Anime & Manga > L'Attacco dei Giganti
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Autore: Amaya Lee    26/06/2015    2 recensioni
[ Ereri | 5 passi - 5 capitoli | Modern AU | Levi è un adulto noioso ed Eren non lo è | Levi's POV ]
Avete mai cercato la Redenzione?
Certo che no. Mica è qualcosa che si cerca; un giorno alzi lo sguardo e la trovi lì, in un momento imprevedibile, quando proprio hai altro da fare, e non ti aspettavi di vedertela davanti, in tutta quella sua inaspettata eleganza.
Non è che la raggiungi, non è merito tuo.
Certe volte deve arrivare qualcuno a mettertela tra le mani, silenziosa e provvidenziale com'è, perché davvero non sai dove sbattere la testa. Forse, neanche ci credi; come non credi nelle fiabe. Forse nemmeno la vuoi.
Più o meno, mi duole raccontare, questo è ciò che successe a me.
Genere: Drammatico, Sentimentale, Slice of life | Stato: completa
Tipo di coppia: Yaoi | Personaggi: Altri, Eren, Jaeger
Note: AU, OOC | Avvertimenti: nessuno
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NA: E... siamo alla fine di questa storia, come promesso. Ringrazio chiunque abbia avuto la pazienza di aspettare che questo capitolo venisse alla luce ma vi assicuro che tutto il merito va al tecnico che l'ha salvato dall'oblio di un computer praticamente fritto. Sia lodata la sua anima. Le note stavolta sono alla fine, perciò per ora vi auguro buona lettura!




Trovare la Redenzione in 5 (non troppo) semplici passi
 




 
5 – Guardare avanti, sorridendo.







 
 
Quattro, cinque, sei anni.
La nostra storia durò, precisamente, sei anni e quattro mesi. Era autunno, quando tutto scivolò via dalle nostre mani, ma c'era un sole così caldo che non ce la sentivamo ancora di iniziare con il cambio d'armadio – ormai convivevamo da un po'.

Ma lasciatemi ricominciare.

Il 20 Ottobre [sempre Topeka, Kansas], all'ora di pranzo, il telegiornale annunciava le previsioni del tempo. Eren lavava le stoviglie con un certo nervosismo, che da qualche giorno non mi sfuggiva; avevo provato a chiedergli se qualcosa non andasse, e lui mi aveva confessato, con aria insolitamente plumbea, che ci fossero state delle “complicazioni” in famiglia. A quanto pareva, i suoi parenti rimasti si stavano trasferendo all'estero. Mentre citava Mikasa, i suoi grandi occhi avevano accuratamente evitato di incontrare i miei. Non che mi bastasse l'evasiva spiegazione, ma il suo era un carattere dannatamente testardo.
 «Ehi. Domani fa bel tempo» dissi, seduto a tavola a braccia conserte. Speravo di distrarlo dai suoi pensieri.
Lui alzò un momento il capo dal lavandino, smettendo di sfregare un bicchiere. «Oh, sì.» Squadrò il televisore un altro po', come se stesse cercando di risolvere una difficile equazione. Non gli avevo visto molte volte quell'espressione sul viso. «Che ne dici, andiamo al lago?»
 «Al lago?»
 «Il Perry Lake. Non ci sei mai stato?» Esibì un fiero sorriso, voltandosi dalla mia parte. «Ci andavo quand'ero bambino... la spiaggia fa abbastanza schifo; cicche, spazzatura e tutta la merda del mondo. Ma l'acqua è grandiosa, da quel che ricordo.»
Finsi di soppesare l'ipotesi, come se avessi qualcosa di meglio da fare nel week-end. «Se ci tieni.»
Eren soffocò una debole risata, provocandosi un breve attacco di tosse che ricacciò prontamente indietro. Si voltò immediatamente per finire il suo lavoro.

