The
Way We Were
IV
Memoria.
I saw
you this
morning.
You were moving so fast.
Can’t seem to loosen
my grip
on the past.
And I miss you so much.
There’s no one in
sight.
And we’re still
making love
in my secret life.
[In my secret life –
Leonard Cohen]
«Pansy,
tesoro».
Theodore
Nott
aveva da sempre avuto la lesiva tendenza a cercare compromessi con
Pansy
Parkinson, fin dai tempi di Hogwarts. La maggior parte dei compagni di
Casata,
e i Caposcuola delle altre tre Case avevano capito ben presto quale
fosse la
cosa più conveniente da fare: darle ragione, o offrire
qualcosa in cambio, per
cui valesse la pena una sua ipotetica concessione.
Invece
Theodore
aveva quella ridicola ossessione che hanno tutti gli innamorati, ed era
ancora
convinto di poter ottenere un dialogo con lei.
Pansy non si
era
fatta scrupoli e sin dall’inizio della loro relazione aveva
lasciato ad
intendere di avere ben poca voglia di parlare, in primo luogo di
sé. Theodore
sosteneva di non averne bisogno. Era già innamorato di lei,
di quello che lei
non sapeva neanche di avere.
Pansy ci
aveva
riflettuto, poi aveva deciso di poter fingere che lui avesse ragione e
che così
fosse davvero. Di avere dei lati nascosti che meritavano
l’affetto a tal punto
sincero di un uomo onesto e generoso di sentimenti come era Theodore
Nott. Si
era sempre chiesta che ci facesse uno come lui a Slytherin, come
avrebbe potuto
sopravvivere lì in mezzo, lui che aveva ancora tanta fiducia
nelle persone.
Invece ce l’aveva fatta, perché lo aveva scoperto
un ottimo calcolatore. Non
gli piaceva ma all’occorrenza non opponeva principi.
Lì giaceva la sottile
differenza tra uno Slytherin e un Gryffindor dal cuore d’oro.
«Sei
sicura?
Possiamo sempre ritrattare su qualcosa di meno… estroso. So
che odi discutere
con mio nonno, ma per il nostro matrimonio potrebbe anche tacere una
volta
tanto».
Pansy
lasciò
ricadere i propri capelli sulle spalle, sciogliendo lo chignon.
Aveva
addosso
tutti gli odori della serata, un miscuglio di profumi e acque di
colonia, e
tutto quello che poteva desiderare era un po’ di silenzio e
un bagno caldo.
«Theo,
sono
troppo stanca per pensarci ora. Il silenzio di tuo nonno vale cento
orrori
floreali».
La sua voce
andò
spegnendosi mentre riponeva collana e orecchini al loro posto, e
lasciava
riempire la vasca di acqua bollente, immergendovi scaglie di sapone da
aromi
particolari.
«Prima
o poi
dovrete andare d’accordo» borbottò Theo
dalla camera da letto, riponendo la
cravatta nel primo cassetto del suo comodino. Pansy finse di non
sentirsi
soffocare dalla meticolosità di quel gesto. Quella sera
aveva dovuto fingere di
non notare molte cose e il risultato era un pessimo umore, un terribile
mal di
testa e un vuoto all’altezza del cuore.
Una
tristezza
diffusa e irreparabile, che sperava sarebbe scivolata via con quel
bagno di
mezzanotte.
«Non
lo trovo
così necessario» mormorò lasciando
scivolare in terra la sottoveste.
Theodore
percorse con lo sguardo il profilo del suo corpo, cercando di
conservare un po’
dell’amarezza per l’indifferenza di sua moglie
verso i futuri parenti. Ma il
candore della sua pelle e i segni appena lasciati dal corpetto del
vestito che
aveva indossato quella sera gli rendevano il compito difficile.
«E’
quanto di
più simile a un padre abbia avuto, Pansy».
Tentò
di
giustificarsi e di farle capire le proprie ragioni, ma non ebbe
risposta. Nel
silenzio della stanza risuonò l’incresparsi
dell’acqua, che avvolse il corpo di
sua moglie.
Pansy non
avrebbe mai dato ascolto a ciò che non voleva sentire. Era
fatta così e quella
sua reticenza lo faceva diventare matto e innamorare ogni giorno di
più. Si
sentiva stupido, un bambino davanti alla prima immagine di donna della
sua
vita. Eppure ne aveva viste tante.
