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Autore: flatwhat    30/06/2015    1 recensioni
“Javert!”.
La figura, in piedi sul parapetto, si voltò appena alla chiamata, quasi non fosse sorpresa al suono di quella voce.
Valjean era sorpreso, invece.
Numerose volte, in tutti quegli anni, Ispettore e prigioniero, cacciatore e preda, erano stati spinti l'uno contro l'altro dal destino, e, eccezion fatta per l'incontro alla barricata di quello che era ormai il giorno prima, la situazione era stata invariata. Valjean in fuga e Javert all'inseguimento.

Javert viene salvato.
(Ma a caro prezzo).
Genere: Angst, Drammatico, Malinconico | Stato: completa
Tipo di coppia: Het, Slash | Personaggi: Cosette, Javert, Jean Valjean, Marius Pontmercy
Note: What if? | Avvertimenti: Tematiche delicate
Capitoli:
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Autrice: gli avvertimenti del capitolo precedente valgono anche per questo, se non di più. Lo ribadsco: sono trattati temi quali morte e suicidio.


Cosette e Toussaint si erano fatte dire l’indirizzo dell’appartamento di Javert e lo avevano accompagnato in carrozza fin dentro casa. Cosette lo costrinse a coricarsi sul letto.

“Sto benissimo”, insisteva lui, ma la sua voce era debole e il suo sguardo non sembrava guardare veramente da nessuna parte.

Toussaint lasciò la camera di filato per andare a cercare un dottore. Nell’attesa, Cosette fissò attentamente l’Ispettore – che lo stesse studiando? – e si azzardò a toccargli una mano. Dopo tutto quello che si era ritrovata a fare (persino reggerlo fino a casa), era curiosa e dolce quella timidezza. Se Javert si era accorto di quella specie di carezza, non lo diede a vedere.

“Non vi conosco molto bene, ma siete un uomo strano”, gli disse lei. Poi esclamò, con tono di rimprovero: “Perché siete stato così tutto il giorno, senza dire nulla?”.

Valjean rise – e la sensazione gli sembrò nuova ma non spiacevole – alle parole della figlia, nel ricordare i tempi di Montreuil-sur-Mer, quando Javert gli faceva rapporto personalmente anche dopo essere stato malmenato e preso a bastonate dai malviventi, e il ricordo gli suscitò una certa tenerezza.

Provò una voglia incredibile di posare sulle mani di quei due la propria. Se solo avesse potuto confortarli!

Javert rispose ai rimproveri dicendo “Stavo benissimo anche stamattina”, cosa che fece accigliare Cosette.

Valjean sapeva che l’Ispettore aveva dormito accucciato per terra, e già questo non gli avrebbe permesso di “stare benissimo” la mattina successiva; si accigliò anche lui. Che stesse evitando Cosette? La conferma gli giunse dalle successive parole dell’Ispettore.

“Dovreste andare a preoccuparvi del vostro amato, non di me”.

Cosette sgranò gli occhi, evidentemente sorpresa dalla rivelazione che Javert sapesse di Marius e Valjean sentì il mondo cadergli addosso. Non era possibile che Javert si fosse lasciato sfuggire quella frase per errore. Javert sapeva che a Cosette sarebbe sembrato sospetto e lui non capiva perché lo stesse facendo.

Sua figlia cercò di formulare una risposta.

“Ma voi…”

Ma proprio in quell’istante, Toussaint tornò con due uomini.

Mentre il primo, che era chiaramente il medico, si fiondava su Javert e cominciava a visitarlo, nonostante un’ultima, inutile protesta di “Sto benissimo” da parte sua, il secondo spiegò a Cosette di essere il padrone di casa, a cui l’Ispettore pagava l’affitto.

“Voi conoscete quest’uomo?”, chiese.

Cosette scosse la testa, ma Valjean poté vedere la rapida occhiata che rivolse a Javert.

“No, l’ho incontrato ieri per la prima volta”.

“E non sapete che cosa ha fatto ieri?”, si intromise il dottore. “Perché non comprendo una febbre così alta. Così, da un giorno all’altro!”.

Cosette scosse di nuovo la testa, e, dopo un attimo di silenzio, spezzato solo da un mugugno di Javert – che non sembrava molto contento di avere in casa così tanta gente – il medico sospirò.

“È meglio se rimaniamo solo io e lui qui dentro”.

Così, una malinconica Cosette decise finalmente di accomiatarsi.

Il padrone, un ometto paffuto dall’aria amichevole che diceva di chiamarsi Blanchard, le disse di non preoccuparsi, e che si sarebbe occupato lui di assicurarsi che Javert seguisse le prescrizioni del medico.

“In ogni caso, Monsieur l’Inspecteur è un uomo molto preciso, sapete, quindi senza dubbio seguirà tutto alla lettera e si rimetterà in un batter d’occhio! Lo conosco da tanti anni e non è mai successo che non guarisse da malattie o ferite. Non dovete preoccuparvi, dopo andrò di persona al suo posto di lavoro a comunicare ai suoi colleghi che sta male”, disse, riprendendo fiato un numero fin troppo esiguo di volte.

Javert emise un altro grugnito.

“Nessuno si dispererà per me, alla polizia”.

“Oh, sciocchezze, sciocchezze! Cosa farebbe, questa città senza l’Ispettore Javert?”.

Ci volle un’occhiata esasperata del dottore perché anche Blanchard si decidesse a lasciare la stanza.

Valjean si ritrovò a non sapere cosa fare. Decise di seguire la figlia fino all’uscita e di rientrare, perché gli interessava sapere cosa avrebbe detto il medico a proposito delle condizioni di Javert.

Vide la sua adorata figliola e la sua serva dirigersi verso casa. Si stava facendo sera.

L’ultima frase che sentì dalla bocca di Cosette, prima che entrasse in carrozza, fu: “Domani andrò da Marius”, e a questo, Valjean dovette ammettere a se stesso, provò ribrezzo, nonostante nelle ultime ore si fosse detto che continuare ad odiare quel tale Pontmercy non avrebbe avuto più significato.

