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Autore: Malinne    15/01/2009    5 recensioni
(OrochimaruxKabuto) (Kabuto pov) "Avevo imparato pian piano a scoprire il mio maestro; la sua immensa passionalità e la sua cinica freddezza. Come riusciva ad odiare oltre ogni limite, amava senza confini. Lo avevo provato sulla mia pelle, sia uno che l’altro. Erano sentimenti estremi, opposti così intensi da sembrare un tutt’uno." Avvertimenti: la storia non è erotica, ma lascia intendere.
Genere: Triste, Introspettivo, Sentimentale | Stato: completa
Tipo di coppia: Yaoi | Personaggi: Kabuto Yakushi, Orochimaru
Note: nessuna | Avvertimenti: nessuno
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- Nota dell'autrice: questa fanfiction è dedicata ad Hanabi :) Vorrebbe essere un omaggio alla sua "Kabuto Gaiden", una delle migliori fanfiction che abbia mai letto! Grazie Hana! -

 

Confine

 

C’era una tomba bianca.

Era tristemente identica a tutte le altre che ricoprivano il grande prato.

C’era un uomo. Era  un uomo senza tempo era inginocchiato dinnanzi ad una delle lapidi. Le sue mani erano congiunte in una silenziosa preghiera.

C’era un silenzio irreale, in quel luogo. Il silenzio tipico della serenità della morte.

Il cielo divenne grigio, un cielo immobile. Si oscurava, intristito, gettando un manto d’ombra sul prato. Il vento soffiava, soffiava sempre più forte, scompigliando i lunghi capelli dell’uomo che tuttavia rimaneva fermo, al suo posto. Il silenzio era assordante.
Due sposi in vesti bianche comparvero lontano, in fondo al prato. Il loro volto era di gesso, i loro occhi spenti, le loro bocche serrate. Camminavano mano nella mano, lentamente, verso l’uomo in preghiera.

Lui alzò lo sguardo, ma non si mosse, né proferì parola. Era solamente incredulo. Rimase in ginocchio, a guardarli, meravigliato, e ad aspettarli.

Ma il cielo era cupo e triste. Il vento soffiava, sperando di cancellare quella tristezza dal cielo. Soffiava forte e disperato.

E mentre l’uomo attendeva senza muoversi, fermo nella sua immobilità, quella raffica cominciò ad abbattersi sui due sposi, spingendoli via, sempre più lontano.

«No!» gridò l’uomo.

Via, sempre più lontano.

«No! Ridammeli!»

Sempre più lontano.

Tese una mano verso di loro. «Ridammeli!»

 

Il mio maestro si svegliò, balzando a sedere sul letto. Teneva una mano sul cuore.

Il suo respiro era accelerato, il suo petto si alzava e si abbassava velocemente. Ci volle qualche secondo prima che si calmasse. Lo guardavo angosciato, steso al suo fianco. Non osavo aprir bocca, immobile.

Lui si passò le mani sul volto, lasciandole poi cadere sulle gambe a peso morto. Sospirò, lasciando crollare il capo.

Per qualche istante, attesi, ascoltando il suo respiro farsi sempre più regolare.

Solo allora sussurrai: «Signore?»

«Ti ho svegliato, Kabuto.»

«Non importa, signore. Voi, piuttosto… state bene?»

Lui annuì. «Torna pure a dormire. Era solo un sogno.»

Non era un sogno, era un incubo. Da quel che ricordavo, non l’avevo mai visto sognare. Il suo sonno era stato sempre tranquillo. E a dire il vero, non avevo mai visto Orochimaru provare paura, agitarsi in quel modo. E per questo, mi aveva pervaso un forte senso d’angoscia.

«Se avete bisogno di qualcosa, io…»

«Non è niente» mi ammonì. «Ho solo bisogno di un minuto.»

Il solo fatto che non mi mostrasse il suo volto non mi rendeva tranquillo. La sua lunga chioma nera lo copriva completamente. Provai una fitta al cuore quando si portò nuovamente le mani al viso.

Avrei tanto voluto sapere cosa l’aveva turbato in quel modo, ma sapevo già che non avrei dovuto mai e poi mai rivolgergli quella domanda. E poi, non avrei ottenuto comunque risposta.

Cosa vi tormenta?

Tuttavia…

«Orochimaru-sama» mormorai.
Lui rimase in silenzio, senza voltarsi.
Esitai, non sapendo interpretare il suo silenzio. Sollevai lo sguardo sulla schiena bianca del mio maestro che era immobile, in attesa. Sospirai, prendendo coraggio: «Qualunque cosa vogliate, vi aiuterò a riprendervela.»
Orochimaru sussultò. «Come…?»

