Anime & Manga > L'Attacco dei Giganti
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Autore: DonnaEliza    03/07/2015    2 recensioni
Non eri una persona comune: non è comune nascere in una famiglia ricca, e ancora meno comune allontanarsene. Non è comune diventare una ballerina classica.
Invece, le persone comuni vedono le loro case distrutte. Vedono i Titani vagare per le strade. Le persone comuni muoiono, vengono terrorizzate, vengono divorate. Questo è comune, nel tuo mondo.
Quando quel muro ti è crollato addosso, nello spazio di un momento, sei diventata una persona comune.
Non lascerai che succeda di nuovo.
La mia prima fanfiction! Sporca, dura e piena di stress post traumatico. Critics are welcome!
oO°I clean for Heichou°Oo
Genere: Introspettivo, Sentimentale, Slice of life | Stato: completa
Tipo di coppia: Het | Personaggi: Hanji Zoe, Mikasa Ackerman, Nuovo personaggio, Rivaille, Un po' tutti
Note: Lime, Missing Moments | Avvertimenti: Contenuti forti, Incompiuta
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La porta si è aperta senza fare rumore.
L’infermeria non è mai realmente al buio, di notte: al velo azzurrino di luna e stelle si aggiungono i lumi delle infermiere di guardia; tenuti al minimo per non disturbare il sonno dei malati vagano come grandi lucciole, galleggiando a mezz’aria lungo la ronda della guardia di notte, o riposano ai piedi delle seggiole su cui le infermiere sonnecchiano, non viste dai superiori. A volte il loro russare leggero si unisce al respiro pesante dei convalescenti e ai misteriosi rumori che fuoriescono dai piccoli padiglioni di tende, in fondo alla corsia, che nascondono i feriti gravi.
Ti sei abituata a quest’atmosfera da acquario di profondità: hai passato le giornate sonnecchiando durante le ore diurne, spossata dal caldo, dalla febbre e dall’etere che ti hanno dato per il dolore. Ti risvegli durante la notte, rinfrancata dalla frescura. Senza visite o svaghi, segui l’andirivieni delle lampade ad olio delle infermiere, come una falena. Stanotte, il rettangolo nero che si apriva sulla porta che girava sui cardini ha attratto i tuoi occhi più della luce.

I ricordi dei primi giorni dopo che il convoglio dei feriti ti ha riportata in caserma sono vaghi e fumosi. Non ricordi di esserti addormentata, ma i due soldati della Milizia Cittadina che ti sono venuti a prendere ti hanno svegliata al loro arrivo. Ricordi di aver insistito per scendere con le tue gambe dalla pila di detriti, alta tre metri, che ti aveva quasi seppellita e su cui ancora giacevi. Prevedibilmente, debole e scalza com’eri hai messo un piede in fallo e sei rotolata giù per metà percorso. Ti hanno portata in fondo sorreggendoti, un braccio sulle spalle di ciascuno, e scortata al carro che ospitava diversi altri militari feriti, perlopiù a causa del crollo di edifici, come te.
Durante la strada respirare è diventato più difficile; hai creduto che fosse un effetto dello spavento provato, poi di aver respirato troppa polvere di calce e mattoni; al momento dell’arrivo in infermeria non pensavi più a niente, ti ingegnavi soltanto a tirare dentro aria con più energia possibile, la lingua di fuori come un cane. Non sei stata in grado di alzarti da sola per scendere dal carro, ti hanno portata giù a braccia e messa su una lettiga. In infermeria, un medico ha fatto un cenno brusco all’infermiera che lo assisteva, e quella ha tirato in fretta le tende tutt’intorno al letto. Non ti hanno rivolto la parola, non ti hanno chiesto cosa fosse successo: con un paio di forbici hanno aperto i tuoi vestiti dal collo alla cintura, tagliando in un colpo solo la maglia e gli indumenti intimi. Hanno auscultato e picchiettato il tuo torace, poi ti hanno tirato a sedere e hanno fatto lo stesso con la schiena. Poi, hanno chiamato altri due infermieri, uomini.