Si castigò mentalmente: ormai Marius era l’unica persona che rimaneva a Cosette e lui, sciocco padre che poteva solo stare a guardare mentre la figlia soffriva, lui che non l’aveva neanche salutata a dovere, avrebbe dovuto semplicemente ingoiare il proprio odio, così inutile nella morte, dentro di sé e lasciare che la vita di Cosette e la vita di quel giovane continuassero senza il suo intervento. Sarebbe stato meglio, per loro.

Rimase con Javert, nonostante il suo modo di pensare ancora così ‘vivo’ registrasse il suo stare in quella stanza dopo che il dottore aveva cacciato tutti come una grande maleducazione. Provò disagio, ma si costrinse a rimanere accanto al letto dove stava Javert, mentre il dottore lo visitava più accuratamente. Dopo quello a cui aveva assistito ieri – la vulnerabilità di un uomo completamente distrutto – si disse che sarebbe stato un ipocrita a preoccuparsi del pudore in quel momento.

Benché si fosse detto queste cose, provò imbarazzo e voltò la testa quando il medico ebbe fatto spogliare Javert del tutto.

Ma non poté evitare di guardare con la coda dell’occhio. Lo aveva spinto un sentimento, un desiderio quasi inconscio di vedere cosa, per tutti quegli anni, si era celato sotto il lungo cappotto.

Sapeva di non avere più sangue, ma ebbe comunque la distinta sensazione di arrossire, e questo, successivamente, gli avrebbe fatto tornare alla mente quel momento più volte.

“Insomma, volete dirmi che avete fatto ieri o nei giorni scorsi?”.

Javert sogghignò, per quanto debolmente.

“Sono un ufficiale di polizia, che credete che abbia fatto? Sono stato alle barricate”.

Il dottore sembrò accettare questa spiegazione.

“Magari tra i rivoltosi, qualcuno vi ha contagiato. E, ditemi, vi hanno colpito?”.

“No”.

“Allora non mi spiego perché questa parte del vostro corpo ha queste contusioni. È un miracolo che non vi siate rotto nulla. Volete dirmi che non sentivate alcun dolore?”.

A Valjean tornò nuovamente in mente l’atteggiamento di Javert a Montreuil, ma questa volta il pensiero gli fece venire solo tristezza.

“Javert”, disse, coprendosi gli occhi con una mano. “Se penso che avete dormito per terra…!”.

Il medico non disse altro, decidendo forse di non indagare oltre per quel momento. Fu un sollievo per Valjean, quando decise di far rivestire Javert e farlo mettere sotto le coperte.

“Per il momento riposatevi. Darò al vostro padrone di casa tutte le disposizioni”.

Javert gli rivolse un ultimo grugnito, poi, volendo obbedire agli ordini del dottore o al proprio corpo, chiuse gli occhi.

Valjean seguì il medico con lo sguardo, mentre questi lasciava la stanza. Si voltò poi verso Javert, così esausto che sembrava già sul punto di addormentarsi, e mosse la mano verso di lui, non sapendo bene neanche lui il motivo di quel gesto. Voleva forse fargli una carezza, come aveva fatto Cosette pochi minuti prima? Scacciò quel pensiero, sentendosi di nuovo in imbarazzo. In ogni caso, non l’avrebbe mai sentita. Questo lo rattristò.

“Assicuratevi che mangi”, aveva detto il dottore a Monsieur Blanchard, quando Valjean era uscito dalla camera attraverso il muro.

Poi, entrambi se ne erano andati, il primo perché il proprio compito era al momento finito e il secondo presumibilmente per occuparsi di altre mansioni. Valjean non si preoccupò: era probabile che entrambi, il padrone di casa soprattutto, sarebbero tornati più tardi. Dopotutto Javert doveva mangiare. Però l’Ispettore era comunque rimasto completamente da solo, quindi decise di tornare indietro a sorvegliarlo – per quanto potesse valere la sua sorveglianza – ancora per un po’.

Trovandosi di nuovo accanto al suo letto, non seppe che fare.

Javert aveva gli occhi chiusi, ma le labbra erano contorte in una smorfia di dolore. Poco dopo, aprì nuovamente gli occhi e Valjean capì che non era riuscito a dormire.

“Vi fa male da qualche parte?”, chiese Valjean, pur sapendo che il suo interlocutore non lo avrebbe sentito. Sentiva però che rassegnarsi a non parlare lo avrebbe solo fatto sprofondare di nuovo nell’angoscia.

Ricordò che Fantine gli aveva detto che era stata con lui dopo la morte. Immaginò la povera donna alle prese con una piccola Cosette che non poteva né vederla né sentirla e rise amaramente.

“Senza dubbio, se ora decidessi di andarmene dove devo andare, non mi sentirei più triste”, disse ad alta voce, poiché non faceva differenza. La voce di Fantine gli era sembrata così felice e priva di preoccupazioni…

“Ma è quello che si definisce ‘il prezzo da pagare’, immagino. Più si rimane ancorati alle cose terrene, più si soffre, giusto? Ma è un prezzo che pagherò volentieri, se devo”.

“Suvvia!”, disse all’improvviso una voce dentro di lui. “Prendi sempre tutto come un sacrificio personale!”.

Valjean alzò la testa di scatto.

“Fauchelevent!”, esclamò.

“Esatto. Io non sono rimasto laggiù, quindi non so forse tanto bene che cosa si provi, ma mi aspettavo che tu la prendessi come una penitenza. Anche se adesso ti conosco con un altro nome, lasciatelo dire, è proprio da te, ‘Monsieur Madeleine’!”.

Valjean annuì, sorridendo debolmente.

“Sei sempre lo stesso anche tu, Fauchelevent”.

“Già, già. Senti, è così che stanno le cose”, disse ancora la voce. “Alcune persone devono rimanere sulla Terra per forza, dopo la morte, per espiazione. Ma tu non hai niente per cui espiare, perciò se rimani là sotto fallo soltanto perché vuoi farlo”.

“Ma io voglio farlo, amico mio”, cominciò a rispondergli Valjean, ma in quel momento sentì un lamento provenire da Javert.