«Parlate nel sonno» dissi. Poi sorrisi, ma credo che il mio sorriso tradì in un qualche modo la mia tristezza e la mia preoccupazione perché quando lui si girò a guardarmi i suoi occhi si spensero.
«Non volevo svegliarti così, Kabuto-kun.»
«Non preoccupatevi, signore» lo rassicurai.
Poi rimase fermo, a guardarmi, senza una parola, come se volesse comunicarmi qualcosa che non era capace di dire. Rimasi incantato, come se fosse stata la prima volta che mi fissava. Lo amavo, quel suo sguardo senza tempo che in un solo secondo poteva scaldarmi e raggelarmi. Tuttavia, non ero mai riuscito a sostenerlo. Era… troppo.

Avevo imparato pian piano a scoprire il mio maestro; la sua immensa passionalità e la sua cinica freddezza. Come riusciva ad odiare oltre ogni limite, amava senza confini. Lo avevo provato sulla mia pelle, sia uno che l’altro. Erano sentimenti estremi, opposti così intensi da sembrare un tutt’uno. Semplicemente, un paradosso. Lui era capace di tutto ciò. Ma nonostante avessi capito tutto questo, nonostante fosse stato tanto il tempo che avevo trascorso al suo fianco, il mio maestro era ancora un enigma per me. E per questo, anche se ciò che provavo per lui era qualcosa di sconfinato, lo avvertivo ancora come un pericolo. Era imprevedibile, c’era un punto debole nella sua forza che non dovevo toccare. E io non avevo mai capito quale fosse.

Per questo non mi azzardavo ad andare oltre, anche se da un lato l’avrei voluto. Ma non avevo aperto bocca.
Orochimaru rise piano.

Di cosa ridete, Orochimaru-sama? Di me? Oppure…

Poi, all’improvviso, mi fu addosso. Il suo viso era a pochi centimetri dal mio.

Mi mancò il fiato. Mi succedeva ogni volta che lo guardavo da vicino. Era semplicemente meraviglioso, quel suo volto bianco. Mi sorrise con quella sua inimitabile dolcezza crudele.

«Non ha importanza» sussurrò, come se avesse letto ogni mio pensiero.

Le sue labbra fredde baciarono le mie, rubandomi ancora una volta un po’ del mio calore. E mettendo a tacere ogni mia silenziosa domanda.
Sentii le sue lunghe dita scorrermi tra i capelli, accarezzarmi la nuca, tenere delicate il mio viso. Mi sdraiò, lui sopra di me forte e fragile.
Le sue mani mi accarezzavano, gentili. Sfioravano il mio petto, i miei fianchi e le mie guance con garbo. Mi abbracciò, affondando il proprio volto tra i miei capelli. Inspirò forte, annusandone il profumo. Poi sospirò, abbandonandosi su di me. E rimase lì, fermo.
Orochimaru-sama…

Avevo un’irresistibile voglia di stringerlo a me. A stento mi trattenevo. Il cuore mi martellava nel petto e mi ero sentito avvampare. Sollevai le braccia, esitando… Era stupido, dopo quello che avevamo passato insieme. Però ero incerto sulla reazione che il mio maestro avrebbe potuto avere. Perché scioccamente, o forse no, percepivo quello che stavo per fare come qualcosa di più profondo e intimo.

«Kabuto» mormorò. «Mi dispiacerebbe davvero molto se dubitassi di me fino a questo punto.»

Mi salì il cuore in gola, ma allo stesso tempo mi rilassai. «Perdonatemi.»

Così, cinsi le braccia attorno alla sua schiena e chiusi gli occhi. Era una strana sensazione quella di averlo tutto per me quella notte. Mi colmava completamente. In un certo senso, avevo fatto un passo in più verso di lui. Io un po’ più vicino a lui e lui un po’ più vicino a me.

È mio…

Forse.

Ma questa notte è mio.

Non so quanto tempo trascorse. Il tempo che passavo con lui mi sembrava sempre troppo breve. Avrei voluto che quell’istante fosse durato per sempre. Era uno dei pochi istanti di pace, d’amore, di parole non dette che mi concedeva.

Lo sentii tremare quando cominciai ad accarezzare la sua schiena, ma non mi fermai. Era così liscia. I suoi capelli erano di seta, profumavano di loto; li facevo scivolare tra le dita…

E fu allora che Orochimaru si staccò lentamente da me. Mi guardò dritto negli occhi.

«Qualunque cosa abbia detto in sogno, ti prego di dimenticarla.»

Mi disse soltanto questo, senza sentimento. Poi, fece nuovamente per andarsene.

No! Cos’avevo sbagliato?

Prima di riuscire a trattenermi, allungai una mano verso di lui: «Orochimaru-sama!»

Il mio maestro si fermò. Gettò la chioma sulle spalle, guardandomi in tralice. Questa volta, però, i suoi occhi non riuscivo a capirli.

«Eccola qui, la tua debolezza» mi canzonò.

Afferrò una delle lenzuola per coprirsi e, senza più voltarsi, uscì dalla mia camera. Lasciandomi solo, tra le mie domande e il buio.

  
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