Raggiunse
cauto
la porta del bagno, fermandosi sullo stipite.
Pansy aveva
gli
occhi chiusi, giaceva nella vasca con una serenità
d’animo tale da sembrare che
fosse raccolta nell’abbraccio di qualcuno.
«Pans».
Mormorò,
la voce
rauca che cercò di sembrare conciliante prima che desiderosa
di lei.
«Lo
so Theo, lo
so. Mi dispiace».
Di cosa ti dispiace? Avrebbe voluto
chiederle lui. Ma la risposta era un pericolo alla sua
felicità. Non aveva
sentito quello che aveva da dirle, eppure aveva pronunciato quelle
scuse con
una placida sicurezza, che avrebbe ingannato chiunque. Theo sorrise,
tanto lei
non avrebbe potuto vederlo.
Così
le
dispiaceva, a priori. O forse c’era della
sincerità in quelle parole, e si
scusava per tutto quello che a lui non voleva concedere,
perché non era Draco
Malfoy.
«Riparliamone
domani mattina» le propose scostandosi dallo stipite e
raggiungendo la vasca.
Respirò
il
profumo di fiori asiatici, nel chinarsi a baciarle la fronte.
Immaginò il
momento in cui Pansy lo avrebbe raggiunto a letto, per dormire. La sua
pelle
avrebbe avuto quel profumo e lo avrebbe impresso tra le lenzuola e sul
cuscino,
così il mattino dopo lui avrebbe avuto in piccola parte
l’odore di Pansy.
Non
resistette
oltre, non potendo aspettare il mattino. Una mano andò a
posarsi sul bordo
della vasca, mantenendo un equilibrio.
L’ombra
del
corpo di Theodore ridestò Pansy dai suoi vagheggi. Dischiuse
pigramente gli
occhi, aprendoli su Theodore e lo sguardo di richiesta e intenzione che
aveva
nello sguardo e tra la piega delle labbra. Non disse niente,
aspettò che
facesse ciò che voleva.
Certi giorni
non
poteva a fare a meno di concedersi perché sapeva che non
avrebbe mai potuto
dargli altro che quello.
Così
si lasciò
baciare, accarezzando il suo collo con le dita umide e calde. Lo
attirò a sé
lentamente, con grazia ma senza tenerezza. Theodore si chiese se anche
quello
sarebbe stato così per sempre.
«L’acqua
è
ancora calda» mormorò lei, avvicinandolo ancora a
sé. Theodore lasciò scivolare
dalle spalle la camicia e tutto il resto lo gettò a terra,
senza distogliere lo
sguardo da Pansy e da quello che le sue mani stavano facendo su di lui.
Sapeva di
essere
vinto e di averla data vinta a lei, per i fiori, per suo nonno, per
quella
discussione.
Non riusciva
a
fermarsi. Si immerse nell’acqua, accarezzando il suo corpo e
rabbrividendo per
il calore dell’acqua e il contatto con Pansy. Lei gli
lasciò sufficiente
spazio, si adagiò contro il suo corpo possente e
lasciò che la toccasse e
baciasse e le parlasse all’orecchio.
I loro corpi
sapevano stare vicini, eppure non combaciavano perfettamente.
Nessuno dei
due
aveva mai sentito quella perfetta unione, conoscevano
un’armonia spezzata, che
mai sarebbe stata sincronia.
«Pans…»
si
mossero le labbra di Theodore ma non finirono la frase. Forse non
c’era niente
da dire se non quello. Pansy. Era un’ossessione, lo era
sempre stata da quando
era diventata grande, e aveva smesso di avere le fattezze acerbe di una
bambina. Pansy.
«Credo
che-»
aveva fatto per aggiungere, quando lei era scivolata tra le sue gambe,
con un
guizzo leggero dell’acqua e un aroma di fiori dalle radici
lontane, come era
lei. Tra le sue gambe, contro e dentro di lui, ma lontana,
terribilmente
lontana.
«Sssh»
lo
interruppe lei, poggiandogli le dita sulle labbra, poi sulla bocca,
premendo
perché ricacciasse indietro qualsiasi parola. Non voleva
sentirsi dire niente.
Perché quello era il momento in cui avrebbero fatto
l’amore, in cui sarebbero
divenuti una cosa sola, e tutto quello che lei avrebbe voluto era che
al posto
di chiunque altro ci fosse di nuovo Draco.
