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Autore: Mary P_Stark    03/07/2015    3 recensioni
Krilash mac Lir è secondo in linea di successione al trono di Mag Mell, oltre a essere grande stratega militare dell'esercito fomoriano. Suo è il rarissimo dono della trasmutazione degli elementi, che lo rendono soldato temibile in battaglia e ottimo guerriero. Questo dono, però, porta con sé anche immense responsabilità... e incubi. Incubi che Krilash tenta di cancellare con una condotta di vita il più spensierata possibile. Nel suo infinito tentativo di concedersi qualche attimo di tregua dai suoi ricordi orribili, incontra l'umana Rachel O'Rourke e sua figlia Faelan, che risvegliano in lui improvvise quanto impreviste sensazioni. Sentimenti che pensava di non poter provare lo portano a compiere azioni per lui inusitate... e lo avvicinano a un segreto che riguarda direttamente le donne O'Rourke. Un segreto che, forse, potrebbe cambiare per sempre la loro vita e quella di Krilash. 3° RACCONTO DELLA SERIE "SAGA DEI FOMORIANI"-Riferimenti alla storia nei capitoli precedenti.
Genere: Romantico, Sentimentale, Sovrannaturale | Stato: completa
Tipo di coppia: Nessuna
Note: nessuna | Avvertimenti: nessuno | Contesto: Contesto generale/vago, Sovrannaturale
Capitoli:
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- Questa storia fa parte della serie 'Saga dei Fomoriani'
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2.
 
 
 
 
 
Sangue.

Un’immensa marea dilagante, che lambiva i miei calzari, insozzandoli.

Il mio ansito infiacchito dalla battaglia, le mani levate ad artiglio, … il gelido abbraccio della morte, le cui sembianze erano in tutto simili al ghiaccio più puro.

Non fosse stato per i corpi in esso trattenuti … e mutilati dalla pressione stessa di quella massa informe e trasparente.

Mi destai con un rauco singulto, il corpo madido, il respiro in fiamme, gli occhi sgranati e dolenti.

Ero solo, nel buio della mia stanza.

Non mi trovavo sul campo di battaglia, non più. Erano passati secoli, eppure…

Deglutii a stento, sentendo l’amaro sapore del fiele nella gola.

Scostate le coltri di seta, mi levai in fretta, raggiungendo il bagno nella mia stanza.

Lì, aprii l’acqua per una doccia veloce – non avrei incontrato mia cognata Ciara meno che in forma – e lasciai che lo scroscio gelido sul viso mi destasse.

Sempre quel sogno, quel maledetto sogno ricorrente.

Non avevo mai avuto il coraggio di parlarne con i miei fratelli, o mia sorella. Solo Konag sapeva, solo lui era stato presente a quel massacro.

All’epoca, fresco di nuova nomina e valente condottiero in battaglia, Konag mi aveva accompagnato per tenere testa a un battaglione Tuatha.

Lo scontro si era rivelato impari, le nostre forze insufficienti… e lo sfoggio del mio potere era stato l’unico sistema per tornare a casa vivi.

Ma a quale prezzo? Quanto avevo lasciato, di me, su quel campo di battaglia?

Sospirai tremulo, la pelle irrigidita dal passaggio dell’acqua fredda,… come l’aveva chiamata Sheridan?

Pelle d’oca.

Sì, avevo la pelle d’oca e sembravo pronto per essere cotto in padella, arrossato com’ero dal freddo, ma andava bene così.

Lasciai che i muscoli divenissero roccia per difendersi dalla temperatura inclemente e, alla fine, chiusi il getto d’acqua.

Ne uscii stillante e, con mano lievemente tremante, afferrai un asciugamani.

Mi preparai in fretta, indossando una corta tunica, calzari e una corta daga alla cintura, dopodiché uscii per raggiungere lo studio di Ciara.

Era lì che, ormai, lavorava quasi ogni giorno. Essere diventata una principessa reale, aveva solo mutato i suoi impegni, non li aveva annullati.