Il giorno dopo mi ritrovai steso all'ombra di enormi e frondosi salici, sulle brevi sponde d'avorio del Perry Lake. Eravamo soli in una delle copiose rientranze del perimetro lacustre. Tutt'intorno, il frinire del bosco ridestava un raggio di romanzesca fanciullezza sulle nostre scorze adulte e responsabili.
Con un urlo esultante degno del più immaturo ragazzino del liceo, Eren si gettò in acqua da una roccia di tre metri che sporgeva dall'acqua, stringendosi le ginocchia al petto e sparendo dopo un battito di ciglia sotto la superficie rotta del lago, in un'esplosione di bianca schiuma.
Dopo questo colpo di genio, che cercò perpetuamente ed invano di indurmi ad imitare, corse al suo zaino abbandonato tra i sassolini immacolati – il petto esposto e gocciolante, come i capelli di bronzo – ed estrasse, impugnandola freneticamente, la macchina fotografica.
A quel punto, non ebbi più un momento di pace.

Perdonate se risulterò noioso, per le poche righe che seguono. Tornerò ai fatti tra un secondo.
Intanto, è importante che puntualizzi un evento fondamentale per gli avvenimenti successivi; il mio datore di lavoro era un certo Erwin. Smith, commercialista. Quello che un americano maschio nella media definirebbe normalmente come “migliore amico”, o qualcosa del genere. Poco dopo la fine di quell'estate era rimpatriato da un viaggio aziendale a Parigi. La situazione è molto semplice; mi chiama in ufficio, io mi siedo e incrocio le braccia, lui mi sferra una proposta tanto incredibile che quasi sbarro gli occhi. Quasi.
Io penso all'Europa, alla Tour Eiffel, al du fromage, e alla mia assoluta mancanza di nostalgia per tutto ciò. Penso a mio nonno e a una lingua che, a tutti gli effetti, è mia.
Poi penso a Eren. Finisco sempre per pensare a lui, in un modo o nell'altro, ma qui è diverso. 
Rifiuto subito la proposta di trasferirmi oltreoceano.


Il mio fidanzato – quant'è agrodolce, questa parola – fece più o meno un centinaio di foto, al Perry Lake. 
Nemmeno una ritraeva il Perry Lake.
C'ero io seduto sulla riva, io che leggevo un libro, io che fissavo l'obbiettivo in cagnesco, io che ammiravo silenziosamente la superficie piatta del lago, e infine Eren con un sorriso perfetto e la mano alzata col segno della pace. Me le mostrò al computer quella stessa sera, ricevendo una cuscinata stizzita sulla testa.
 «Ma guardale! E dai, ho un futuro come fotografo.» Gli occhi smeraldini errarono lungamente sulle fotografie, annuvolati da una certa concentrazione, che al tempo non potevo definire. «Naturalmente è anche merito del soggetto. Non è così difficile immortalare un capolavoro...»
Grugnii al suo sparuto e tentennante flirt. «Sì, come ti pare. Ma adesso lasciami dormire.»
Eren sbuffò esasperato, sollevando gli occhi al cielo e domandando a chissà quale divinità per quale ragione avesse dovuto incontrare, tra tutti, proprio me. Me. 
Doveva aver fatto qualcosa di male nella sua vita precedente, fine del discorso. 
 «Okay.» E dopo quella risposta, si stese al mio fianco – sovrapponendo come d'abitudine le sue gambe brune alle mie –, e si assopì quasi subito.
Sebbene la giornata fosse stata oltremodo sfiancante, sia per essermi dovuto occupare di qualcuno come Eren, sia a causa della visita al Perry Lake, mi presi un paio di minuti per contemplare i tratti facciali del mio fidanzato mentre era addormentato. Ogni tanto si contraevano. Eren nel sonno non sorrideva mai.

Il giorno dopo, essendo riuscito a completare in fretta la porzione considerevole di pratiche che mi ero prefissato, finii per starmene seduto alla scrivania osservando lo schermo anonimamente bianco del portatile. Il computer sembrava squadrarmi di rimando. 
Con un gesto lesto e impensato dell'indice feci scorrere la freccetta bianca su una cartella sul desktop, l'unica nominata in appariscenti lettere maiuscole. E non ero stato certo io a compiere quell'operazione.
Il viso abbronzato, soave e sorridente di Eren mi apparve dinnanzi come uno spettro.
Pensai a lui a lungo e profondamente – forse come mai prima – finché non mi decisi a salutare Hanji e Petra e tornare a casa, ingranando la marcia dell'auto con un maggiore urgenza dell'abituale.

