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Autore: Manto    02/07/2015    4 recensioni
❤ Seconda classificata al contest “The Secrets beyond the Stones” indetto da Fiore di Cenere sul forum di EFP.
Parthenope: tra le donne e i mostri che il Multiforme incontrò, Lei sola lo ebbe veramente.
Lei, l'Incantatrice, la Favolosa, la Nascosta, Lei che rinunciò all'amore e per odio venne tramutata in mostro, condannata a far innamorare di sé i naviganti con il suo canto... ma a non essere amata da Nessuno.
Genere: Introspettivo, Triste | Stato: completa
Tipo di coppia: Het, Crack Pairing | Personaggi: Afrodite, Altri
Note: Lime, Missing Moments | Avvertimenti: nessuno
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- Questa storia fa parte della serie 'Immortali'
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III - Elegia




Non rimasi a lungo sola in quella prigione profumata di viole, baci mai scambiati e lacrime che si confondevano con il mare; la Dea aveva maledetto anche un'altra giovane donna come me, e un mattino la vidi giungere, coperta di bianche piume, fatta eccezione per il viso e i capelli, un'onda di puro oro.
Ci guardammo a lungo, mostri con la Bellezza nel volto, e poi io iniziai a cantare. L'altra rimase per qualche tempo ad ascoltarmi, quindi la vidi chinarsi tra l'erba ed afferrare con le ali un oggetto che mai avevo visto prima, cavo e pieno di fori, e soffiare all'interno.
La mia voce si mozzò, quando udii quale meraviglia riusciva a far sgorgare da quell'inanimato tesoro. Fu come udire il canto agognato e sospirato di mille donne che accolgono i mariti dalla guerra. Mi unii a lei, e al suono della nostra musica l'isola si sollevò tra le onde e si ricoprì di pallida nube.
Sorridemmo. “Il mio nome è Ligeia. E anche se non ti ho mai conosciuto... provo per te i sentimenti di una sorella”, disse.
Annuii. “Mi chiamavano Parthenope, quando ero un'umana. E ricambio ciò che senti”, risposi.
Fissai lo strumento che teneva stretto. “Un Dio ti ha insegnato a suonarlo? Non ho mai udito niente di più dolce, e triste.”
Ligeia sorrise. “Forse non odi la tua stessa voce. Ha la profondità della tempesta, di un sogno.”
Silenzio; un sospiro, un respiro, un grido di allarme che si perdeva tra la nebbia.
Sospirammo anche noi. Era giunto il momento.

Furono loro, quegli ignari pescatori, i primi che spingemmo alle nostre rive. Bastò solo cantare di una casa che li aspettava, di una famiglia che li amava, e loro abbandonarono la ragione; e poi la vita.
Ma furono soltanto i primi: moltitudini, eserciti interi abbiamo straziato senza piangere lacrime, senza provare alcuna pena per loro. La Dea ci aveva tolto ogni sentimento, e noi vivevamo solo quando quegli uomini ci davano loro stessi e morivano, il cuore ancora palpitante, che loro stessi si strappavano, tra le mani.
Guardavamo quegli occhi smarriti, mentre i loro Spiriti si inabissavano verso un nuovo viaggio al cospetto di Ade e la loro carne rimaneva a galleggiare tra le braccia del mare, e mai smettemmo di incantare e uccidere.
Noi eravamo i piaceri mai realizzati, lo struggimento della carne e la follia delle pulsioni più animalesche, i nostri occhi divenuti d'opale [1] sapevano ciò che le nostre prede volevano ancor prima di scorgerle, e glielo concedevamo per un istante, un istante soltanto, prima di serrare gli artigli intorno alle loro gole.
No, noi non provavamo nulla, che fosse umano... eppure, a volte mi chiedevo perché l'angoscia cogliesse la mia voce mentre guardavo un giovane appoggiare il capo tra le mie ali, morto, e un vecchio saggio piangere silenzioso, ultimo fra tutti, mentre già lo ghermivamo e lui non era più nulla.

