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Autore: Aleena    30/06/2015    2 recensioni
Nel regno di Lolth, ogni ottantotto anni i figli bastardi di Che'el Phish, la
Città Rossa, devono correre nell'arena. Non c'è possibilità di salvezza per i maschi, solo
una rapida morte.
Rakartha pensa che il suo sangue di femmina la salverà, ma la crudele divinità dei Drow,
Lolth, ha in serbo per lei una sorpresa che le cambierà la vita.
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Storia vincitrice dell'Oscar per il "Miglior Trucco e Acconciatura" agli Oscar EFPiani 2016
[1a classificata al contest "Sangue, Slash e Fantasy" indetto da Ynis sul forum di efp
2a classificata al contest "Of Monsters and Masters" indetto da La sposa di Ade sul forum di efp]
Genere: Angst | Stato: completa
Tipo di coppia: Slash
Note: nessuna | Avvertimenti: Contenuti forti, Tematiche delicate
Capitoli:
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- Questa storia fa parte della serie 'I fantasmi di Che'el Phish'
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CAPITOLO V
JARACAS



 
  Rakarth aveva immaginato la tela della Dea come una tortura infinita, un nodo appiccicoso e stretto in cui le zampe di Lolth si sarebbero mosse come sul ghiaccio, scivolando con facilità fino alla vittima per nutrirsene ancora e ancora, per l’eternità, dilaniando il suo spirito e facendolo tessere di nuovo durante il giorno, dai ragni suoi servi.
L’inferno in cui si trovava ora, però, era ben diverso. Una coltre tiepida e morbida lo avvolgeva fasciando quello che era, senza alcun dubbio, il suo corpo nudo ancora integro. Rumori di vita arrivavano ovattati da una parete e rimbombavano sui muri di roccia di quella che doveva essere una piccola stanza. L’eco di tutti quei suoni mandava segnali che le orecchie fini di Rakarth non avrebbero potuto equivocare. Eppure lo jaluk tenne gli occhi serrati, timoroso che quella comodità non fosse altro che un perfido inganno.
Strinse a sé la coperta leggera e si girò, tuffando il volto nel cuscino, e sentì un peso trattenere le coltri. S’irrigidì.
«So che sei sveglio.» disse una voce familiare. Le molle del letto cigolarono appena mentre il peso si spostava, allungandosi verso di lui. «O preferisci che dica “sveglia”?»
Rakarth aprì gli occhi, tutti i sensi all’erta. Era in una piccola stanza fiocamente illuminata da lampadine al neon, verificò, una camera con molti armadi e grandi specchi su quasi tutte le pareti, interrotti solo dalla porta semichiusa di quello che pareva un piccolo bagno. C’erano tappeti a terra e due poltrone, inframmezzate da un tavolino. Alla sua destra, una porta di legno massiccio, oltre la quale erano ancora percepibili i rumori di chiacchiere e passi.
Rakarth registrò ogni dettaglio dell’arredamento, apprezzandone il gusto ricercato mentre ne valutava l’affidabilità come arma. Non c’era poi molto per colpire: le poltrone sarebbero state troppo pesanti per lui e gli armadi non sarebbero certo stati carichi di pistole! Avrebbe potuto rompere uno specchio e usare un vetro per minacciare il maschio, certo, ma avrebbe dovuto prima allontanarsi da lui…
Il pensiero non impiegò più di un secondo a formarsi nella mente e Rakarth lo nascose sotto una maschera di confusione ben studiata.
«Perché sono qui?» disse, calibrando le parole a un’assonnata lentezza.
«Sei diretta, eh? Non vuoi sapere prima dove sei?» Il maschio era vestito di pelle, come prima della Corsa: una giacca aperta sul petto chiaro e un volto da giocatore d’azzardo, imperscrutabile e irrisorio.
«Rispondimi!» ordinò Rakarth, sollevando il busto. Per la Dea, com’era pesante la testa!