A passo lesto, oltrepassai le arcate dell’ala principale di palazzo, dove si trovavano la Sala del Trono e altri saloni deputati alle occasioni mondane.

Da lì, svoltai verso gli appartamenti reali e, dopo aver bussato alla prima porta nel corridoio, sorrisi alla mia adorata cognata.
Ciara se ne stava ritta in piedi di fronte a una finestra, una pergamena in una mano e una penna d’oca nell’altra. Il suo sguardo era pensoso.

Mi sorrise, vedendomi, e appoggiò il tutto sulla sua enorme scrivania, ingombra di documenti.

«Ti ho disturbata? Vedo che hai molto a cui badare» esordii.

«Mi salvi da una disputa assurda quanto dispendiosa» sospirò, scrollando una mano con fare insofferente. Al suo polso, brillava il bracciale che Stheta le aveva regalato per il loro matrimonio.

Il monile, in oro, era composto da una larga fascia decorata a fantasie boschive, su cui erano state applicate due splendide orchidee in filigrana d’argento.

L’orafo umano che lo aveva confezionato era stato davvero un genio.

Sapevo per certo che era l’unico gioiello che Ciara portasse volentieri, soprattutto dopo l’allontanamento silenzioso da parte della sua famiglia.

Non erano stati affatto lieti della sua presa di posizione che, di fatto, gli aveva inimicato gran parte della Corte.

Il fatto che fosse, a tutti gli effetti, la futura regina, al momento contava molto poco, per loro.

Sogghignai, preferendo lasciar perdere quei pensieri odiosi, e asserii: «Immagino che Muath te l’abbia data di proposito, per vedere come te la saresti cavata. Non è nuova a trabocchetti simili.»

«Ne avevo il sospetto» assentì lei, avvicinandosi a me con incedere elegante.

La tunica blu scuro che indossava delineava il suo corpo magnificente, ma non nascondeva la forza insita in lei.

Nessuno avrebbe potuto pensare di prevaricarla, neppure se portava anelli, orecchini e bracciali come qualsiasi dama di corte.

Era un prezzo che aveva dovuto pagare, e sapevo che non le piaceva molto portarli, ma tant’era.

Il corto pugnale che portava legato a una sottile cintura dorata, però, rispecchiava la sua vera natura.

E Stheta aveva insistito perché lo indossasse sempre.

«Che favore volevi chiedermi, Krilash?» mi domandò a quel punto, fermandosi a un passo da me.

«E’ per Sheridan. E’ preoccupata per la gravidanza, e voleva sapere qualcosa in più sul… sul parto e quant’altro» le spiegai, facendo spallucce.

Ciara sospirò contrita, lanciando un’occhiata malevola alla scrivania.

«Con tutti gli impegni che ho, non ho potuto praticamente recarmi da lei, negli ultimi mesi. Capisco quanto sia in ansia, e parlerò io con le ostetriche di palazzo, non temere» asserì, sorridendomi compiaciuta.

«Te ne sono grato» mormorai, reclinando ossequioso il capo.

«E’ mia sorella. Sarà un onore aiutarla» replicò con candore.

 
***

Chiedere a Ciara era stata sicuramente la scelta giusta, vista la decisione presa da mio fratello, e dalla sua adorabile consorte, di avere un figlio.

Chi meglio di una aspirante madre, poteva chiedere lumi alle ostetriche di palazzo?

Attendere paziente fuori dall’ala di palazzo ove si era recata mia cognata, però, non fu affatto facile.

Quando finalmente la vidi comparire, sospirai di sollievo.

Portava un’armatura leggera, quando si aggirava da sola fuori dal palazzo. Anche se ormai non era più formalmente il capitano delle guardie, e aveva ricevuto il titolo di Principessa Reale, le vecchie abitudini rimanevano.