Girai le chiavi nella toppa respirando affondo, per ricompormi come si conveniva, ed entrai nel nostro appartamento come un impiegato che ha trascorso l'ennesima giornata di lavoro canonica, ordinaria e assolutamente regolare. Nessuna sbavatura, posso giurarlo.
Fu Eren a incontrarmi sulla porta ed avvolgermi attorno le braccia toniche, con un sorriso splendido e un mormorio di bentornato.
D'accordo, avrei dovuto avvertire allora che qualcosa non andava. Avrei dovuto annusare l'aria e cogliere, oltre al leggero aroma di rose e vaniglia con cui era stata riempita la vasca da bagno, un'incrinatura fondamentale nei movimenti sciolti del mio ragazzo. 
Invece mi lasciai portare a letto senza troppe storie.
E l'amore venne nel modo più assoluto da sé. Fu una di quelle cose piene di intimi e taciuti “ti amo" e "per sempre".
Senza fretta. Solo noi due, e la merda che avevamo intorno – beh, scomparve.
Perché Eren aveva un sacco di merda, dentro, dietro; e io non avevo niente.
(La mia esistenza, si potrebbe dire, consisteva in una pagina bianca, composta esclusivamente di routine e lavoro e notti insonni e sveglie squillanti, riconoscimenti vuoti e articoli d'insignificanza incorniciati al muro.)
Ma che cosa avevo senza il profumo della libreria e le gite al lago? Cosa avevo senza i piccoli gesti e le piccole paranoie?
Cosa mi restava senza una persona con cui condividere la solitudine?
Mi strinse e, giuro sulla mia stessa vita, scoprii quanto fosse bello trovarsi in un posto sicuro; finalmente lontano dall'oblio. 
Non è stato l'amore a farmi questo. È stato Eren, lui solo.
Eren è stato la mia Redenzione. Quella sensazione di quando trovi un senso a tutto. Quando sai esattamente, senza ombra di dubbio, per cosa stai qui – su questo mondo – a fare. Come una boccata d'aria fresca al sapore di Camel; con quella pelle di sabbia e di sale, gli occhi vispi, il raro sorrisetto compiaciuto che non mi piaceva ma da cui ero in qualche modo assuefatto.
Eren non avrebbe potuto farmi che del bene, avrebbe per sempre continuato a farmene– 
Ma era giunta una lettera.

Arrivò per Eren; io non la lessi mai. In realtà non la vidi neppure – credo che, prima che tornassi dal lavoro, lui l'avesse fatta in mille pezzi e bruciata. Fu Mikasa, tempo dopo, a dirmi della lettera.

Non ricordo molto di quella sera, se devo essere onesto.
Ricordo che la luce del soggiorno era l'unica accesa in casa. Lui, appena comparso nel corridoio, era vicino alla porta, io leggevo sulla poltrona. 
Era in piedi. Aveva una borsa. Piena.
 «Eren?»
Mi guardò, forse, ma io non alzai gli occhi dal libro.
Lui esitò. «È finita.»
 «Prego?» Inarcai un sopracciglio. Avevo capito benissimo.
 «...È finita.»
Misi giù il libro.
 «Non è colpa tua, Levi.»
Lo guardai negli occhi. Non ci vidi niente di niente.
 «Forse dovremmo vedere persone diverse.»
Non che mi aspettassi di meno dalla persona che amavo; Eren era sempre andato dritto al punto – anche quando mi restituì il conto della lavanderia. 
 «Non credi che dovremmo parlarne?»
 «Credo di non amarti più come prima» rispose, un po' affrettatamente. Conoscendolo, probabilmente aveva provato quelle frasi davanti ad uno specchio; magari soltanto meri minuti prima.
Sul momento riuscii solo a pensare a quale modo miserevole fosse di finire per una storia durata sei anni. Uno schifo persino per due come noi.
 «Capisco» dissi. Poi, non so perché, né con quale coraggio, tornai a fissare le pagine spalancate del libro. Avevo la testa offuscata e improvvisamente non riuscivo a decifrare i caratteri. «C'è solo questo?»
 «S-Sì.» Eren Jaeger aveva balbettato? Non che mi importasse più di tanto, lì per lì. Non sollevai lo sguardo per controllare se sulle sue orecchie fosse comparso un minimo di rossore. Me ne pento un po' ancora oggi. «Andrò da Mikasa, sta ancora a St. Joseph per...» Si arruffò i capelli con la mano che non reggeva il borsone. «...Ho... Ho preso tutta la mia roba e rifatto il letto...» La mano scese agli occhi, schermandoli. «...E riordinato la collezione di Star Trek...» (Non aveva mai rimesso a posto un film in vita sua) «...Ah, il vicino ci ha preso il tosaerba di nuovo...»
Ignorai l'uso del “ci”. «Andrò da lui tra qualche giorno.»
 «Bene» mi rispose la sua voce, più debole di secondo in secondo. Mi diede la schiena, fronteggiando la porta d'ingresso. «Mi dispiace.» Stavolta le sue parole mi giunsero decise. Forti.
Non risposi. Lui non aggiunse mai altro.