«Sei qui perché io ti voglio, mia bellissima creatura. Sei qui perché è da decenni che aspetto un’arma così… unica.» Il maschio sembrò gustare le parole a una a una sulle labbra prima di lasciarle andare. Osservava Rakarth con uno sguardo avido.
«E la corsa?»
«Finita. I miei uomini ti hanno prelevato prima che una telecamera decidesse di infilarsi in quel tunnel quindi tranquilla… nessuno sa che sei viva. Ho espresso molto chiaramente il mio disappunto per la sconfitta, sugli spalti.» tagliò corto lui, agitando una mano nell’aria.
«Smettila!» sibilò Rakarth fra i denti, scagliandosi in avanti – un movimento che mise a dura prova il precario equilibrio della sua mente. La stanza prese a danzare intorno a lui, sfocandosi.
«Di fare cosa?»
«Smettila di rivolgerti a lei direttamente! Non ci piace.» disse Rakarth, prendendo la testa fra le mani. Tracce del veleno con cui dovevano averlo sedato pulsavano ancora nel suo sangue, confondendolo.
«Capisco. Chiedo perdono.»
«Mh.» disse Rakarth e ricadde all’indietro, evitando per un pelo di sbattere la nuca sulla testiera del letto. «Chi sei?»
«Chiamami pure Jaracas. Sono il tuo nuovo sponsor.» disse il maschio, alzandosi e muovendosi verso un piccolo schermo.
«Che significa?»
«Lo capirai.» Jaracas spinse un pulsante e la luce fredda e blu invase la stanza. Il maschio digitò una sequenza e l’intensità calò, poi scorse il menù e premette un tasto, ancora. «Benvenuto, Rakarth.» concluse, voltandogli le spalle.
La porta si aprì e tre femmine entrarono, tenendo lo sguardo basso. Non aprirono mai bocca mentre portavano Rakarth nel piccolo bagno e lo lavavano della polvere dell’arena con gesti esperti. Poi le coprirono il corpo di olio profumato e aprirono gli armadi – e Rakarth rimase senza fiato. I colori vividi degli abiti femminili e quelli più scuri e marcati dei vestiti maschili facevano uno strano contrasto con l’oro e l’argento che i cassetti nascondevano. Monili e trucchi che non aveva mai visto le vennero fatti sfilare davanti e le fu permesso di scegliere, per la prima volta nella sua vita, cosa indossare o quale parte di sé essere.
La vestirono, le curarono viso e mani e, spruzzato un profumo dall’aroma pungente, la lasciarono sola con un maschio più basso di lei, che le spiegò le regole della casa.
Avrebbe avuto tutti i servi, i gioielli e i lussi che desiderava perché il Signore l’aveva scelto come suo campione. Avrebbe gareggiato per lui nell’arena di Endressa, la capitale sotterranea in cui si trovavano, guadagnando gloria e onore per sé e per Jaracas. Le disse che il suo Signore era compiaciuto di aver trovato un combattente così di talento e l’adulò con tali e tante parole che, quando infine la porta si chiuse nella stanza solitaria, Rakartha rivolse una preghiera carica di amore alla Dea, che l’aveva premiata per il sangue che aveva fatto scorrere alla Corsa.
Ora Rakarth era libera, finalmente – libera e ricca. L’aspettavano anni di gloria e piacere, e per la prima volta rise felice, liberandosi di quella paura che l’aveva attanagliata per tutta la vita.
Pregò Jaracas di farla scendere nell’arena per la prima volta il giorno successivo; sentiva forte la necessità di offrire un tributo a Lolth, come ringraziamento per la buona sorte a cui l’aveva condotta. Le vennero date una corta lama ricurva e una frusta, le armi rituali di una sacerdotessa, e con quelle Rakarth tolse la vita a tre combattenti, gridando di gioia ogni volta che vedeva il sangue allargarsi sulla sabbia scura.
Lottava quasi nudo, con un perizoma di stoffa a coprire i genitali e i piedi scalzi, i muscoli che si tendevano nell’impeto della battaglia, torcendo i tatuaggi luminescenti di cui aveva imparato ad andare fiero. Erano il suo segno distintivo, il marchio della sua unicità, e sospettava che fosse per quelli che tanta gente veniva a trovarlo, dopo la lotta.