Non l’avevo ancora vista passeggiare per i giardini di palazzo con le sue accolite al fianco, o con uno stuolo di servitori pronto a riverirla.

Le sete preziose e gli orpelli dorati – provenienti da ogni luogo della Terra – , che le erano spettati con il titolo di Altezza Reale, li indossava solo quando costretta.

Ciara non era così frivola e superficiale e, forse, aveva ben d’onde a portare la spada quanto l’armatura.

Gli sguardi di invidia che molte donne le avevano tributato, dall’annuncio a sorpresa del loro fidanzamento al matrimonio in pompa magna, non aiutavano a star tranquilli.

Per ogni evenienza, Stheta aveva affidato alla sua neosposa una scorta personale, di cui entrambi si fidavano ciecamente.

Ma Ciara non era mai stata tipo da affidarsi ad altri, per la difesa personale.

Da qui, le antiche vestigia di soldato.

Mi scostai dal colonnato per farmi vedere per tempo e non metterla in allarme e, quando mi scorse, sorrise e affrettò il passo.

Una concessione al suo nuovo ruolo, erano i capelli.

Non più stretti in una complessa trina di trecce, le sue lunghe chiome d’oro rosso volteggiavano libere da freni.

L’unico fermaglio che portava era una manta in oro, poco sopra l’orecchio destro, simbolo della sua casata.

Da quel che ne sapevo, gliene aveva fatto dono lo stesso Stheta, dimostrando una delicatezza che non gli avrei mai tributato.

Quando mi raggiunse, levai istintivamente il capo – Ciara era alta quasi quanto me e Stheta – e le sorrisi, salutandola.

Non le offrii il braccio, né lei lo cercò.

Non erano previste simili cortesie, a palazzo.

Mi ero recato più di una volta al cinema, sulla terraferma, ed ero scoppiato comicamente a ridere, di fronte a certe pellicole.

Possibile che le donne volessero un certo tipo di trattamento, così stucchevole quanto prevedibile?

Non ne ero del tutto sicuro e, certamente, chiedere a Sheridan non sarebbe servito a nulla. Lei li frullava a colazione, gli uomini-zerbino.

Eithe era tutt’altro affare, bella come il sole e dolce come un pandispagna.

Ma sapeva mozzarti una mano con un morso, se le dicevi qualcosa di traverso, e il suo uomo avrebbe finito l’opera, divorandoti.

No, neppure lei era un esempio calzante.

Megan? Quella avrebbe usato le costole della sua vittima come stuzzicadenti.

Scossi il capo, ridendo tra me di fronte agli esempi ben poco calzanti che conoscevo, in ambito umano, o quasi, del genere femminile.

Le donne fomoriane erano abituate fin dalle senturion a prendersi cura di loro stesse e anche se, nel segreto del talamo, le cose cambiavano, fuori erano dure e massicce.

Delle autentiche guerriere, fin nel midollo.

Perciò, il dubbio sarebbe rimasto ancora per molto.

Quando finalmente raggiungemmo il cortile esterno, ci accomodammo su una delle tante panchine che fiancheggiavano il colonnato del palazzo.

Ciara sistemò distrattamente il suo mantello traslucido, prima di dedicare la sua attenzione a me.

Era regale nella postura, e assolutamente rispettosa nel portamento.

Una regina fatta e finita, checché ne dicessero i suoi detrattori.

E io la adoravo.

«Ebbene? Sei riuscita nell’intento di scoprire qualcosa di utile?» le domandai, ansioso.

Lei annuì, tutta sorridente e fiera, ma mi disse: «Ne parlerò direttamente con Sheridan, se non ti spiace. Alcune cose sono piuttosto tecniche… e intime.»

«Oh… sì, okay» assentii in fretta, piuttosto imbarazzato. «Non è importante chi le fornisca notizie utili, basta che ci sia qualcuno che possa tranquillizzarla.»

Ciara mi sorrise, dandomi un buffetto sulla guancia come avrebbe fatto con un ragazzino – a dirla tutta, lei era più grande di me – e mormorò: «E’ fortunata ad avere un cognato come te.»