Le ultime parole che mi rivolse sanno troppo di addio, nei miei ricordi; più di quanto io sia in grado di sopportare.


Nella nebbia più assoluta. Ecco come trascorsi i successivi mesi. 
Mi svegliavo. Il letto era freddo.
Mi ripresi il tosaerba (il vicino si era persino dimenticato di averlo in garage).
Gli scatoloni di Amazon continuavano ad arrivare ogni venerdì, inutile dire che mancasse qualcosa.
Entravo a passo svelto in ufficio. La provvidenziale Petra aveva probabilmente capito tutto con un'occhiata sola, perché mi portò il tè con più zucchero del solito per un po' – sinceramente, non ricordo quanto.
Il mio team rimase al lavoro fino a tardi.
Hanji per una volta se ne stette zitta. 
Erwin...

 «Il tuo lavoro è considerevolmente aumentato, Levi.»
 «Sì.»
 «Negli ultimi mesi ti sei... dato da fare.»
 «Sì.»
 «Petra mi ha detto che hai dormito in ufficio un paio di volte.»
 «Un paio?»
 «Ciò che mi interessa è che non ti sfianchi.»
 «A me interessa essere efficiente.»
 «In qualsiasi situazione ti trovi ora... questo atteggiamento non farà che degradare. Prenditi una pausa dal lavoro. È un consiglio da amico.»
 «...»


 «Non mi hai ascoltato.»
 «No.»
 «Mi costringerai a farti prendere le ferie...»
 «No, Erwin.»
 «Ho saputo.»
 «Dopo due mesi.»
 «Non è stata colpa tua.»
 «...»


Agli inizi di dicembre mi recai nell'ufficio di Erwin Smith senza essere convocato e gli dissi ciò che volevo. Forse fui un po' egoista, lo ammetto.

 «Sei sicuro, Levi?»
 «Ho già fatto i bagagli.»



Rimasi in Francia per sei mesi, cercando d'hotel in hotel, da letto nuovo a letto nuovo, da una camera priva di ricordi all'altra, quell'improvvisa illuminazione che mi permettesse di andare avanti. Non mi stabilii mai per restare, anche se forse mi avrebbe fatto bene; certe volte mi ritrovo ad immaginarmi su un piccolo giardino sospeso (un terrazzo assalito da viole e gigli e rose rosse) sopra le viuzze suggestive della Provence, con l'espressione di un uomo senza una preoccupazione al mondo e le braccia di un altro uomo attorno alla mia vita. Ma non ha un volto. E la carnagione delle braccia non è della tonalità giusta.
Erwin mi fece tornare in Kansas quando finii di negoziare l'ultimo di quattro affari, alcuni andati in porto ed altri naufragati, senza che me ne importasse molto in entrambi i casi.
Il mio ufficio era rimasto esattamente uguale per tutto il tempo. Nessun altro l'aveva usato, ma qualcuno era premurosamente entrato di recente per spolverare – vi do un indizio; capelli color pesca.