Alcuni scommettitori volevano congratularsi con lei, molti altri scoparselo. A Rakarth piaceva: indossava il belletto e lasciava che quelle creature lo prendessero con una passione che variava a seconda di quanto era costoso il monile che le portavano in dono. Sapeva che a guadagnarci era lei, sempre – e comunque, quando il maschio che era in lei alzava la testa per protestare, c’erano sempre gli schiavi su cui sfogare la propria rabbia.  
Rakartha provava un risentimento feroce per le femmine, di qualunque razza fossero: invidiava il loro corpo e ciò che a lei mancava, e mal sopportava quella strana, innaturale ossessione che il suo lato maschile aveva per loro. Quella prima notte, e per molte a seguire, chiamò femmine nella sua camera a coppie, per prenderle e poi ucciderne una di fronte all’altra, come sfregio verso loro stesse e ciò che rappresentavano. Lo faceva dedicando il loro sangue a Lolth, che pure doveva odiarla per questo, dato che non operava su di lei il mutamento che tanto desiderava. Ma quello delle femmine era un compromesso che aveva dovuto accettare per quietare il maschio: scendere a compromessi, ricavando però un vantaggio per sé sola alla fine, era accettabile.
L’unico punto in cui concordavano entrambe le sue anime era Jaracas.
Il Signore della casa pareva non vivere per altro che vederla combattere: sedeva nell’arena lontano da tutti, isolato, silenzioso e con la testa poggiata alle dita incrociate, e non le staccava gli occhi di dosso, mai.
Delle volte, camminando per i corridoi, l’aveva sentito vantarsi del “fenomeno” che aveva scovato in una grotta e che ora faceva parte della sua collezione. Allora Rakarth rideva in silenzio pensando che quell’idiota, che dopo ogni battaglia apriva le gambe per lui, non aveva ancora capito che era lei ad avere il controllo.
Jaracas era la creatura prediletta di Rakarth, la più preziosa: l’animaletto che le garantiva una vita di lusso. Un cucciolo anche fastidioso, a volte: continuava a far domande sul suo passato quando lui meno se lo aspettava, pretendendo risposte con un’arroganza che Rakarth tollerava a stento. Spesso lo zittiva con un bacio, altre volte preferiva punirlo prendendolo con tutta la rabbia che aveva in corpo.
Quella sera avevano già consumato la loro abituale ginnastica da letto e attendevano, distesi sul materasso ampio della camera di Jaracas, che l’eco dell’orgasmo si spengesse.
«Cos’è che ti ha reso… così?» domandò Jaracas, osservandolo da sopra una spalla. Aveva parlato con la calma indifferenza di una domanda studiata da tempo, e questo mise a proprio agio Rakarth.
«La Dea deve aver perso qualche scommessa. Ha puntato su di noi e noi abbiamo fallito. Io sono la punizione per la mia gente.» spiegò lo jaluk, allungando il collo. Aveva ancora dolori in tutto il corpo, alcuni dei quali più vecchi di quella notte.
«Raccontami come hanno fatto a scambiarti per una femmina.» Jaracas si era girato su un fianco e lo guardava. Così, con i capelli lunghi sciolti sulla spalle nude, aveva perso un po’ di quell’aria aliena che aveva nelle grotte. La nudità di Jaracas metteva Rakarth a proprio agio: la faceva sentire superiore, sicura di essere l’unica armata. Era lei ad avere il controllo, ora. Forse per questo cominciò a raccontare.
