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Autore: Manto    30/06/2015    6 recensioni
❤ Seconda classificata al contest “The Secrets beyond the Stones” indetto da Fiore di Cenere sul forum di EFP.
Parthenope: tra le donne e i mostri che il Multiforme incontrò, Lei sola lo ebbe veramente.
Lei, l'Incantatrice, la Favolosa, la Nascosta, Lei che rinunciò all'amore e per odio venne tramutata in mostro, condannata a far innamorare di sé i naviganti con il suo canto... ma a non essere amata da Nessuno.
Genere: Introspettivo, Triste | Stato: completa
Tipo di coppia: Het, Crack Pairing | Personaggi: Afrodite, Altri
Note: Lime, Missing Moments | Avvertimenti: nessuno
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- Questa storia fa parte della serie 'Immortali'
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II – Fiore del Desiderio




Non ebbi in sorte di essere regina, né Dea, eppure la mia presenza non era passata inosservata ai Numi.
Da quando ho memoria, ogni giorno della mia esistenza li vidi: lampi di luce, sospiri nel vento, l'aria che improvvisamente scintillava e mi costringeva a chiudere gli occhi. E voci, voci dentro il cuore, che mi parlavano già di te.
Quello era il tempo in cui gli Dèi iniziavano a confondersi con i mortali, ma questi ancora non potevano scorgerli; in quel tempo nacqui io, nella Frigia dalle molte torri [1], figlia di pastori, dotata del dono maledetto della bellezza. Ero bella, credimi, anche se della mia grazia mi è rimasta solo l'avvenenza del viso.
Dicevano che sarei dovuta essere la sposa di re, o di Immortali. Furono forse queste parole, audaci e portatrici di invidia, che scatenarono la mia disgrazia? Questa è l'unica cosa che mai potrò sapere.

I giorni si rincorrevano come si rincorrono i flutti nel fiume, e il mio dono aumentava: la mia pelle perdeva l'impurità della prima giovinezza, diventava sempre più luminosa e levigata; gli occhi si scurivano come lame d'ossidiana, tuttavia brillavano come il cielo notturno quando è ricolmo di stelle. Ma era nella voce, quella voce per cui sono diventata temuta, la mia vera bellezza.
Bastava che parlassi o cantassi, e ogni cosa mutava intorno a me, assumeva armonia, si caricava di dolce luce, si innamorava; e fu la mia voce, più che il mio corpo, a incantare tutti quegli uomini. Li incontravo mentre conducevo gli animali di mio padre ai pascoli: essi erano pastori, viandanti, principi. Io ignoravo i loro sguardi pieni di brama tutta carnale, e cantavo per farmi compagnia; allora loro si avvicinavano, mi prendevano le mani e mi imploravano di cantare ancora.
Li accontentavo, e allora li vedevo sospirare e piangere. Li guardavo allontanarsi, quando il giorno moriva, e sapevo che non sarebbero più tornati. Io avevo fatto smarrire loro la strada, già allora...
Solo qualcuno ebbe la forza di implorarmi di invecchiare accanto a lui, di essere amata nel suo talamo. Io non risposi mai a nessuna di queste preghiere, fissavo solo gli occhi del supplicante; l'ombra della Morte si agitava dentro di essi. Sempre.

Nella mia mente riaffiora, come l'alba che incalza le ultime stelle, il primo ricordo che ho dell'amore.
Quella sera tutte le montagne erano in festa, perché una guerra sanguinosa e terribile era finalmente cessata, gli uomini ritornavano alle loro case e nuove famiglie si formavano; quella stessa notte si sarebbe sposata la figlia del capo villaggio, e già le risate riscaldavano l'aria.
Mia madre aveva venduto tutti i nostri agnelli perché avessi un vestito che fosse degno del mio aspetto: era morbido come una carezza e la stoffa rossa sembrava aver intrappolato i raggi di Elio, poiché ad ogni movimento un'onda di luce la attraversava.
Con quella veste mi confusi tra la folla che si riuniva nella modesta piazza, recando il silenzio e la contemplazione.
Iniziai a cantare, aprendo il corteo nuziale, e... e le parole mi sorsero come se fossero sempre state dentro di me, e mentre io stessa venivo intrappolata dal loro incessante scorrere vidi una distesa di acqua immensa, scintillante. Il Sole la rendeva dorata, e io regnavo su di essa, regina di anemoni, animali mostruosi e uomini morti affascinati da un canto maledetto e celestiale: il mio.
In quel momento mi parve di conoscere tutto. I desideri, le passioni, i dolori, le preghiere, le lacrime; ogni Destino, ogni Morte. Io sapevo, io vedevo: vedevo te, dai capelli dorati, dagli occhi d'opale, uguali a quelli degli Dèi che tutto vedono e sanno, e cercavano il limite dell'impossibile, incontrando alla fine i miei. Il tuo sguardo cangiante incendiò le tenebre che mi proteggevano il cuore e mi ritrovai a singhiozzare, tanto tu mi bruciasti.
Smisi di cantare, ma nessuno lo notò: ormai tutti stavano facendo sentire la loro voce gioiosa, erano troppo presi dall'euforia per badare a me.
Io, scossa e stanca per quello che avevo provato, mi allontanai verso un bosco poco distante per riprendere possesso di me stessa; e non ero ancora giunta là che sentii un fruscio, e subito qualcuno mi afferrò il braccio.
Mi girai, balzai indietro: un giovane, dai lunghi capelli neri come gemme notturne e dagli occhi tentatori, mi fissava.
Io cercai di sottrarmi, ma lui mi trasse a sé, mi cinse la vita con le braccia. “Dimmi il tuo nome, perché con esso possa iniziare ogni mia preghiera... mia Dea.”
Deglutii. “Non paragonarmi ad un'Immortale, sono solo una donna. Il mio nome è Parthenope.”
Il giovane mi prese il viso, lo tenne fermo; mi guardò per qualche istante, poi mi afferrò per i fianchi e mi gettò a terra, mi intrappolò sotto il suo peso. Mi baciò fino a togliermi il fiato, mordendomi le labbra con desiderio, poi la sua bocca scese sul collo, sulla pelle delle spalle che la veste non copriva.
Reso ancora più audace dai gemiti che non riuscivo a trattenere e dalla mia mancanza di resistenza – ero come pietrificata –, le sue mani bramose afferrarono la veste e la strapparono sul seno, scoprendolo.
Sobbalzai quando le sue labbra si chiusero intorno ad uno dei capezzoli e iniziarono a torturarlo con i denti, ma lo feci ancora di più quando pensai, al contrario di quello che il mio corpo stava iniziando a sentire, che tutto quello era sbagliato e non lo volevo.
Armandomi di questa sensazione trovai abbastanza lucidità per dare un ordine alle mie mani e spingere via il mio audace tormentatore; ma in risposta alle proteste che la mia bocca prese a mugolare le sue mani scesero sulle mie cosce, scivolarono sotto il ginocchio e vi fecero presa.
Mi aprì le gambe con rapidità e in quell'istante, mentre il suo sguardo si tingeva di una luce folla, animale, ebbi la certezza che lui non era diverso dagli altri uomini che mi avevano tentato. “No. Ti prego”, sussurrai allora con forza disperata, prendendogli con forza il volto.
I nostri occhi si incontrarono nell'oscurità, e i suoi rifulsero di rabbia. Senza una parola e disprezzandomi, con uno strattone si staccò da me e se ne andò, scomparve nella notte lasciandomi sola con il mio pianto di sollievo e timore.