Avevo sinceramente creduto che allontanarmi dall'appartamento che avevo condiviso con Eren mi avrebbe aiutato a guarire. 
Non guarii.
Non guarii, perché non appena ebbi recuperato alcune ore di sonno e disfatto la valigia, fatto sparire ogni centimetro di polvere da ogni stanza e cenato con un'insalata magra, mi riscoprii a trafiggere con lo sguardo il telefono sul ripiano desertico della cucina. Il silenzio era talmente teso che avrei potuto vomitare quel poco che ero riuscito a mangiare.
Il fatto strano è che avevo bisogno di sentire la sua voce. E se non era accanto a me, dovevo sapere che Eren stesse bene. Se aveva trovato qualcun altro da amare, che lo amasse. Ma non era gelosia, il mio sentimento, né fissazione.
Composi il numero con questo pensiero come un disco rotto nella testa. 
 «Pronto?»
 «Mikasa Jaeger?»
 «Sono io.»
Mi rilassai impercettibilmente sulla sedia. «Bene.»
 «E lei?»
 «Levi.»
Dall'altro capo, silenzio. Un silenzio consapevole.
 «Che cosa vuoi?» Lo stesso tono di quando mi offriva il tacchino ai pranzi di Natale. Non le ero mai piaciuto.
 «Eren ha portato via per sbaglio alcuni dei miei completi.» Una bugia.
 «Sono passati mesi. Come mai non te ne sei accorto prima?»
 «Sono stato oltreoceano» replicai. «E forse non mi andava di avere contatti con lui, ti pare?»
Mikasa rimase quieta per qualche istante. «Perché hai chiamato me?»
 «Perché non mi va nemmeno adesso.»
 «Non so cosa farci per i tuoi completi» disse. 
Sospirai. «Okay... Come sta Eren?»
 «...Sta bene. Ora devo andare.» E riattaccò di colpo.



Il viaggio in macchina fino a St. Joseph fu più lungo e pesante di tutti i precedenti. Non c'era nessuno accanto a me a canticchiare le canzoni della radio o cominciare litigi per seguire fantomatiche scorciatoie. 
I Jaeger non avevano vissuto in quella villetta in mezzo al verde per un tempo molto lungo. Ci si erano trasferiti quando Eren e Mikasa avevano otto anni, e questo spiegava l'influenza del tedesco nella loro pronuncia. Un copertone pendeva da un ramo del possente acero accanto alla casa, come un nostalgico archetipo di altalena. 
Era nel complesso un luogo gradevole, specialmente d'estate.

Mikasa aprì la porta con riflessi meno pronti di quanto ricordassi. Ritrovandomela davanti in quel momento, occhiaie scure e trasandati pantaloni della tuta a parte, pareva una fotocopia dell'atleta olimpica a cui avevo stretto la mano anni addietro. Una donna d'oro. Letteralmente. 
Ma era triste, era assente, e immediatamente me ne resi conto quando ad un'espressione di stupore si sostituì un'occhiata esausta ed un cenno d'invito.
 «Non mi mandi via a calci?» domandai. 
Lei si avviò nel corridoio. «Con te non serve a niente.»
Fu bizzarro, sentire i miei passi rimbalzare tra le pareti spoglie di foto, attestati, coccarde, ricordi. Non volevo sapere dove fossero finiti tutti. Ricordai che l'intera famiglia si fosse trasferita altrove. Mikasa probabilmente viveva lì da sola. 
 «Allora, che vuoi?» chiese mentre si sedeva sul rigido sofà color verde mela, strofinandosi le palpebre. Mi domandai se stesse dormendo abbastanza.
Ed eccomi lì; in quel salotto semi-vuoto, in cui mi ero presentato formalmente a Grisha Jaeger, del quale avevo baciato il figlio sotto il vischio. Proprio accanto a quella parete dal rivestimento inguardabile – due o tre macchie mi sorpresi persino di ricordarle. «Sapere come sta lui» dissi con eccellente nonchalance, prendendo posto dal lato opposto del divano ed incrociando le gambe. «Non mi piace quando la gente fa l'evasiva con me.»
 «E quindi hai guidato fino a qui perché, secondo te, ho fatto "l'evasiva"
 «Non ho intenzione di impicciarmi né nella sua né nella tua vita, ora. Lo so qual'è il mio posto. Voglio solo sapere se sta bene, poi me ne andrò.»
Mikasa mi fissò a lungo, criptica ed incorruttibile. Quando parlò, tuttavia, la sua voce era meravigliata. «Hai guidato fino a qui perché... vuoi sapere se sta bene» constatò. Distolse lo sguardo, e io le diedi il tempo che le serviva. Non tornò a guardarmi. «Non è qui.»
 «So che ve ne siete andati.»
 «Germania.»
Inarcai le sopracciglia. «Perché sei rimasta?»
 «Per Eren.»
 «Anche Eren è rimasto?»
Lei prese un profondo sospiro, e un tremore scosse i suoi polsi. «No.»