«I… i neonati sono una maledizione. Piangono, mangiano e cacano. Nessuna Matrona se ne occupa mai. Li mettono al mondo e poi li lasciano alle schiave… che i bambini siano figlie PrimeNate o abomini maledetti.» attaccò, richiamando alla mente parte di quei ricordi che venivano dai bisbigli nella scuola. «Tutti i figli destinati alla Corsa sono raccolti e mandati a svezzare nella Casa. Vengono tenuti insieme, maschi e femmine, anche se…. anche se alle jalill viene data una schiava migliore. Bisogna imparare a competere fin da piccoli, capisci? Per lo spazio, per il cibo, per l’angolo di pavimento in cui si dorme. Bisogna imparare a non avere vergogna.» Jaracas annuì, facendo al contempo un gesto vago con la mano. “Salta la parte noiosa” voleva dirle. Rakarth lo ignorò. «Quando i bambini hanno raggiunto il trentesimo anno di vita li si fa uscire fuori per la prima volta. Per la città, con le schiave. C’è… si ha paura. Che’el Phish è così… è infinita. E violenta.» fece una pausa, chiudendo gli occhi. Ricordava gli odori, le ombre e gli sguardi di quel primo giorno, nitidi come fosse ora. Un’istantanea dolce e dolora, indelebile nella sua mente. «Mi ricordo che la vecchia umana mi stringeva a sé con forza, sussurrando parole di coraggio a cui non credeva, e io mi aggrappavo agli abiti logori, pregando che prendessero lei e non me. Ci… facemmo il giro della piazza del mercato Est e poi tornammo indietro. Nell’atrio della Casa una femmina ci consegnò un coltello corto e ci mostrò…»
«L’hai uccisa?» tagliò corto Jaracas, annoiato.
«Le tagliai la gola da sinistra a destra, guardandola in quegli occhi fradici. E lei gridava e gridava, come uno spirito, lottando. E io… io ero piccolo, ancora, a stento le arrivavo alle ginocchia. Era la nostra prima prova, capisci? Il bagno di sangue.» disse senza enfasi Rakarth. Si era spostato sopra a Jaracas, ora, e teneva un immaginario coltello nella mano destra, con cui attentava alla vita dell’altro.
«La pietà non è per le razze che vivono nell’ombra.» disse Jaracas con una saggezza velata di ironia. Cercò di spingere via Rakarth ma lei non si mosse.
«Già. Ma non bastava. Ricordo che passai giorni a pulire il cranio dal sangue e dalla carne, levigandolo sotto l’acqua gelida. E poi… poi venimmo radunati e ci venne chiesto l’osso di chi ci aveva curati, in cambio della nostra vita.» mentre lo diceva la sua voce era tenera, di una dolcezza melensa che dava i brividi. Accarezzava i capelli di Jaracas come fosse una bambola, la sua preferita.
«Quanti passarono la prova?»
«Sono molti meno di quanti credi. A volte le schiave lo capiscono e riescono a ucciderci, contando sul fatto che noi siamo molto più piccoli di loro. Raramente qualcuno si affeziona e non riesce ad ammazzarla o a scuoiarla. Quelli…»
«Naturale.» Jaracas si girò di scatto, immobilizzando Rakarth sotto di lui. Avvicinò il bacino al suo, premendo l’erezione dura contro la parte bassa dello stomaco dello jaluk. «E in tutto questo quando sei diventato femmina?»
«Quando ho pagato per la vita. Le guardie ci divisero in due gruppi e io finii con le femmine.» Stavolta Rakarth tagliò corto davvero. Avvolse Jaracas con le braccia, improvvisamente impaziente, ma questi lo respinse ancora.
«Correggimi se sbaglio, ma già dovevi averlo il…» Attaccò, facendo scende una mano verso l’inguine di Rakarth.
«Tu cosa credi?» S’infiammò Rakarth. L’allusione a quel coso aveva trasformato il desiderio in rabbia in meno di un istante – come era sempre stato, d’altronde. «Non ci hanno spogliati, imbecille. Una jalill non può essere costretta a niente da un maschio.»
«Ma tu sei stato costretto a qualcosa, mh?» cercò di calmarlo Jaracas, tornando a stendersi su di lui. Aveva di nuovo modulato la voce a quel tono sottile e ipnotico, ma ora non riusciva a penetrare la calda rabbia di Rakarth.