L’Ispettore stava ancora coricato, ma adesso era completamente sveglio. Teneva un braccio sulla fronte e i suoi occhi erano puntati sul soffitto, ma era come se le pupille guardassero oltre.

“Forse”, disse con un filo di voce. Valjean si protese in avanti, in ascolto.

“Forse, stavolta, mi sarà concesso di morire”.

Dopo queste parole, nessuno parlò per alcuni minuti.

Valjean si mise in ginocchio accanto al letto, con le mani giunte, quasi pregasse perché cessassero le sofferenze di quell’uomo che non aveva mai visto soffrire in un modo così atroce.

“Fauchelevent”, disse infine, con voce tremante. “Mi hai detto che non devo espiare di nulla, ma ora mi rendo conto che non è così”.

Fauchelevent rispose con un sospiro, dal profondo della sua anima. “Non hai colpa di nulla. Ma potrei ripeterlo cento volte e tu non mi crederesti, vero?”.

Questo, nonostante tutto ciò che stava capitando, strappò a Valjean una risata amara. “Prova pure, ma hai ragione. Non posso smettere di sentirmi responsabile, almeno un po’”.

“Lo immagino. Pazienza”, riprese la voce. “Posso solo augurarti di trovare anche qualche soddisfazione, nella tua permanenza laggiù. Orbene, ti saluto. Sono contento di essere stato tuo fratello”.

“Mi chiami così e mi lodi anche dopo aver saputo chi sono?”, chiese Valjean, tremando leggermente. Sorrise. “Addio, fratello mio”.

Si rialzò, poi si rivolse a Javert, con voce dura.

“Vivrai, Javert. Io sono sopravvissuto a diciannove anni in quell’inferno che era Tolone, e tu sopravvivrai a una febbre”.

Queste parole erano in realtà un tentativo di convincere se stesso. In verità, se Javert fosse morto per quella malattia, Jean Valjean non se lo sarebbe perdonato. Avrebbe percorso la Terra all’infinito, in un atto di penitenza, se fosse successo?

*

Quando si fu assicurato che Javert avrebbe mangiato, Valjean tornò all’appartamento di Rue de l’Homme Armé e trovò Cosette pensierosa.

Da alcuni frammenti di conversazione con Toussaint, capì il problema che si era affacciato sulle due donne: il denaro.

“Senza dubbio”, diceva Cosette, “Papà teneva qualche soldo nella sua valigetta, l’inseparabile”.

Valjean teneva alcuni soldi in un cassetto, e quelli erano anche di proprietà di Cosette. I restanti erano cuciti all’interno della giacca. Dentro la valigetta non c’era denaro, ma qualcosa di altrettanto prezioso.

“In ogni caso, non so dove sia la chiave per aprirla”.

Valjean ebbe un moto di sollievo. L’aveva tenuta sempre addosso, la chiave. Se non l’avevano trovata sul suo corpo, allora probabilmente era sprofondata per sempre in fondo al fiume, con la sua vita.

L’accettazione di Fantine e di Fauchelevent, morti, non gli faceva comunque temere meno l’idea che sua figlia, viva, scoprisse i suoi più patetici segreti.

“Se osserverai bene la giacca, potrai scoprire che vi sono dei soldi cuciti all’interno. E allora dirai ‘Papà era proprio un uomo bizzarro’ e non ci penserai più. Ma la valigetta… No, ti prego…”.

Passò una decina di minuti senza che nessuno, nella piccola casa, parlasse.

Poi Cosette disse ad alta voce: “Dovrò lavorare”.

Subito dopo: “Toussaint, voi potete anche andarvene, se lo desiderate”.

Dalla gola di Toussaint fuoriuscì un verso strozzato, mentre la povera donna quasi si lanciava ai piedi della giovane. Valjean guardò la scena con occhi spalancati. Cosa intendeva fare, Cosette?

“Ma Mademoiselle! Io… Io dove andrò?”, gemette la cameriera, stringendo la manica di Cosette.

“Da qualcuno che potrà pagarti meglio di come potrei fare io”. Cosette appariva risoluta, ma era chiaro che stesse cercando di nascondere il tremolio nella propria voce.

“Ma- ma il padrone avrà sicuramente lasciato qualcosa…”.

“Toussaint”, la interruppe Cosette. “Non posso utilizzare quel denaro”.

Jean Valjean si arrabbiò.

“Non fare la sciocca!”, esclamò. “Per chi altri credi che abbia risparmiato tutto quel denaro, se non per te? E ora non vorresti utilizzarlo, in nome di cosa? Non ti ridurrai in povertà quando--” .

Un pensiero improvviso si affacciò alla sua mente.

Il patrimonio di Madeleine!

Solo lui conosceva il posto dove quel tesoro era sepolto. Fosse stato vivo, avrebbe potuto dare tutto quel denaro in dote a Cosette, ma ora era perduto per sempre.

“Sono uno stupido… Oh, se solo avessi saputo che sarei morto!”.

Cosette era quindi destinata a un matrimonio e una vita in miseria? Se quel Marius l’amava veramente, l’avrebbe sposata comunque, ma se non lo avesse fatto…  Valjean non doveva permettersi di gioirne ora, Cosette sarebbe stata infelice.

Dopotutto, forse l’idea di Cosette non era così sbagliata. Se avesse iniziato a lavorare e avesse limitato le spese, sarebbe magari riuscita a vivere bene anche senza il patrimonio che Valjean aveva conservato per lei.

Era un vero peccato, ma non c’era più niente da fare.

“Rimarrò qui”, stava spiegando Cosette a Toussaint. “Farò disdire l’affitto sulle altre due case. Poco fa, il portinaio mi ha fatto sapere che è disposto a diminuire l’affitto di questo appartamento, ma non voglio pietà da lui. Non posso costringerti a uno stile di vita del genere”.

“Mademoiselle”, balbettò la vecchia. “Se il padrone non mi avesse accolto, sarei finita in qualche ospizio. Sono troppo anziana e nessun altro mi prenderebbe. Fatemi rimanere qui, qualunque tipo di vita che potrei condurre ora non sarebbe peggio di quella che facevo prima”.