Mikasa non mi odiava. Mi disprezzava; disprezzava la mia differenza d'età con suo fratello, disprezzava il modo in cui egli mi guardava e disprezzava le mie scarpe lucide, i miei abiti formali, il mio atteggiamento diretto e, soprattutto, il mio senso dell'umorismo. 
Ma non mi odiava. E fu per questo che mi disse la verità.

 «Cancro al fegato.»
Avvertii il mio stesso sguardo vacillare, su e giù, dal viso impallidito di Mikasa allo schienale del divano verde. Non dissi una parola, non chiesi nulla.
 «L'ha saputo due mesi prima che vi lasciaste. Prima non c'erano stati sintomi.» Lei si era persa ad osservare il vuoto del soggiorno. Non volli nemmeno immaginare quali emozioni la percorressero in quel momento, quanto dolorosi fossero i brividi sulle braccia. «Nostro padre voleva che fosse operato in Germania da un suo amico. Un chirurgo conosciuto, Braun. Uno di quelli che si veste da Babbo Natale il 25 Dicembre per far sorridere i figli degli amici. Lo faceva ogni anno quando la mamma era viva.» Mikasa scosse la testa. «Aveva un senso dell'umorismo migliore di quello di papà, mi ricordo solo questo.»
 «Doveva essere un tipo simpatico» mormorai, incapace di formulare altro. Incapace di spingerla a sbrigarsi.
 «Già.» Per un altro po' ci fu silenzio. «Così l'ottobre scorso papà è andato in Germania per rintracciare il dottor Braun. Diceva, ripeteva che avrebbe salvato Eren.»
Il soggiorno si stava facendo sempre più piccolo, freddo ed asfissiante. Avevo bisogno di una boccata d'aria.
 «Ed io ci ho creduto» riprese lei. «Ci ho creduto. Veramente. Ho pregato. Eren aspettava ad avere notizie da nostro padre. Ma Braun ha salvato dodici persone con cancri al fegato in vari stadi...» Si fermò d'improvviso, aspirando velocemente. «Perciò c'era speranza, sai? C'era davvero.»
 «Dov'è Grisha, ora?» sbottai.
Mikasa non mi ascoltò, e proseguì imperterrita. «Ci ha mandato una lettera pochi giorni dopo. Braun era "irraggiungibile". Non lo so. Mi sono arrabbiata molto e ho parlato con Eren.»
Il suono del suo nome mi mise in allarme all'istante, quasi come un richiamo. Una parola che si impara da bambini grazie ad un'esperienza particolare o un trauma, e non si cancella più dalla testa. 
 «Allora, lui...» Fu allora che Mikasa ricominciò a guardarmi dritto negli occhi, senza ombra di fierezza o di lacrime. «Sembrava essersi già rassegnato alla morte. Non all'idea della morte, a quella non credo ci si possa abituare. Al riconoscerla forse sì. Lui l'ha fatto. Non aveva paura.»
 «Probabilmente era terrorizzato» ringhiai.
 «Non lo era affatto» ribatté lei, inflessibile. «E sai cosa continuava a ripetere, tutto il tempo? Il tuo cazzo di nome. Portagli rispetto. Eren non aveva paura, Eren non pensava ad altri che a te

Mikasa finì di raccontare senza che la sua voce tremasse e senza versare neanche una lacrima, esclusivamente per il bene di se stessa. 