«Quelli erano maschi nobili.» sibilò fra i denti, come fosse la cosa più ovvia al mondo.
«Ah, si. Capisco. O meglio, no, ma ho rinunciato a cercare di comprendere le vostre assurde leggi dopo il primo anno a Che’el Phish.» disse Jaracas, tentando ancora di ammaliarlo. Rakarth si alzò in piedi di scatto, allontanando il giovane da sé con violenza.
«Cosa c’è da capire? Maschio inferiore uguale seghe o bordello, a meno che qualcuna non lo richieda esplicitamente. Maschio superiore uguale jalill… se queste lo vogliono.» spiegò sommariamente, raccogliendo i primi vestiti che gli capitavano a tiro da terra.
«Non credo tu ti ascolti, quando parli.» Jaracas tentava di mantenere un tono divertito e sensuale, ma era chiaramente infuriato come Rakarth, se non di più.
«Stronzo» concluse il maschio che era in lei: una risposta troppo debole che non colpì il bersaglio. Lasciò correre e aprì la porta, cercando di trovare un po’ di controllo assieme alla strada per la sua stanza.
Jaracas gli ordinò tre volte di tornare indietro; due di troppo giudicò Rakarth, sbattendo la porta in faccia a quegli ordini che ancora gli tormentavano la mente. Chiamò uno schiavo e gli intimò di portare tre femmine e tre maschi dalla pelle scura e i capelli chiari entro mezz’ora, pronti per soddisfare i suoi desideri.
Gliene portarono cinque, tre femmine e due maschi con la pelle chiara come la luna, ma almeno i loro tratti erano elfici. Una delle femmine era abbastanza giovane da essere ancora vergine, e prenderla fra le sue grida di dolore e paura fu un inaspettato piacere per Rakarth.
Poi la jalill che era in lui decise che era il suo momento e scacciò tutte le femmine, restando sola con i due maschi.
Uno dei due tremava. Era giovane e umano, uno di quelli catturati da poco. Aveva le mani delicate, gli occhi affilati e la vita stretta, da femmina. Uno delle tribù dell’Est, senza dubbio. L’altro aveva condiviso spesso le notti di Rakarth da qualche tempo a quella parte: era un uomo talmente massiccio da far sospettare che da quale parte, fra i suoi antenati, doveva esserci un orco – o un nano molto possente, magari. Aveva una particolare avversione per lui, e questo era chiaro dal modo in cui Rakarth aveva dovuto combattere per poterglielo infilare dentro. Anche avvolto da corde o incantesimi, il mezzo-umano aveva continuato a fulminarlo con gli occhi, maledicendolo con pensieri così pesanti che Rakarth credeva di averli uditi, un paio di volte.
Il suo primo ordine fu per quello più massiccio. Scagliò un incantesimo sulla sua fronte e gli ordinò di scoparsi quello più piccolo. Il secondo fu per il ragazzino: doveva occuparsi di lui mentre l’altro lo prendeva senza riguardo, soffocando sul suo membro le proteste e il dolore.
A Rakarth piaceva quel suono: lo faceva sentire potente come poche altre cose, tranne uccidere, potevano – e per un po’ riuscì a godersela; poi il ragazzino ebbe la geniale idea di mozzicargli l’uccello per cercare aria. Prima ancora che il ragazzino potesse cominciare a scusarsi – o a pregare, forse – Rakarth aveva già stretto la sua gola fra le mani. Il rumore dell’osso del collo che si spezzava non lo lasciò soddisfatto come accadeva di solito. Quella sera sembrava destinata a farla dare di matto! Nulla si metteva per il vesto giusto!
L’uomo massiccio spinse il cadavere da una parte e restò immobile, dritto sulle ginocchia. Rakarth lo guardò e sciolse l’incantesimo con un cenno pigro della mano, afferrando il coltello per ogni evenienza – ma l’altro non l’attaccò. Si limitò a osservarlo mentre componeva la sequenza numerica sul piccolo schermo e chiamava i servitori perché cambiassero la biancheria da letto e spostassero il cadavere.
