò, lasciandola lì, gettata sul letto.

«L’ho messa al funerale del padre di Blaise».

Spiegò lui, chiudendo le ante dell’armadio.

«Niente cravatta, non importa».

Astoria annuì, mordendosi un lato di labbro. Blaise aveva avuto diversi padri e per nessuno di questi aveva mai versato una lacrima; e nessuno di loro gli aveva lasciato guai finanziari o dispiaceri troppo grandi nel morire. C’era qualcosa che le sfuggiva. La cravatta, quando Draco chiuse la porta della loro stanza, era ancora lì sul letto, dal lato di Draco.

 

«Secondo te si intona più il rosso o il blu al legno della bara?».

Pansy decise subito che a quella domanda non avrebbe risposto.

Aveva già espresso il suo parere in merito ai gemelli della camicia in abbinato ai fiori lungo la navata; alla riga dei capelli in ordine simmetrico con la disposizione delle teste dei presenti, ed era giunta alla conclusione che quello fosse un modo molto tenero, pur nel suo sarcasmo, per dare dimostrazione di essere preoccupato per il proprio migliore amico. Quindi aveva lasciato che le domande scivolassero lungo le pareti della stanza e la superficie piana dello specchio, davanti al quale Draco faceva oscillare due cravatte di stoffa pregiata di taglio classico.

Non essendogli giunta risposta, cercò nello specchio la sua interlocutrice. Alle sue spalle la figura minuta di Pansy Parkinson si rifletteva nitida. Il candore della sua pelle era rischiarato dal gioco di luce-ombra del vestito scuro.

 Sembrava un’opera d’arte, l’immagine di un dipinto. Invece si muoveva, lentamente, mentre chiudeva il cinturino dell’orologio sul polso sottile e alzava i suoi occhi su di lui. Neri. E tra il nero dei loro abiti, e il buio della stanza, quegli occhi erano l’unica oscurità che invece mandava bagliori. Draco la guardò, assottigliando impercettibilmente la piega delle labbra.

«Sei pronta?»

Le domandò portando le mani alle tasche dei pantaloni. Si sentiva impacciato in quel vestito da funerale. Pansy sorrise al suo disagio, e andò a recuperare una cravatta dall’armadio della sua stanza. Nel passargli accanto, baciò la piega del suo collo, nello stesso punto in cui aveva posato le labbra la notte prima, dopo che Blaise se ne era andato, lasciando detto ora e luogo della cerimonia.

Nel silenzio di Malfoy Manor, di cui per quei due giorni e quelle due notti erano stati i soli padroni, avevano stappato una bottiglia di vino rosso. Avevano brindato senza avere un reale motivo. Blaise aveva inventato che si potesse brindare in nome dei motivi futuri che avrebbero avuto, e in nome di quel pensiero surreale e poco credibile avevano finito la bottiglia.

Quando Blaise aveva fatto ritorno a casa, per vegliare una madre che non aveva bisogno di essere vegliata, lei e Draco erano entrambi un po’ ubriachi.

La bottiglia vuota era rotolata sul pavimento. Scivolò leggera e veloce sulle mattonelle, arrestandosi sotto al letto in cui loro fecero l’amore. Perché la mattina dopo ci sarebbe stato il funerale, e tutti e due volevano qualcosa a cui pensare quando avrebbero preso atto – insieme a Blaise – che la morte è reale, e che prima o dopo, arriva per tutti. 

 

 

What’s next

 

«Non c’erano possibilità di scelta».

«Questo perché non siamo stati educati a scegliere il rischio, Draco»

 

“La baciò e nel farlo ritrovò consistenza e misura di sé”.

 

 

Thanking…

 

valy88: Grazie mille! Essendo Draco/Pansy la mia droga cercherò indegnamente di far entrare il lettore nel tunnel… è quel che cerca di fare ogni onest- bravo spacciatore ^^

Hermione 93: Il vero motivo vorrei tanto saperlo anche io, almeno avrei una ragione seria per maledire la Rowling e Miss Greengrass. Davvero non capirò mai il senso di aver demolito per 5 libri la povera Pansy se alla fine neanche se l’è sposato Draco. Mah. XD Grazie per la recensione, qui c’è un piccolo assaggio di quel che verrà ^^

 

Entreri: *cerca di spiccicare qualche parola senza dare a vedere la commozione* XD Grazie, davvero *_* Millicent qui mi suggerisce che di sicuro in comune con l’altra fic c’è la costanza del suo amore per Blaise XD

 

sweetchiara: Mi consola sapere che è passato quello che pensavo io stessa di Draco =) Mi dispiace per la povera fine che è toccata in sorte anche a lui, la divinizzazione lo ha costretto a vedere il suo lato umano come la peggiore infamia che potesse capitare a un Malfoy. Io insisto a dire che è molto più verosimile lui che il SuperPottu dei primi libri. I Gryffindor alle volte mi sembrano OGM a metà tra la Fata Turchina e il Giudice Amy. / *apprezza che apprezzi la pubblicità* Oggi è il turno di Leonard Cohen XD Quell’uomo ha una voce che… *_*

 

B e r t a: Blaise ringrazia ma infondo non gli giunge niente di nuovo, tende ad essere adulato dal mondo intero e se ne compiace da prima ancora di essere nato, tanto per essere previdenti. Grazie per l’apprezzamento, spero che anche questo capitolo non deluda aspettative varie. un bacio.

 

 

  
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