La maschera con l’etere è stata pronta qualche momento troppo tardi: hai fatto in tempo a vedere il dottore mentre disinfettava le tue costole, sul fianco destro, mentre un’infermiera accanto a lui reggeva un bisturi. La maschera di metallo, panneggiata di un tessuto lanuginoso come fiocchi di neve e impregnata d’etere dall’odore pungente, è calata sul tuo viso mentre il bisturi passava di mano e i due aiutanti convocati al tuo capezzale si abbassavano con tutto il peso sulle tue braccia. Non ricordi altro.
Sai di aver avuto la febbre perché te l’ha detto un’infermiera. Sai di aver avuto un tubo di caucciù che ti sporgeva dal torace per giorni e che hai cercato di strappartelo più volte nel delirio. Ti hanno detto che ti hanno dovuto legare al letto per qualche ora perché, tra i fumi dell’etere e la febbre alta, cercavi di graffiarti la faccia. Per tre giorni ti hanno fatto mandare giù acqua e zucchero a cucchiaiate e ti hanno avvolta in lenzuola bagnate per farti scendere la temperatura. Quando la febbre è scesa, hai dormito per due giorni senza quasi svegliarti. In realtà di notte eri sveglia, ma non hai mai chiamato nessuno: hai passato la prima notte a raccapezzarti su dove ti trovassi e come ci fossi finita, e la seconda a tastare sotto il lenzuolo per capire che ferite avessi. Hai sentito i punti sul tuo fianco, un grumo in rilievo sotto le tue dita sulcostato che duole neanche ti avessero preso a bastonate. Se muovi le gambe sotto le lenzuola senti prudere o bruciare in cinque o sei punti diversi; ogni mano, poi, ha scoperto sul braccio opposto una quantità di lividi e abrasioni. Se aggrotti la fronte, senti nuovi punti tirare sul tuo scalpo.
Oggi sei stata sveglia per quasi tutto il giorno: hai mangiato il cibo da malati di cui tutti, dai letti accanto al tuo, si lamentano, ma che tu hai trovato gustosissimo e hai finalmente saputo dal medico cosa ti è successo da quando ti hanno ricoverato: forse in seguito a un colpo violento, il tuo torace si era riempito di liquido, e ti hanno aperto un buco tra le costole per drenarlo. Poi, ti è venuta la febbre per le ferite. Ora sei fuori pericolo, ma devi aspettarti una certa debolezza nei giorni a venire, perché non hai mangiato praticamente niente per quasi una settimana. Da domani avrai dei visitatori, oggi devi solo riposarti e nutrirti. Sei rimasta sveglia fino a dopo pranzo, poi la digestione e la canicola ti hanno ricacciato nella sonnolenza.

Le infermiere devono essersi addormentate tutte e due, perché nessuno ha badato a questa porta apertasi nel cuore della notte.  Sei troppo lontana per distinguere bene le forme nella semioscurità, ma sei affascinata da questa sagoma nera che si è come ritagliata da sé nel muro; è in un certo qual modo familiare come un sogno e altrettanto surreale, soprattutto perché non ne emerge nessuno: il rettangolo buio resta immoto e invariato; potresti dimenticare che prima c’era una porta al suo posto.
Che ne è stato, di Annie? Non hai saputo nulla dell’esito della missione: se anche qualcuno è venuto a trovarti, tu non te ne ricordi. L’avranno presa? Si sa che cosa l’ha spinta a fare quel che ha fatto? I tuoi compagni saranno tutti vivi? Nella penombra della notte non hai riconosciuto nessuna delle sagome allettate che ti circondano. E Levi? Era ferito, prima della missione per catturare Annie, eppure è comparso a salvarti, in uniforme. Non avrebbe dovuto prendere parte alle operazioni…
-Valeshka.-
Hai pensato a lui, nel delirio della febbre. Hai chiamato i tuoi genitori, questo te lo ricordi. Ricordi anche di aver litigato col tuo maestro di danza perché pretendeva da te un entrechat douze.  Hai accusato Annie di averti tagliato i capelli mentre dormivi. E speri, speri con tutte le tue forze di non aver parlato con Levi a voce alta, ma sai di aver sognato di intrecciare le tue dita bollenti di febbre alle sue, fresche e asciutte. Hai sentito quelle mani sulla fronte, sulla nuca, succhiare via il fuoco che ti bruciava viva. Gli hai chiesto scusa dello stato in cui ti trovavi, della puzza che emanavi, del sudore in cui marinavi. Potresti giurare di aver sentito la sua voce rimproverarti di non dire scemenze. Hai imparato ad amare quella voce. Hai imparato il suo odore. Sa di bucato.