Quando uscii dalla casa la porta mi venne sbattuta alle spalle. Entrai in macchina. Mi allacciai la cintura. Accesi il motore. Spinsi il pedale senza accorgermene. Feci retromarcia  e uscii dal vialetto, presi la statale, guidai fino a Topeka. Niente soste. A casa, pulii il soggiorno e la cucina un'altra volta e mi sedetti sul divano a guardare il telegiornale delle sette, ma non ascoltai una parola. Non avevo fame.
Solo una grande, insopprimibile stanchezza.
Andare da Eren sarebbe stata la cosa giusta, ma non era possibile, perché aveva voluto farsi cremare. Non volevo andare in nessun altro posto. Solo da Eren. Quindi rimasi a casa.
Non sapevo se mi avesse citato nel testamento, ma probabilmente no, dal momento che non voleva che sapessi della sua morte. E uno stupido ragazzino era stato, se così aveva agito per proteggermi.
Mi aveva amato talmente tanto da non volermi accanto a sè negli ultimi mesi della sua vita, quando Mikasa era stata l'ultima cosa rimastagli e suo padre non si faceva sentire, da qualche parte in Europa, e un uomo di nome Braun aveva finito col rivelarsi indisponibile per salvargli la vita.
Così era morto in Marzo su un letto d'ospedale a St. Joseph. Tra dolori che Mikasa non mi descrisse e che Eren, con tutta probabilità, non volle mostrare a nessuno.

Non volevi che ti vedessi in quel modo, Eren?
Eppure, ti sono stato accanto nel bene e nel male. Sempre e per sempre, si dice nei film. Sempre e per sempre mi sembra piuttosto adatto.
Volevi che ti ricordassi come chi mi aveva spezzato il cuore, piuttosto che chi l'aveva portato nella morte con sè?
È qualcosa più da te. Un idiota fino alla fine.
Ti ho amato anche per questo.
Quindi forse la colpa è mia che ti ho amato, ma non mi interessa. La colpa sarebbe mia comunque, perché per te sono stato umano, 
ho ignorato la via d'uscita, 
per te ho preso coscenza della mia condizione 
e sempre per te mi sono voltato indietro ad osservare tante cose da lontano, a chiedermi perché non ho avuto prima il coraggio di cambiare. 
Tu altro non hai fatto che dare un senso a Levi.
Perciò per te, ora, suppongo non ci sia altro da fare che andare avanti. Con un sorriso, magari. Solo perché tu dormendo non sorridevi mai e qualcuno dovrà pur rimediare ai tuoi casini.





 
 
Allora. Io sono molto felice di aver finito questa storia in un certo limite di tempo. Certo, l'ultimo capitolo ha dovuto aspettare un po' e mi scuso tantissimo, ma non credo sia importante spiegare cosa sia successo. Fatto sta che... sono qui, siete qui, e può sembrare strano ma per me questo è molto importante. È un traguardo!
Forse avete notato alcune scelte stilistiche un po' "inusuali", e la mia scusa è che voglio provare a muovermi tra vari stili, magari anche sotto l'influenza di letture diverse che ho preso in mano recentemente. E forse sono l'unica a considerare "Come trovare la Redenzione" leggermente fuori dagli schemi ma quello era un po' l'obbiettivo, ecco. (A proposito di questo... Eren, Eren, Eren. Dico solo che mi dispiace, il mio cuore piange.)
Non so come ringraziare le persone che hanno inserito questa piccola long tra le seguite, le preferite e le ricordate, un bacione ad ognuno di voi. Inoltre ciascuna recensione è stata importante e ringrazio tanto chi si è premurato di lasciarmele perché le ho apprezzate moltissimo e sono state davvero di supporto.
E grazie anche a tutti coloro che hanno letto, ovviamente! Spero che la storia vi sia piaciuta e non sia stata una delusione, ma naturalmente se avete delle critiche costruittive sono prontissima ad accoglierle e vi invito a farmi sapere che ne pensate. Questa storia è stata piacevole da scrivere, e vorrei sapere se in vostra opinione è stata anche piacevole da leggere!
Per concludere, non ho ancora finito con questo fandom. Sì, esatto, ho un altro progetto in fase di revisione e devo dire che non manca molto alla pubblicazione, perciò se pensavate di esservi liberati di me aha! tornerò presto con dell'altro angst. (*si asciuga una lacrima*)
Okay, non vi annoio oltre. Alla prossima!

 
  
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