Non voleva
sentire nessuna voce, né guardare nessun viso, o odorare
nessun corpo. Non
sarebbe stata la voce calda di Draco, così calda
a dispetto della freddezza dei suoi occhi; né i lineamenti
affilati e precisi
del suo viso, né l’odore della sua pelle, che era
suo e di nessun altro uomo.
Non voleva saperne niente, continuava a pensare, mentre Theodore
sprofondava in
lei, rimpiangendola nel prenderla, rammaricandosi di averla voluta.
Chiuse gli
occhi
anche lui, mentre lei sospirava su un pensiero che vedeva un altro
protagonista, e dietro gli occhi chiusi vedeva l’immagine di
Pansy la prima
volta che l’aveva desiderata, quando aveva davvero potuto
pensare che un giorno
sarebbe stata sua.
Su quel
pensiero, la loro unione in quella vasca da bagno si accese e si
spense,
fievolmente, tra i loro gemiti che erano sospiri, e i loro desideri che
in
realtà erano ancora inappagati per entrambi.
●●●
Oh chosen love, Oh frozen love
Oh tangle of matter and ghost
Oh darling of angels, demons
and saints
And the whole broken-hearted
host
gentle this soul
[The window
– Leonard
Cohen]
Il giorno
dopo
Millicent si presentò di mattina presto a casa Nott,
scortata dalla sarta
rapita senza troppe cerimonie dal negozio di Madama McClan. Pansy
l’aveva accolta
in sottoveste e a piedi nudi, facendole cenno di raggiungerla nella
camera da
letto, al piano di sopra.
Millicent la
seguì riluttante. Era sempre in imbarazzo quando si trattava
di entrare nella
stanza in cui qualcuno aveva dormito con un altro uomo. Sentiva che un
posto
del genere avrebbe dovuto essere off-limits, troppo privato per poterlo
dividere con la presenza di un terzo, di un estraneo.
Pansy
lasciò la
porta aperta per lei e la sarta, e Millicent come altre volte non si
oppose se
non con uno sguardo vago.
«Theodore
non
c’è?»
Le chiese
mentre
la sarta in un silenzio meticoloso indicava a Pansy di salire in piedi
sulla
cassapanca riposta ai piedi del letto. Millicent cercò con
lo sguardo lo
sgabello della volta prima. Lo individuò
nell’angolo della stanza, coperto da
un telo, adagiato lì quasi per caso, come se Pansy non vi
fosse mai salita con
il suo abito da sposa indosso.
«Lavora»
Rispose
Pansy
distrattamene, mentre la sarta prendeva le misure per accorciare il
vestito
dell’abito da ricevimento per quella sera.
«Ma
è domenica
mattina».
Osservò
Millicent facendosi di lato per non essere di intralcio alla donna.
Quella la
guardò con aria torva, appuntando uno spillo
all’orlo del vestito.
«Non
troppo
corto».
Pansy
ignorò
l’appunto di Millicent, guardando ai propri piedi, pur senza
prendere fuoco
allo sguardo lanciatole dalla sarta. Srotolò un
po’ del tessuto, per allungarlo
come richiesto. Millicent assisteva alla scena senza perdersi un passo
dell’operazione, ma trovava il tempo per puntare due occhi
accusatori su Pansy
ad ogni occasione.
Non solo il
vestito doveva essere più corto secondo il modello; non solo
aveva annunciato
il matrimonio prima a Blaise che a lei, che era la sua migliore amica
nonché
damigella d’onore, ma si permetteva anche di fingersi del solito umore e di non menzionare affatto
quel piccolo particolare
riguardo il ricevimento di quella sera.
«Theodore
non
avrebbe avuto niente a che ridire, sull’orlo del
vestito».
Commentò
piccata
dopo l’ennesimo sguardo scoccato a Pansy e che
l’amica aveva prontamente
evitato. Pansy la fissò glaciale, dall’alto della
cassapanca. Era mezza
svestita, con i capelli sciolti a coprire il viso e le spalle, a piedi
nudi e
senza un filo di trucco sul viso, ma aveva ancora la stessa fierezza e
la stessa
intransigenza nel portamento che aveva ad Hogwarts, con la spilla di
Caposcuola
appuntata sul petto.