Rakarth sprofondò in una poltrona, ancora nudo, e rimase in attesa, l’uomo in piedi al suo fianco. Percepiva una tensione anomala in lui e ne era incuriosita. Perciò non si sorprese quando, non appena la porta si fu chiusa, l’altro cominciò a parlare.
«Sarai soddisfatto. Due cadaveri in una sola notte.» disse, sputando tutta la rabbia che aveva in corpo.
«No. Quando chiamo degli schiavi per scopare, voglio scopare, non restare con un lago di sangue e insoddisfatta.» Rakarth aveva la voce annoiata e la testa poggiata su un braccio, mollemente. Non guardava l’altro ma il letto, ora perfettamente pulito e tirato.
«Ipocrita.» sibilò l’uomo, stringendo le mani al petto. Tremava appena, la mascella contratta. «Immagino che tu non abbia pensato bene a chi era quel ragazzino.»
«Primo, non sono ipocrita. Ipocrita è chi dice il contrario di quello che fa, mh? Io prima scopo e poi ammazzo, non il contrario. Secondo: non me ne può fregare di meno della storia lamentosa di una vita inespressa, una famiglia in lacrime e il lutto. Se avesse aperto la bocca e si fosse impegnato a quest’ora sarebbe tornato a dormire in quella fogna che chiamava casa, e io sarei stata soddisfatta.» Lo divertiva rimbeccare lo schiavo. Quell’uomo era più grosso e si riteneva più intelligente di lei, senza dubbio, ma sarebbe comunque finito sconfitto… che scegliesse il confronto fisico o quello mentale.
«Sei ottuso, come tutti gli animaletti del serraglio di Jaracas. No, non parlavo di lui in sé, ma del suo ruolo. Sapevi chi era?»
«Uno schiavo?» lo provocò Rakarth.
«Un cucciolo del serraglio di Jaracas.» rispose l’altro, ora assurdamente più calmo. Era perfino
quasi sull’orlo di un sorriso!
«Beh, la cosa non cambia. Era pur sempre uno schiavo.»
«E tu cosa credi di essere?»
«Io sono un privilegiato, razza di idiota. Io vivo qui, nella parte nobile della casa. Io mi scopo il tuo padrone e lo faccio gridare come una prostituta! Io ho controllo su di lui! Tu… e quel cadavere maledetto dalla Dea, siete le mie bambole. Jaracas è la mia puttana. E questo posto… questo posto è mio, anche se siete tutti così idioti da non rendervene conto.» Rakarth aveva iniziato a urlare senza accorgersene, sbattendo perfino i pugni sui braccioli della poltrona.
«Sai cosa si dice dalle mie parti? “La libertà si misura dalla possibilità di andarsene”. Se questo posto è tuo, se sei così importante da non poter essere disubbidito, vattene! Che ci guadagni a restare in una grotta quando c’è un mondo intero che ti cammina in testa?» domandò lo schiavo, ora apertamente divertito.
«Nessuno può camminarmi in testa, idiota!»
«Cosa credi, che esista solo questa oscurità ripugnante? Che il mondo sia avvolto dalla roccia? Hai mai alzato lo sguardo al soffitto? C’è una luce chiara che viene e va, ed è il sole. Bagna terre dove l’occhio può vagare all’infinito senza incontrare altro che aria! E tu potresti camminare per chilometri circondato dal vuoto…»
«Pazzo! Queste cose non possono esistere! Vattene!» Rakarth si era alzato in piedi e aveva raggiunto lo schermo, cominciando a digitare freneticamente il codice giusto. Dovette rifarlo due volte, tanta era la rabbia che provava. «Guardie, levatemelo dai piedi!» gridò quando due troll fecero irruzione nella camera. Li osservò trascinare via lo schiavo, nudo e divertito, senza realmente vederli.
La sua mente era altrove, divorata dalla curiosità verso la visione allettante e impossibile che quell’uomo aveva evocato.    

 

 
  
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