-Valeshka.-
Ma è basso, santo Cielo. Come hai finito per innamorarti di un uomo così basso? Ed è volgare, brusco e sembra che gli manchino i muscoli per sorridere. I suoi occhi fanno paura, ha il viso di un bambino e gli occhi di uno che è già morto da un pezzo… Ha un modo strano di tenere la tazza da tè, la tiene dal bordo, con la mano a coppa. Ha le sopracciglia troppo sottili. Quando si siede, accavalla le gambe come una donna. E quanti anni ha? Sarà vero che si doveva sposare con Petra? Lei era così adorabile, e tu… tu sei solo un soldato mediocre, che è riuscito a finire in infermeria dopo ogni singola missione. Un soldato scarso e una ballerina senza più futuro, e in quanto alla donna che c’è dietro… a volte ti sembra di essere a malapena una persona: anni ed anni passati a pensare con le punte dei piedi, a misurare tutto in battute, passi e posizioni. Non solo sei ancora vergine, ma non ti sei mai innamorata; non hai mai cucinato un pasto; non sei mai entrata in una banca. Non hai avuto altri interessi che la danza, e dopo l’incidente non ne hai avuti affatto: entrando nell’esercito li hai rimpiazzati con gli ordini da seguire. Come può, Levi o chiunque altro, innamorarsi di te?
Ti risvegli con uno scossone; non ti eri accorta di esserti assopita. Il cuscino è umido di sudore, senti le lenzuola come una pellicola sulle gambe, sul petto. Senti i passi dell’infermiera tra le file dei letti; hai la bocca secca, quando arriverà al tuo letto le chiederai un bicchier d’acqua. Ti porti una mano alla fronte; è calda e sudata, ma non capisci se hai la febbre o meno. I passi che si avvicinano al letto ti cullano e sei di nuovo in dormiveglia quando una mano ti scosta i capelli fradici e si posa a sua volta sulla tua fronte.

-No, non hai la febbre: è solo un caldo fottuto -
Spalanchi gli occhi. Levi è chino sul tuo letto con un’espressione non dissimile da quella del medico che ogni mattina ti scruta in gola dopo averti abbassato la lingua con un cucchiaio. Indossa la solita maglia di cotone chiaro e i pantaloni della divisa che tutti portate quando non siete in servizio. Non ha il fazzoletto al collo, e vedi il pomo d’Adamo muoversi mentre inghiotte. Sembra perfettamente solido e reale. Ti arriva anche un lieve sbuffo del suo odore, leggermente salso di sudore. Ti accorgi che lo stavi guardando a bocca aperta e cerchi qualcosa da dire, ma lui ti ferma con un gesto sbrigativo, si china e ti solleva, lenzuolo e tutto.
Nessuno lo ferma mentre ripercorre la strada fuori dall’infermeria buia, attraverso i corridoi deserti dal soffitto a volte. Ti trasporta come se non avessi peso, un braccio sotto le tue ginocchia, l’altro intorno alle tue spalle. Non ti guarda e non parla, e tu rimani sigillata in un silenzio attonito, timorosa che parlare possa fermarlo, spezzare lo strano incantesimo d’invisibilità che sembra circondarvi nella notte afosa.
Passo dopo passo, i corridoi intonacati di bianco sfilano via. Gli stivali di Levi risuonano sui pavimenti di pietra, ti sembrano tanto forti da svegliare tutti dai loro letti, eppure non incontrate un’anima. Non hai idea di che ore siano. Appoggi la testa alla sua spalla e aspetti.

Il principe azzurro, pensi. Il principe azzurro è alto e biondo, e indossa un’armatura scintillante. Strappa la fanciulla al suo crudele destino e la porta in braccio fino al suo bianco destriero, e la fanciulla è serena e sollevata perché sa di essere salva; posa il capo sul suo petto e attende il lieto fine. Tu, invece, sei avvolta in lenzuola sudate, tra le braccia di un uomo basso e bruno che ti ha portato via dal luogo in cui ti stavano curando e non hai la minima idea di cosa stia per succedere.