Un giorno incantammo Giasone e gli Argonauti.
Noi sapevamo già di te, Odysseo, e di quello che ci avresti fatto; come sapevamo del tuo nobile, affettuoso padre, re Laerte. Fu a lui che si diresse la mia voce mortifera, suoi gli occhi che volevo intrappolare, il bel corpo che volevo straziare e il cuore che volevo divorare.
Sapevo che niente di questo sarebbe successo, perché Orfeo [2] era con loro e tutti avrebbe salvato; sapevo che tu avresti riabbracciato il re tuo padre all'ombra della pietrosa Itaca, ma questo non mi distolse dalla brama di vedere il suo volto turbato dalle mie parole di miele.
Mentre Ligeia confondeva i suoi compagni con maestria e crudeltà, io entrai nel cuore del grande Laerte e instillai in lui la lussuria per me; risi mentre lo vedevo sporgersi dalla nave parlante, la bella Argo, e la potenza della mia voce aumentò mentre mi cercava tra le nebbie dell'isola.
Gli feci tremare il cuore, quasi cancellai in lui ogni ricordo di te e della sua sposa, ma Orfeo cantò, calmando la nostra furia e sottomettendoci a un amaro giogo di silenzio, permettendo a tuo padre di ritornare... con il ricordo di me.
In una notte piena di stelle mi conoscesti, Odysseo, tramite il suo racconto, e diventai subito ogni tuo desiderio e respiro.
Io lo so, che è da quel momento che hai iniziato ad amarmi.

E nel sole del Mezzogiorno... nel sole del Mezzogiorno, dopo tanto tempo, guardai con trepidazione la tua nera nave che si avvicinava.
Sapevo già ogni cosa, prima che tutto avvenisse; eppure non ti risparmiai niente.
Io dovevo essere tua, solo tua, e mi diedi a te. La tua chioma brillava al sole, la pelle riluceva mentre ti dimenavi legato all'albero della tua nave, e imploravi i tuoi compagni di slegarti, di permetterti di raggiungerci.
Piangevi, quanto piangevi, mentre narravamo dei compagni scomparsi, delle vite che tu avevi rovinato, del cavallo di legno che lacrimava sangue e rabbia sulla spiaggia dell'odiata città di Priamo [3]; e infine, apristi gli occhi. Occhi folli, che vedevano l'infinito, Dio tra gli Dèi, uomo dalle mille vite.
Tu mi guardasti, mi vedesti veramente, e mi entrasti dentro. Io smisi di cantare, la voce mi si mozzò... e mi smarrii.
Sapevo che quella sarebbe stata la mia fine, eppure allungai le ali verso di te e ti implorai di restare.
Ti prego, resta, implorai, resta per me, con me. Non mi lasciare.
Ma già la nave correva veloce, come una nube di tempesta, e tu eri già lontano.
Odysseo, Odysseo, perché non mi hai raggiunta?
Odysseo, Odysseo, perché non mi hai voluta?
Perché mi hai costretto a ergermi in volo, salire sempre nel cielo che aveva lo stesso colore degli abissi e lasciarmi cadere, seguita dalla mia sventurata sorella? Lo sai, lo sai, che quando toccammo l'acqua ritornammo fanciulle?
Innocenti spose delle onde, fiori che mai nessuno riuscì a cogliere. Fu il Mare ad amarci, a prendersi la nostra verginità... ma io l'avrei donata a te.
Tutto, io avrei ceduto a te: corpo, sapienza, la mia stessa vita.
Ma tu non potevi sentirmi; tu eri distante, perso per sempre, amore mio, e noi eravamo solo tristi ombre di regine, la nostra voce un'elegia inascoltata, disperata come la nostra Sorte.


NOTE

[1] Per i Greci, l'opale era la pietra della preveggenza e della comunicazione con gli dèi, e spesso era associata all'acqua per le sue sfumature cangianti capaci di ricordare le onde del mare.
[2] Nella mitologia si dice spesso che il primo a sfuggire alle Sirene fu Odysseo, ma in verità furono gli Argonauti con Orfeo, il canto del quale era così potente da ammansire persino queste creature.
[3] Seconda un'interessante teoria, le Sirene cantavano ai naviganti o il loro passato e quello che non sapevano riguardante alle loro persone care, o assumevano la voce di chi amavano; nel caso di Odysseo, cantarono ciò che più di ogni cosa lui desiderava sapere: il ritorno da Troia e le vicende degli altri re.
   
 
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