Cosette la guardò attentamente.

“Sei proprio sicura?”.

“Oh, sì!”, disse Toussaint, annuendo con vigore. “E inoltre, io tengo davvero molto a vedervi sposata e benestante. Siete come una figlia, per me!”.

Cosette le sorrise.

“Grazie, Toussaint”.

“Però dovete promettermi una cosa”, riprese lei. “Prendetevi tutto il tempo che volete, ma promettetemi che userete il denaro di vostro padre. Vi aiuterò a cercarlo, deve esserci sicuramente qualcosa qui in casa, all’infuori del cassetto. Anche se è poco, vi prego di utilizzarlo. Vostro padre avrebbe voluto così”.

“Grazie, Toussaint”, fece eco Valjean.

*

Valjean fece una scoperta, quella notte: era capace di dormire.

Era rimasto da Cosette, come la notte scorsa. Sedutosi su una sedia vuota, aveva pensato: “E se dormissi?”.

Il sonno, però, era senza sogni – era strano, era come se lui rimanesse cosciente anche durante il sonno e potesse decidere in qualsiasi momento di svegliarsi – e non gli procurò nessun riposo, gli permise solo di passare il tempo più velocemente.

Quando si svegliò, fuori era ancora buio.

Fece due passi. Per strada, gli capitava di scorgere delle ombre fugaci, che riconosceva come fantasmi. Non era solo.

Si ritrovò ai giardini del Lussemburgo. La vecchia abitudine lo aveva spinto lì, ed era malinconico a stare lì senza Cosette, ma anche curioso di cosa avrebbe visto a quell’ora tarda.

I giardini sembravano muti e immobili, quasi finti, nel buio della notte, tanto che a Valjean parve di sognare più di quanto non lo avesse fatto prima di uscire.

Andò avanti e indietro, per un po’, sovrappensiero. Poi aguzzò lo sguardo, e vide una figura accovacciata su una delle panchine.

Avvicinandosi, scoprì che in la figura era in realtà due figure più piccole: erano due bambini di pochi anni senza casa.

Valjean provò pietà a quella vista, ma erano vivi e lui era morto. Non poteva far altro che osservarli,  ma un vecchio istinto lo fece avvicinare ancora per tentare di toccare quelle piccole testoline.

“Shhh!”.

Quel suono improvviso, proveniente da dietro, lo fece sobbalzare. Quando si voltò, vide una faccia conosciuta che lo fissava con sguardo torvo.

“Ehi, lo so che non possono sentirci, ma evitate lo stesso di svegliarli! Si sono stancati tanto e devono riposare”.

Valjean gli parlò con la voce più bassa possibile.

“Sei il bambino che era alla barricata?”.

Il bambino gli sfoderò il più monello dei sorrisi.

“Come avete detto? Sono un po’ sordo, scusate. È la vecchiaia”.

Valjean gli sorrise a sua volta. Entrambi si allontanarono di qualche passo, senza che il bambino perdesse di vista la panchina.

“Eri alla barricata di rue de la Chanvrerie?”.

“Sì, e ricordo che c’eravate pure voi. Mi chiamo Gavroche”.

“Gavroche”, ripeté Valjean. Quel nome divenne un rantolo commosso. “Sei stato molto coraggioso, sai?”.

Gavroche si strofinò le mani.

“Oh, lo siete stato anche voi! A combattere, alla vostra età”.

Si sedette per terra, e Valjean lo seguì. Il fanciullo sorrideva allegramente, e non c’era più alcuna traccia di sangue, sul suo viso.

“In realtà, non ho combattuto granché”, disse Valjean.

“No, ma vi ho visto cercare di salvare quel giovanotto, quel Marius! Avevo un debito verso di lui, quindi sono stato contento. Ma siete morto?”.

“Non subito. Marius è vivo”.

“Buon per lui”, disse Gavroche e non cercò di approfondire la questione. Prese invece a parlare dei fatti propri.

“Ci sono rimasto male, sapete? Quando la barricata è caduta. Ma poi, quando mi sono ripreso, ho deciso di vedere che fine avevano fatto questi due”.  Indicò i due bambini addormentati.

“Sono i tuoi fratellini?”, gli chiese Valjean. Gavroche si mise a ridere.

“Sì, ma quando ero in vita non lo sapevo mica. Me lo ha detto mia sorella Eponine. Ci eravamo incontrati per caso, ma poi i due stupidi si sono allontanati e non sono più riuscito a trovarli”.

Valjean volse lo sguardo ai due marmocchi e osò ridere insieme a Gavroche.

“Sono fortunati, ad avere il loro fratello maggiore che bada a loro”.

“Oh, non è che io possa fare nulla”, disse Gavroche, con un’alzata di spalle.

“Sono sicuro che apprezzerebbero”.

Un’altra alzata di spalle di Gavroche: “E che ne so? Ma ho poche alternative”.

Quando vide l’espressione disorientata e anche un po’ preoccupata che indubbiamente il volto di Valjean aveva assunto (poiché si era ricordato delle parole di Fauchelevent: “Alcune persone devono rimanere sulla Terra per forza, dopo la morte, per espiazione”), Gavroche proruppe in una grossa risata.

“Oh, non preoccupatevi! Posso lasciare questo mondo, ma sai che noia! Lo farò quando dirò io. E non mi va neanche di vedere cosa stanno facendo mio padre e mia sorella Azelma. Mia madre basta a controllarli. A me non piace vedere mio padre”.

Sospirò. Per un attimo, davanti a quel volto sprezzante, passò un’ombra di tristezza.

“Posso solo rimanere a osservarli e sgridarli se gli viene la brillante idea di morire di fame: ‘Ho combattuto per voi, razza di ingrati’, gli direi, se dovesse succedere”.

Ormai il cielo si stava schiarendo, e da lì a poco sarebbe sorto il sole.

Valjean volse lo sguardo da Gavroche alla panchina.

“Tutto ciò che ti ha portato alla morte”, disse. “Lo rifaresti?”.