Non ci sono destrieri in programma: quando capisci dove ti sta portando, un sorriso incredulo ti sboccia sulle labbra.

La cambusa è uguale all’ultima volta in cui l’hai vista; è stata tirata a lucido a fine giornata e le stoviglie luccicano quietamente dai loro scaffali alla luce delle lampade. Il mastello di legno è già pieno d’acqua; sul grande tavolo di legno ci sono dei panni piegati, una saponetta, una spugna e un pettine. Accanto al mastello c’è uno sgabello. Levi ti fa scendere con i piedi nell’acqua, si porta alle tue spalle e ti svolge il lenzuolo di dosso, gettandolo da parte. Indossi il camicione dell’ospedale, nient’altro che una federa di tela con buchi per le braccia e la testa. Lui ti fa alzare le braccia e te lo sfila senza dire una parola. L’emozione ti gonfia la gola e non sei capace di muoverti, resti con le braccia sollevate, lo sguardo fisso davanti a te.
Le sue dita ti sfiorano i lividi sul petto, passano come un filo d’aria sul filo da sutura dei punti e gli sfugge un sospiro preoccupato. Ti abbassa piano le braccia e chiude per un attimo le mani sulle tue spalle; senti il suo respiro tra le scapole, poi ti lascia e lo senti sedersi. Non riesci a guardarlo, la familiare vampata di imbarazzo ti sale alla gola. Ti abbassi nell’acqua cercando di fare meno rumore possibile.
Levi si allunga oltre la vasca da bagno improvvisata per prendere spugna e sapone, li immerge entrambe nell’acqua e comincia a lavarti. Nessuno di voi due parla; l’unico rumore è quello dell’acqua che gocciola, delle piccolissime bolle di sapone che scoppiano sulla tua pelle. La spugna passa, delicata ma decisa, fregando più volte questo o quel punto, sfiorando appena le ferite e insistendo altrove.  Non trascura alcun punto della tua persona: il retro delle orecchie, le ascelle, le dita dei piedi. In silenzio, fate conoscenza nella cucina della caserma addormentata. Levi si rimbocca le maniche per immergere le braccia nell’acqua e ripescare le tue mani: ti insapona le unghie più volte, sciacquando spesso e avvicinandole a sè per controllare bene. Lo guardi, e sul suo viso c’è l’espressione che potrebbe avere lucidando un’arma: è serio, assorto. Ha delle piccole rughe all’angolo degli occhi, un’altra più marcata tra le sopracciglia. Sul suo naso c’è un’ombra che potrebbe diventare una macchia di lentiggini, esposta al sole. Le sue labbra sono sottili e molto rosa, strette in una linea severa. Alza gli occhi a guardarti e il cuore ti fa un salto senza che tu possa farci assolutamente niente. Ti guarda intensamente, senza sorridere, senza affettazione: i suoi occhi grigi si aggirano sui tuoi lineamenti, sulla tua fronte troppo alta, sui piccoli tagli disseminati sui tuoi zigomi, sulle tue ciglia. Quando arriva agli occhi e vi fissate vedi le sue sopracciglia distendersi, le labbra socchiudersi; il suo viso si ammorbidisce come non credevi possibile e ti sembra giovane, una persona appena arrivata al mondo. Allunga le braccia e ti circonda, ti sovrasta mentre ti reclina nell’acqua; con gli occhi socchiusi e il profumo del sapone nel naso lo senti accarezzarti una guancia prima di affondare le dita fra i tuoi capelli e massaggiarti la cute con la saponetta. Ti lava i capelli a lungo, mettendo le mani a coppa per risciacquarti la fronte, riparandoti gli occhi con una mano. Quando si abbassa per tirarti fuori infila le braccia nell’acqua fino alle spalle, inzuppandosi le maniche e ti guarda, ti guarda per tutto il tempo mentre appoggia tutto il tuo peso sul suo petto e ti tira in piedi, stretta tra le sue braccia, tenendo una mano nei tuoi capelli bagnati. Ti solleva fuori dal mastello e ti cala a terra facendoti poggiare i piedi sui suoi stivali perché non tocchino il pavimento freddo. Ti bacia come alla fine di un lungo inverno.
   
 
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