«Theodore
non ha
mai niente da ridire».
Rispose
seccata,
con una certa punta di veleno. Millicent rise nervosamente.
«Lo
sventurato è
troppo innamorato».
«E’
una sua
scelta amarmi, io non gli impongo niente».
La sarta per
poco non si punse con lo spillo, colpita dal gelo nella voce di Pansy.
Si
sentiva pericolosamente di troppo in quella stanza, nel bel mezzo di
una
contesa taciuta e per questo ben peggiore di tante altre.
«A
parte la
sfacciataggine di Blaise Zabini e un invito in carta bollata a Draco
Malfoy al
ricevimento di questa sera».
Pansy si
ritrasse di scatto, sbilanciandosi quasi all’indietro, come
punta da uno
spillo. La donna sollevò lo sguardo terrorizzata, eppure
timidamente certa di
aver fatto attenzione a non sfiorare la pelle liscia di Miss Parkinson
neanche
con un’unghia della sua mano callosa di sarta.
«Non
si
preoccupi, non è colpa sua, è la signora Nott che
ha una allergia istintiva al
nome Malfoy».
A quel punto
Judith Hossas fu certa di essere nel bel mezzo di una guerra civile.
Le labbra di
Pansy disegnavano una linea sottile ed esangue, a metà tra
lo stupito e
l’oltraggiato di tanta malignità proprio da parte
di Millicent Bullstrode.
«Il
vestito è
perfetto così, grazie per il suo tempo»
mormorò infine, scendendo dalla
cassettiera con un movimento nervoso, nonostante l’usuale
delicatezza della
movenza. I piedi nudi a contatto con il pavimento gelido di marmo le
mandarono
un brivido lungo la schiena, ma era niente in confronto allo spillo che
sentiva
ruotare sulla propria punta, al centro dello stomaco.
«Soffri
molto
per il cuore del mio povero marito?» domandò
mentre Miss Hossas lasciava la
stanza il più in fretta possibile.
Millicent si
voltò a guardare Pansy, cercandone lo sguardo per assistere
vittoriosa alla
perdita dell’usuale compostezza emotiva che gli era propria.
Non lo faceva con
la cattiveria che Pansy, sulla difensiva, le aveva certamente
attribuito.
Per chi non
conoscesse
Pansy, era facile provare astio nei suoi confronti. Così
fredda e scostante,
altera e supponente, mai generosa verso gli altri, abile a contrattare,
pessima
nel chiedere scusa, restia a qualsiasi elargizione di affetto ed
estranea ad
ogni tenerezza.
Ma
altrettanto
era impossibile agire con cattiveria nei suoi riguardi, per chi
conosceva la
storia della sua glacialità.
«Soffro
molto
per te, stupida».
Rispose
Millicent, senza fare niente per celare la durezza della propria voce.
Non
attese neanche di vedere quanto e come avesse colpito nel segno, quanto
l’avesse stupita, in che modo Pansy avesse abbassato lo
sguardo, e strattonato
il vestito per sciogliersi dal nodo soffocante dei suoi lacci.
Uscì
dalla
stanza a testa alta, dispiaciuta per quella incapacità di
Pansy di rendersi
felice.
●●●
Walk
me to the corner
Our steps will always rhyme,
You know my love goes with you
As your love stays with me,
It’s just the way it
changes
Like the shoreline and the sea,
But let’s not talk of
love or chains
And things we can’t
untie,
Your eyes are soft with sorrow,
Hey, that’s no way to
say goodbye.
[Hey,
that’s no way to say goodbye – Leonard Choen]
Astoria
Malfoy
aveva chiuso gli occhi su molte cose, perché sua madre le
aveva consigliato di
farlo, e lei di sua madre si era sempre fidata ciecamente. Il modello
di
paragone da non seguire era sempre stato quello di sua sorella
maggiore, e con
il tempo era divenuta una rivale più che un esempio di
scelte da non replicare.
Su quel
matrimonio Daphne aveva gettato oscuri pronostici, con
un’aria irrisoria e
l’espressione sorniona di chi conosce molti retroscena che le
consentono la
certezza di quanto asserito.
Astoria non
chiese mai di cosa fosse a conoscenza, perché credeva in
quel matrimonio e
nella sua possibilità di riuscita.