La risposta del bambino non si fece attendere: “Ovvio! E voi? Non mi direte che avete rimpianti!”.

Come Gavroche aveva sicuramente visto la barricata, prima di dare la sua risposta, Jean Valjean rivide Javert sul parapetto, e rivide le acque vorticose che lo inghiottivano, e vide Javert vivo, che tossiva, che si disperava, ma nel cui grido c’era tutta la forza della vita, Javert in lacrime accucciato per terra, Javert nudo mentre il dottore lo visitava, Javert umano.

“Ho dei rimpianti, Gavroche”, disse con un tremito, e oltre al proprio egoismo e alla disperazione che aveva causato gli venne in mente l’eredità di Madeleine, destinata a venire dimenticata sotto terra.  “Ma anche io lo rifarei”, decise infine. “Salterei di nuovo”.

Gavroche non indagò su cosa avesse voluto dire con “saltare”.

Le prime luci del giorno si affacciavano sui giardini ed era come se quel luogo misterioso fatto di sogno dovesse tornare alla vita da un momento all’altro.
Era ora di lasciarlo ai vivi.

“Devo andare”, disse Valjean, alzandosi in piedi. “Scusa se ti ho fatto perdere tempo”.

“Non c’è problema, tanto non avrei avuto altro da fare”, rispose Gavroche.

Valjean gli sorrise.

“Buona fortuna a te e ai tuoi fratelli”.

Gavroche lo degnò di un’occhiata.
 
“Voi ce li avete, dei fratelli?”, chiese.

“Ce li avevo”, rispose Valjean, e, nonostante fosse pronto a lasciare i giardini, rimase a guardare l’alba.

*

Qualche ora dopo, Cosette era andata da Marius. A piedi, per risparmiare sulla carrozza.

Valjean non l’aveva seguita subito, ma si era infine deciso a vedere con i suoi occhi in che stato si trovasse il ragazzo.

Era ancora in stato di incoscienza, e Cosette e Toussaint si erano unite alle donne della casa per fabbricare delle bende. Cosette piangeva, e la vista provocò una grande tristezza a Valjean, perché sapeva che il suo dolore era acuito anche dalla perdita di un genitore.

Povera bambina, ancora così giovane e già si sentiva persa.

Valjean pensò a Fantine, gli venne un brivido, ma subito dopo pensò a come la povera madre aveva lottato con le unghie e con i denti contro la miseria. Cosette avrebbe fatto lo stesso, non si sarebbe fatta trascinare facilmente dalla disperazione, di questo Valjean ne era sicuro. Ugualmente, non avrebbe mai voluto vederla in una situazione simile a quella della madre, e pregò che non dovesse mai succedere.

Da stracci di conversazione che Cosette, tra le lacrime, riusciva a sostenere con le cameriere, Valjean comprese che sua figlia aveva anche proposto di svolgere delle mansioni per il nonno di Marius, Monsieur Gillenormand, in cambio di qualche soldo. Capì allora la difficoltà della figlia: il giorno prima aveva detto che avrebbe cominciato a lavorare, ma era anche vero che il lutto e l’apprensione gravavano ancora sulla sua mente, e senza dubbio la piccola si sentiva in difficoltà a gestire assieme queste gravose situazioni e l’improvvisa mancanza di sostentamento economico.

“Anche se puoi ancora usare il mio denaro”, non si trattenne dal dire Valjean, con tono di rimprovero. “Potresti anche vendere i miei candelabri”. L’idea gli suscitava una certa tristezza, ma ora quei due oggetti tanto preziosi non appartenevano più a lui.

Dalle parole restanti che si scambiarono una delle serve e Cosette, capì anche come il patriarca della casa aveva appreso la notizia del suo essere orfana.

“Ma insomma”, disse la serva, una ragazza mora e con il naso all’insù che le dava un’aria sicura di sé. “Hai sentito oggi, cosa ti ha detto il padrone. Ha detto: ‘Vedo che ami veramente mio nipote e senza dubbio lui vorrà sposarti anche se non sei ricca, e poi non posso certo fartene una colpa, delle disgrazie che ti hanno colpito’, no? Ti ha detto che ti considera già come una nipote ed è disposto a pagare tutte le tue spese”.

Cosette singhiozzava ancora.

“No- non voglio che abbia pietà di me”.

“Ma che pietà e pietà”, disse ancora la cameriera, arricciando il naso. “Stai lavorando e quindi è giusto che ti paghi, no?”.

“Non voglio che mi paghi per la vita di Marius!”.

“Allora facciamo così: quando finiamo di fare le bende – tanto ne stiamo fabbricando anche troppe – prima di riprendere, se il padrone è d’accordo puoi metterti a pulire un po’ la casa con me. Non mi importa se mi pagano di meno per questo”.

Questo fece calmare Cosette, anche se, all’ultima frase, la sua bocca si contorse in una smorfia. Non poteva proprio sfuggire all’impressione di suscitare pietà, per quanto ci provasse.

Valjean si sforzò di rimanere in quella casa il più possibile, a osservare la figlia che lavorava per il suo futuro sposo. Sul far della sera, decise di controllare la situazione di Javert.

Lo trovò ancora al letto – naturalmente –  e il dottore che lo aveva visitato il giorno prima era accanto a lui. Doveva appena aver finito la visita quotidiana, poiché un attimo dopo si era già rimesso giacca e cappello, e aveva cominciato a discutere con il paffuto padrone di casa, la cui testa spelacchiata aveva fatto capolino dalla porta della stanza.

Valjean fu grato di essere arrivato tardi e non aver assistito ancora una volta a una scena che non avrebbe dovuto vedere. Il ricordo gli portò una nuova ondata di imbarazzo, ma esso si dissipò velocemente non appena i suoi occhi si spostarono dal malato sul letto all’espressione preoccupata dei due uomini che stavano parlando di lui. Si avvicinò a loro per ascoltare.

“Sì, sta seguendo le cure come da ordire, ma temo per il suo stato d’animo. Sembra essersi arreso”, disse il medico. L’altro uomo sbiancò.