Piansi per giorni, in preda alla confusione, mentre ogni istante, dovunque fossi, vedevo quel giovane guardarmi da lontano, sapendo che non avrebbe mai cessato di desiderarmi.
Piangevo perché per lui, come per gli altri, ero solo un corpo di bellezza immensa e nient'altro: un corpo da usare, non da amare... non da conoscere, non da stringere e comprendere.
Infine, una notte, spinta dalla disperazione afferrai la piccola falce di mio padre e mi tagliai i capelli, poco prima dell'alba fuggii dalla mia dimora e dalla mia terra; me ne andai per sempre, per porre fine ai tormenti e cercare un luogo dove potessi vivere in solitudine.
Raggiunsi la Troade, vidi il suo mare; alle sue placide onde gettai le mie chiome in dono, quindi entrai nell'acqua.
Fermati.
Spaventata da quella voce che sembrava scaturire dalle onde stesse, mi immobilizzai.
Un'ombra sorse dalle acque, torreggiò su di me prendendo le sembianze di una gigantesca, splendida donna il cui peplo si intrecciava alle rose e alle spine, così come la rappresentavano gli umili simulacri lignei della mia gente: Afrodite.
Mi inginocchiai sulla riva, tremante, e chinai il capo.
Tu rifiuti l'Amore. I principi si consumano di desiderio per te, i loro talami ti attendono, e tu li sfuggi.
Fa male abbracciarti, sei circondata di spine: così si sussurra tra i monti di Frigia, così si piange tra le sue tombe. Quindi non mi temi, Parthenope? Non hai paura della mia ira?
, gridò la sua voce, piena di furia.
“Ti temo, mia Dea; ma non sarò amata da nessuno. Io apparterrò sempre a me stessa.”
Davvero?
Il mare si ingrossò e mi frustò le gambe mentre le mani di Afrodite si chiudevano su di me, bruciandomi la pelle. Urlai per il dolore, iniziai a piangere mentre la Dea torturava il mio corpo trascinandomi verso la follia. Dimentica la tua bellezza, diceva intanto la sua voce, dimentica ciò che sei. Tu, bellissimo mostro, toglierai il ritorno a chiunque ascolti la tua voce, gioirai di mille morti.
E tu, tu che non ami nessuno... che tu non venga amata da Nessuno.

Svanì, e io gridai il mio orrore invano mentre le braccia si ricoprivano di piume nere, le gambe si accorciavano e i piedi lasciavano il posto agli artigli di un'aquila. Solo il petto e il viso rimasero quelli di prima, ancora più belli... ancora più desiderabili.

Cessata la mia metamorfosi mi librai in volo, la tristezza che mi dilaniava il cuore. Volai, volai fino a che vidi sotto di me la terra degli Achei, e superandola scorsi dal cielo quell'isola lontana e piena di fiori [2], così simile alla mia perduta Frigia, e lì scesi per dimorarvi... in attesa.




NOTE


[1] Così Omero definisce la Frigia.
[2] Secondo alcuni, l'isola delle Sirene sarebbe Antemoessa, nei pressi di Sorrento.
Lo stesso Omero ci dice che gli affascinanti mostri – in numero di due, nell'Odissea – abitassero su di un'isola e attendessero gli sventurati naviganti su un prato pieno di fiori.
   
 
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