Per
consolarla
della malignità di Daphne – che forse altro non
era che una manciata di
sincerità proposta con troppo sarcasmo per poter essere
colta nella sua veste
di buona intenzione – sua madre le aveva svelato dei piccoli
trucchi del mestiere.
Astoria
venne a
sapere che non in tutti i matrimoni l’amore è il
presupposto, in alcuni si crea
vivendo insieme, e così sarebbe stato nel suo caso.
Ma sua madre
non
le aveva detto di quanto fosse difficile combattere con il fantasma di
un vivo.
Se Pansy
Parkinson fosse morta, Astoria avrebbe potuto fare leva sulla
crudeltà del
destino e l’inevitabilità delle leggi di natura.
Avrebbe potuto parlare a suo
marito della necessità di un compromesso storico, del
bisogno che c’è di andare
avanti, guardando sempre dritto e altre amenità retoriche di
questo tipo.
Ma Pansy era
viva.
Era viva nel
cuore di suo marito, era viva tra le lenzuola del loro letto, e si
insinuava in
ogni suo timore, in ogni suo pensiero, in ogni desiderio partorito per
sé e
Draco.
«Astoria, sei tu che devi dargli
sicurezze.
Se non ti mostri sicura del vostro matrimonio, come pretendi che lo sia
lui?»
le disse sua madre la sera in cui la figlia minore si
presentò pallida e tesa
alla casa natia. Daphne era uscita in silenzio dalla stanza, biasciando
qualcosa che Astoria preferì non ascoltare.
«Draco?
Sei
pronto?»
Si
affacciò alla
porta della loro camera, cercando con lo sguardo la figura del marito.
Draco si
voltò a guardarla, distratto. Era molto bella e i capelli
raccolti in quel modo
la facevano sembrare quasi una bambina. E invece, era sua moglie.
«Metti
quella».
Aggiunse
entrando e raggiungendolo davanti all’armadio. Si sporse
sulle punte, per
raggiungere la cravatta riposta più in alto. Le dita
smaltate si allungarono
fino a prenderla per un lembo, e con un sorriso soddisfatto la
annodò al collo
di Draco.
Lui la
lasciò
fare incurante, perso in tutt’altri pensieri, fino a quando
lei non lo
indirizzò verso lo specchio.
«No.
Questa no.
»
Replicò
affrettandosi a sciogliere il nodo. Le dita si insinuarono velocemente
tra la
stoffa, desiderose di liberarsi di quel cappio, mentre lui lottava
contro tutto
quello che avrebbe preferito tenere rilegato lassù, nel
posto tanto in alto che
aveva riservato a quella cravatta.
«Perché
no? Non
la metti mai».
Finalmente
Draco
sciolse il nodo, lanciando la cravatta sul letto dietro di
sé e massaggiandosi
il collo. Astoria gli lanciò uno sguardo perplesso senza
celare un’ombra di
gelosia. Quella cravatta aveva una storia di cui lei non aveva fatto
parte e
che lui non le avrebbe mai raccontato, se non fosse stato per
quell’incidente.
«E’
maledetta?»
Scherzò
facendo
per prenderla e rimetterla a posto, ma poi ci ripensò,
lasciandola lì, gettata
sul letto.
«L’ho
messa al
funerale del padre di Blaise».
Spiegò
lui,
chiudendo le ante dell’armadio.
«Niente
cravatta, non importa».
Astoria
annuì,
mordendosi un lato di labbro. Blaise aveva avuto diversi padri e per
nessuno di
questi aveva mai versato una lacrima; e nessuno di loro gli aveva
lasciato guai
finanziari o dispiaceri troppo grandi nel morire. C’era
qualcosa che le
sfuggiva. La cravatta, quando Draco chiuse la porta della loro stanza,
era
ancora lì sul letto, dal lato di Draco.
«Secondo te si intona più il
rosso o il blu
al legno della bara?».
Pansy decise subito che a quella domanda non
avrebbe risposto.
Aveva già espresso il suo parere in
merito
ai gemelli della camicia in abbinato ai fiori lungo la navata; alla
riga dei
capelli in ordine simmetrico con la disposizione delle teste dei
presenti, ed
era giunta alla conclusione che quello fosse un modo molto tenero, pur
nel suo
sarcasmo, per dare dimostrazione di essere preoccupato per il proprio
migliore
amico. Quindi aveva lasciato che le domande scivolassero lungo le
pareti della
stanza e la superficie piana dello specchio, davanti al quale Draco
faceva
oscillare due cravatte di stoffa pregiata di taglio classico.