“Ma è impossibile! Lo conosco da tanti anni e non l’ho mai visto arrendersi neanche una volta”.

Entrambi guardavano Javert, e Valjean fece lo stesso. L’Ispettore stava tranquillamente in silenzio e guardava i presenti con la coda dell’occhio. “Ha capito di cosa parlano e lo accetta”, pensò Valjean con tristezza. Ricordava le parole che gli aveva sentito pronunciare il giorno prima: “Forse, stavolta, mi sarà concesso di morire”. Non solo le ricordava, erano impresse a fuoco nella sua mente.

“Javert”, sussurrò. “Possibile che non ci troviamo mai d’accordo, io e voi?”.

Pensava ancora al salvataggio riuscito di Javert come a un miracolo, ma era piuttosto chiaro che l’Ispettore avrebbe preferito un fato diverso. Era stato forse lui, Valjean, l’egoista, quando lo aveva seguito nel suo tuffo di morte? Ma il pensiero di come sarebbe potuto andare tutto diversamente, se solo Valjean fosse rimasto a casa, quella sera, era spaventoso. Sarebbe toccato a Javert il ruolo di fantasma che veglia silenziosamente sulle vite altrui? Cosa ne sarebbe stato di Valjean? Avrebbe sicuramente visto la figlia sposata senza problemi economici, ma dopo?

Forse, tutto l’aspetto “spaventoso” della vicenda lo era solo per chi rimaneva in vita. Valjean conosceva ormai cosa si trovava oltre la morte, quella porta oltre la quale i vivi hanno paura a guardare. A Javert, ancora in vita, non era concesso conoscere quei segreti, e quindi si struggeva nell’incertezza del futuro e nel senso di colpa, e per questo motivo sperava nella morte.

Senso di colpa. Era tuttora un pensiero ben strano, che quell’uomo di ferro si sentisse in colpa per la morte del detenuto che aveva sempre cercato di acciuffare.

Valjean ricordava ciò che Javert gli aveva detto, quella notte. Gli aveva lasciato intendere, con poche parole, tutto il proprio turbamento interiore, e anche se Valjean stesso sentiva di aver subito la medesima esperienza emotiva, non poteva ancora dire di comprendere del tutto fino a dove si estendeva quel cambiamento di opinioni improvviso. Chissà, poteva anche essere che lo stesso Javert non ne fosse del tutto a conoscenza. Oltre a quelle riflessioni che lo avevano trascinato tra i due ponti si aggiungeva anche il terribile tarlo che se non avesse saltato, non lo avrebbe fatto neanche Valjean.

Vogliamo specificarlo: Valjean non gli avrebbe mai attribuito la colpa della sua morte. Come il lettore ha già avuto modo di vedere, sarebbe stato più propenso a darsi la colpa da solo. Fauchelevent avrebbe detto che non era colpa di nessuno e che era successo così per puro caso e come tale bisognava accettarlo.

Ma torniamo a noi. Nonostante le sofferenze che gli vedeva provare, Valjean voleva disperatamente e furiosamente che Javert continuasse a vivere. Non poteva sopportare quella visione: lui, nei pressi del fiume, completamente solo, sia da vivo che da morto. Non era giusto.

“Sono un egoista a pensare questo…?”.

Chissà cosa pensava Javert di lui, chissà com’era cambiata la sua percezione dell’uomo di nome Jean Valjean.

La visione che Valjean aveva di Javert cambiava per ogni istante che passava ad osservarlo, ma la sua mente, seppure onesta, rimaneva allo stesso tempo difficile da comprendere; su questo rifletteva Valjean quando un’altra testa si affacciò dalla porta socchiusa.

“È permesso?”, chiese l’uomo.

Al suo apparire, fu come se tutti gli uomini nella stanza, Javert compreso, si risvegliassero di colpo da un malinconico torpore. Blanchard andò immediatamente ad aprire, il viso del dottore assunse un’improvvisa espressione di sorpresa e Javert addirittura provò ad alzarsi.

Fu la stessa voce dell’uomo appena entrato a fermarlo: “Non sforzarti, Ispettore”.

Solo Valjean non aveva riconosciuto quell’individuo, ma non era difficile indovinare chi fosse.

Il signore anziano dai baffi importanti era circondato da un’aria di autorità, che avrebbe spinto qualsiasi uomo ad abbassare gli occhi al suo cospetto anche se in quel momento non avesse avuto la divisa e le medaglie, e il suo dare del tu a Javert faceva intuire che fosse di un rango più elevato rispetto al suo.

Valjean dovette reprimere la sensazione di frenesia che soleva risvegliarsi in lui al cospetto di uomini appartenenti alla polizia. L’uomo aveva uno sguardo che non era difficile immaginarsi spaventoso, ma non avrebbe potuto più nuocergli.

“Monsieur Chabouillet”, lo salutò Javert.

“Monsieur le Secretaire!”, gli disse Blanchard. “È stata la mia lettera a scomodarvi? Non era mia intenzione”.

“Non è stata la vostra lettera”, rispose lui. Indicò Javert e sorrise. “È stata la sua”.

Gli altri due uomini lo guardarono con aria interrogativa, ma Chabouillet li pregò di uscire: “Voglio parlare da solo con lui. Per favore, non disturbatemi.”. Valjean sentì il familiare disagio che lo prendeva quando di lì a poco avrebbe assistito a una scena in cui non avrebbe dovuto ficcare il naso.

Quando Chabouillet gli si avvicinò, prendendo una sedia, mentre Blanchard usciva, seguito dal medico, Javert volse lo sguardo altrove.

“Non intendevo recare disturbo al Segretario del Prefetto”.

“Nessun disturbo. Il Segretario del Prefetto preferirebbe però che l’Ispettore Javert non morisse prima della sua data della pensione. Credi di poter aspettare?”, disse Chabouillet, ridendo. Valjean ipotizzò che i due si conoscessero da parecchio tempo.

La risata di Chabouillet si spense quando Javert rispose con brusca sincerità: “No”.

Il Segretario si allarmò.

“Ma insomma, Javert, cosa è successo? Ho dato uno sguardo alla lettera che avevi scritto la notte del sette giugno, poi non ti ho visto più e mi è giunta voce che eri a letto malato!”.

Javert fece una smorfia piegando le labbra. Era uno strano, inquietante sorriso.

“E cosa avete pensato della mia lettera?”.

Passò una manciata di secondi prima che Chabouillet gli rispondesse.

“Ho pensato che non ti avevo mai visto o sentito esternare simili preoccupazioni sullo stato dei prigionieri”.

Il sorriso di Javert divenne più largo e più terribile.

“L’avete considerato un atto di insubordinazione?”.

Chabouillet sospirò.

“Io ero preoccupato”, disse. “Ma sarò onesto, Ispettore, a Monsieur le Prefet non è piaciuta, quella lettera”.

Questa volta, Javert si mise addirittura a ridere. Qualcosa, in quella risata, sapeva di delirio febbricitante, e Valjean non poté evitare di preoccuparsi.

“Non sono più Ispettore, ormai”, rantolò. “Doveva essere una lettera di dimissioni”.

“Dimissioni?”, ripeté il Segretario, allibito. “Ma di cosa stai parlando, Javert?”.

Javert smise di ridacchiare, e lo fissò con fare serissimo.

“Avevo intenzioni di dare le mie dimissioni a Dio”.

Nessuno fiatò. Valjean aveva la sensazione che i capelli gli si rizzassero in testa, cosa impossibile, ma senza dubbio quell’impressione era condivisa da Chabouillet, che non poteva fare altro che guardare Javert senza dire una parola.

Dopo alcuni secondi, l’uomo più anziano riuscì a chiedere: “È successo qualcosa alla barricata?”.

“Sì” fu tutta la risposta di Javert.

Prima di riprendere a parlare, Chabouillet fu scosso da un gran sospiro, e il pover’uomo si passò una mano sulla fronte, dove probabilmente si stavano raccogliendo sudori freddi.

“Potresti scendere nel dettaglio?”.

Di nuovo quel terribile sorriso sul volto di Javert. Le labbra che arrivavano a scoprire le gengive, e gli occhi fuori dalle orbite trasfiguravano quel viso fino a farlo sembrare il ringhio di una tigre in trappola.

“Ho ucciso un uomo”.

Il viso del Segretario del Prefetto di polizia di Parigi, Monsieur Chabouillet, che sicuramente aveva visto e sentito tante cose orribili in tutti quegli anni che gli avevano lasciato i capelli candidi come la neve, perse completamente colore. Doveva conoscere Javert molto bene, per comprendere tutta la gravità di un’affermazione del genere.

“Dopo la rivolta?”, chiese.

“Sì”, disse si nuovo Javert, laconico.

Chabouillet si lasciò andare in un altro sospiro, stavolta forse anche per ricominciare a respirare normalmente. “Javert, io sto cercando di capire. Per favore, raccontami tutto”.

Javert non sorrideva più.

Lentamente, i suoi lineamenti si piegarono in un’espressione di dolore.

“Ricordate come ho descritto il mio operato durante i moti, Monsieur? Ho scritto che uno dei rivoltosi mi aveva risparmiato e mi aveva fatto fuggire dopo che ero stato scoperto”.

“Va' avanti”, la voce di Chabouillet era udibile appena.

“Quell’uomo che mi ha lasciato andare era Jean Valjean. Vi ricordate questo nome?”.

“Mi suona familiare”.

Javert lo fissò in modo che, se le pupille fossero stati spilli, Chabouillet sarebbe stato punto.

“Era il detenuto che aveva violato la condizionale ed era diventato sindaco di Montreuil-sur-Mer”.

“Ah”.

“Dopo, l’ho incontrato di nuovo all’uscita delle fogne, sul lungo Senna. Trasportava sulle spalle uno degli studenti – l’amato di sua figlia, mi ha detto dopo – e mi pregò di aiutarlo a portare in salvo il ragazzo. Era intenzionato a consegnarsi spontaneamente nelle mie mani, ma quando avrei potuto arrestarlo preferii invece andarmene”.

Fece una pausa. Deglutì.

“Perché io non potevo arrestarlo, sentivo che avrei commesso un’ingiustizia. Lo avevo visto compiere del bene a rischio della sua stessa vita, e improvvisamente vedevo tutte le buone azioni che aveva compiuto come Madeleine sotto una luce diversa, come potevo punirlo per un crimine che aveva commesso tanti anni fa, o per la seconda evasione, motivata solo dall’intenzione di fare altro bene? La verità era davanti a me: Valjean era cambiato, e arrestarlo sarebbe stato andare contro la giustizia di Dio, di cui solo in quel momento vedevo l’abisso. Però, allo stesso tempo, io non potevo mancare ai miei doveri di agente, o sarei andato contro la giustizia dell’uomo, la mia costante in cinquant’anni di esistenza”.

Un’altra pausa, dove Javert cominciò a respirare affannosamente.

“Non so se abbiate mai provato la sensazione di vedere crollare tutte le vostre certezze e le vostre ragioni di vita, e vi auguro di non provarle mai”.

A Valjean si strinse il cuore. Due immagini si sovrapposero, davanti a lui: Javert sul parapetto, il vescovo Myriel che affidava i suoi candelabri d’argento a un uomo immeritevole…

“Come agente o come uomo avrei mancato ai miei doveri”, continuò Javert, con tono isterico. “Scrissi quella lettera e presi l’unica decisione possibile, quella di annegarmi”.

Si fermò di nuovo, forse per riprendere fiato o aspettando un commento di Chabouillet. Quando gli fu chiaro che non sarebbe arrivato nessun commento, proseguì nel racconto.

“Ero in piedi sul parapetto tra Pont Notre-Dame e Pont-au-Change, con tutta l’intenzione di gettarmi di sotto. Ma indovinate chi venne a protestare?”.

Chabouillet esitò per un momento. “Jean Valjean?”, si arrischiò a domandare.