Non essendogli giunta risposta, cercò
nello
specchio la sua interlocutrice. Alle sue spalle la figura minuta di
Pansy
Parkinson si rifletteva nitida. Il candore della sua pelle era
rischiarato dal
gioco di luce-ombra del vestito scuro.
Sembrava
un’opera d’arte, l’immagine di un
dipinto. Invece si muoveva, lentamente, mentre chiudeva il cinturino
dell’orologio sul polso sottile e alzava i suoi occhi su di
lui. Neri. E tra il
nero dei loro abiti, e il buio della stanza, quegli occhi erano
l’unica
oscurità che invece mandava bagliori. Draco la
guardò, assottigliando
impercettibilmente la piega delle labbra.
«Sei pronta?»
Le domandò portando le mani alle tasche
dei
pantaloni. Si sentiva impacciato in quel vestito da funerale. Pansy
sorrise al
suo disagio, e andò a recuperare una cravatta
dall’armadio della sua stanza.
Nel passargli accanto, baciò la piega del suo collo, nello
stesso punto in cui
aveva posato le labbra la notte prima, dopo che Blaise se ne era
andato,
lasciando detto ora e luogo della cerimonia.
Nel silenzio di Malfoy Manor, di cui per
quei due giorni e quelle due notti erano stati i soli padroni, avevano
stappato
una bottiglia di vino rosso. Avevano brindato senza avere un reale
motivo.
Blaise aveva inventato che si potesse brindare in nome dei motivi
futuri che
avrebbero avuto, e in nome di quel pensiero surreale e poco credibile
avevano
finito la bottiglia.
Quando Blaise aveva fatto ritorno a casa,
per vegliare una madre che non aveva bisogno di essere vegliata, lei e
Draco
erano entrambi un po’ ubriachi.
La bottiglia vuota era rotolata sul
pavimento. Scivolò leggera e veloce sulle mattonelle,
arrestandosi sotto al
letto in cui loro fecero l’amore. Perché la
mattina dopo ci sarebbe stato il
funerale, e tutti e due volevano qualcosa a cui pensare quando
avrebbero preso
atto – insieme a Blaise – che la morte è
reale, e che prima o dopo, arriva per
tutti.
What’s next
«Non c’erano
possibilità di scelta».
«Questo perché non siamo stati
educati a
scegliere il rischio, Draco»
“La baciò e nel farlo
ritrovò consistenza e
misura di sé”.
Thanking…
valy88: Grazie mille! Essendo Draco/Pansy la mia droga cercherò indegnamente di far entrare il lettore nel tunnel… è quel che cerca di fare ogni onest- bravo spacciatore ^^
Hermione 93: Il vero motivo vorrei tanto saperlo anche io, almeno avrei una ragione seria per maledire la Rowling e Miss Greengrass. Davvero non capirò mai il senso di aver demolito per 5 libri la povera Pansy se alla fine neanche se l’è sposato Draco. Mah. XD Grazie per la recensione, qui c’è un piccolo assaggio di quel che verrà ^^
Entreri: *cerca di spiccicare qualche parola senza dare a vedere la commozione* XD Grazie, davvero *_* Millicent qui mi suggerisce che di sicuro in comune con l’altra fic c’è la costanza del suo amore per Blaise XD
sweetchiara: Mi consola sapere che è passato quello che pensavo io stessa di Draco =) Mi dispiace per la povera fine che è toccata in sorte anche a lui, la divinizzazione lo ha costretto a vedere il suo lato umano come la peggiore infamia che potesse capitare a un Malfoy. Io insisto a dire che è molto più verosimile lui che il SuperPottu dei primi libri. I Gryffindor alle volte mi sembrano OGM a metà tra la Fata Turchina e il Giudice Amy. / *apprezza che apprezzi la pubblicità* Oggi è il turno di Leonard Cohen XD Quell’uomo ha una voce che… *_*
B e r t a: Blaise ringrazia ma infondo non gli giunge niente di nuovo, tende ad essere adulato dal mondo intero e se ne compiace da prima ancora di essere nato, tanto per essere previdenti. Grazie per l’apprezzamento, spero che anche questo capitolo non deluda aspettative varie. un bacio.