“Esattamente”, rispose Javert, con voce grave. “Cercò di convincermi a desistere… Pensate, m- mi invitò pure a bere qualcosa a casa sua. Io! Il suo nemico! Ma io non lo ascoltai, mi gettai in avanti e-- non sapevo che si era tuffato anche lui. Quando ho riaperto gli occhi ero vivo, ma lui… Lui… !”.

La sua voce si spezzò in un singhiozzo, si portò una mano alle labbra e nuove lacrime gli sgorgarono dagli occhi.

Chabouillet rimase in silenzio, mentre Javert si prendeva quel momento di debolezza, ma quando Valjean, scoraggiato, cercò una reazione da parte sua, sul suo volto vide dipingersi l’angoscia.

“Mi chiedo”, riprese Javert, ansimando. “Se in questo momento mi stia guardando. Dopo ciò che ho visto di persona, è difficile da immaginare, ma forse adesso anche lui  prova odio per me, dopo che l’ho ucciso senza volerlo”.

Cadde di nuovo il silenzio. Passarono lunghi istanti dove l’unico suono che poteva udirsi era il respiro pesante di Javert.

“Javert, io non ti ho mai odiato”, disse poi Valjean.

Per tutta la vita, non avevano fatto altro che incrociarsi, e non si erano mai compresi fino in fondo. Ora che aveva messo a nudo i suoi sentimenti, Valjean poteva dire di capirlo un po’ di più rispetto a prima, ma questo traguardo era stato raggiunto solo dopo la morte e ancora Javert non capiva lui, e probabilmente non l’avrebbe capito finché sarebbe rimasto in vita.

“Davvero un peccato che nessuno di noi due abbia provato a tendere la mano all’altro, fino agli ultimi istanti. Se le cose fossero state diverse, forse saremmo potuti diventare amici”, pensò. “Ma forse non saremmo stati neanche quelli che siamo ora”.

“Quando sono tornato a casa”, disse Javert, con un filo di voce. “Per un attimo, ho pensato di togliermi la vita. Ma non ho avuto il coraggio”. Un altro singhiozzo. “Non mi resta che aspettare la morte di malattia”.

“Javert”, disse allora Chabouillet. La sua voce era ferma. “Se credi che rimarrò a guardarti morire, non potresti essere più in errore. Verrò ogni sera e mi assicurerò che tu ti riprenda”.

“Sarebbe giusto morire. Ripagherei il mio debito”.

“Javert”, sbottò il Segretario, con un tono che non ammetteva obbiezioni. “Credi davvero che quell’uomo sarebbe felice di vederti morire, dopo che si è adoperato così tanto per salvarti la vita, per ben due volte?”. Sospirò e assunse un tono più dolce: “Posso immaginare che non sia facile, ma devi cercare-”.

Proprio in quel momento, qualcuno bussò alla porta e, senza che Chabouillet desse il permesso di entrare, spuntò di nuovo il padrone di casa.

“Scusatemi, Monsieur le Secretaire, ma c’è una persona che vorrebbe vedere l’Ispettore Javert”.

“Avevo detto che non volevo essere disturbato”, replicò lui, stizzito.

“Ma Monsieur, la poveretta ha fatto tutta questa strada”.

A queste parole, Javert si sforzò di riprendere il controllo.

“Chi è?”, chiese.

“Mademoiselle Cosette”, disse Blanchard.

Javert non celò una certa sorpresa.

“Fatela entrare”, ordinò.

Cosette entrò timidamente, accompagnata da Toussaint, reggendo un mazzo di fiori. Chabouillet si alzò dalla sedia.

“Buonasera, Mademoiselle. Perdonate la mia mancanza di cortesia, ma conoscete l’Ispettore?”.

“Sì”, rispose Cosette. “Sono venuta a vedere come stava”.

A Valjean non sfuggì il piccolo sorriso che Chabouillet rivolse a Javert, mentre voltava appena la testa per guardarlo.

“Mi ha accompagnato a casa quando mi sono sentito male, ieri mattina”, disse Javert, come a volersi giustificare, poi si rivolse a Cosette. “Non dovevate andare dal vostro amato?”.

Il sorriso di Cosette non raggiunse i suoi occhi. Prima o poi, si disse Valjean, avrebbe chiesto a Javert di spiegarle come era venuto a conoscenza di Marius.

“Non posso visitare due malati in una sola giornata? Non sapevo fosse vietato”, disse con un risolino che Valjean riconobbe essere finto. Lo stesso, con giocosa aria autoritaria, si avvicinò al letto di Javert a grandi passi, bellamente noncurante della presenza del Segretario di Polizia, tra l’evidente imbarazzo di Toussaint, e depositò i fiori sul comodino. Chabouillet rise.

“L’Ispettore Javert è così burbero, quindi lo chiedo direttamente a voi”, gli disse Cosette. “Posso venire a visitarlo di sera, quando ho finito con il mio amato, oppure me lo vieta la legge?”.

“Potete venire quando volete”, disse Chabouillet. “E grazie da parte sua per i fiori”.

“Grazie”, bofonchiò Javert.

Valjean non trattenne un sorriso malinconico. Cosette aveva sicuramente fatto la strada a piedi, ma non aveva risparmiato sui fiori.

“Ma che maleducata, non vi ho chiesto come state!”.

“Mademoiselle, l’Ispettore si riprenderà, vedrete”.

Javert la guardò per un lungo momento.

“Mi riprenderò”, disse a sua volta. “Vedrete”.

Quando furono di nuovo soli, offrì questa spiegazione a Chabouillet: “L’ho derubata prima della madre e poi anche del padre, mi assicurerò che non sia privata di nient’altro. Questo è il mio debito”.

Così accadde che Chabouillet e Cosette lo visitarono quasi tutte le sere, e quando uno dei due non poteva, c’era sempre l’altro a fargli compagnia.

Javert si riprese, e con il tempo, anche Marius cominciò a ristabilirsi. 

 

Autrice: questa storia diventerà sempre più lunga, me lo sento.
Beh, spero che non sia stata una faticaccia, arrivare fin qui!
Grazie a chi leggerà.
  
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