«La situazione è pressoché unica, ed è giusto aiutarla. Non ci siamo stati, quando fu Mairie a rimanere incinta e forse, ma ribadisco forse, avremmo potuto fare qualcosa per lei. Per Sheridan, spaccherò il mondo in quattro, pur di rendermi utile. Lo devo a lei e a Rohnyn. E’ il minimo.»

Il mio tono fu così lapidario che Ciara accentuò il suo sorriso, portandola a compiere un gesto che, solitamente, si vedeva ben poco, tra le lande di Mag Mell.

Mi diede un bacio sulla guancia.

Stare in mezzo agli umani aveva abituato noi tutti a una nuova gestualità, e conoscere i licantropi aveva allargato ancor più i confini della nostra conoscenza.

Ma questo non voleva dire che fossi pronto a un simile gesto.

Arrossii mio malgrado e, quando la voce ironica di Stheta si interpose nel nostro interludio, letteralmente avvampai.

Ciara rise, accogliendo il marito accanto a noi e mio fratello, nell’accomodarsi sulla panchina, mi fissò tutto divertito e chiosò: «Ti trastulli con la mia compagna, Krilash?»

«Sai che non è così, e il solo pensarlo è un insulto per entrambi» borbottai, pur sapendo che non lo pensava davvero.

Sapevo che Stheta non era geloso della nostra amicizia, ed era ormai vaccinato di fronte a simili esternazioni.

Il popolo ancora faticava ad accettare – e comprendere – comportamenti del genere, specialmente compiuti dalle loro Altezze Reali.

Ma avrebbero capito. E accettato il cambiamento.

A volte, per certe cose, bisognava pazientare un po’ più del necessario.

 
***

Come potevo non amare mia cognata che, durante la gravidanza, aveva un bisogno fisico di gelato?

Adorarla come una dea era il minimo, anche perché mi dava l’opportunità di rimpinzarmi a mia volta.

E di rivedere la bella gelataia dalle onde castano rossicce.

Peccato che la gelateria fosse… chiusa.

Accigliato, fissai il reticolato metallico che ne sbarrava l’ingresso, le luci spente e l’ambiente totalmente vuoto all’interno.

Avrei voluto piangere, in quel momento.

«E ora come faccio?» brontolai a mezza voce, poggiando le mani sui fianchi con espressione accigliata.

Certo, esistevano decine di gelaterie, in giro per Dublino.

Ma, come aveva predetto Connor, dopo aver assaggiato questo gelato, il resto era scemato nella mia mente.

E per Sheridan, volevo solo il meglio.

Oltre che per me stesso, ovviamente.

«Deve essere proprio disperato, se fissa così accigliato la mia gelateria» mormorò una voce a me famigliare, e proprio alle mie spalle.

Mi volsi a mezzo, fissando costernato la mia bella gelataia, in piedi a pochi metri da me.

Un sorriso spontaneo mi salì al volto e, immediatamente, mi feci da parte, bloccandomi appena in tempo prima di esibirmi in un inchino.

Questi sì che abbondavano, a Mag Mell.

Eravamo degli autentici campioni, nell’inchinarci. Esistevano praticamente cento inchini diversi, a seconda della situazione in cui ci trovavamo.

Di sicuro, a chi era venuto in mente di creare tante e tali differenze, non aveva mai sofferto di lombalgia.

Lei accennò un sorriso e, subito, i miei pensieri si azzerarono.

Quel sorriso avrebbe potuto stendere un’intera coorte fomoriana, ne ero più che certo.

La guardai estrarre una chiave da una bizzarra busta imbottita del colore dell’arcobaleno e, con sollievo, la vidi aprire la serranda, che fece scomparire all’interno del muro.

L’intercapedine venne poi richiusa, e la porta aperta con una seconda chiave.

«Se ha il tempo materiale di aspettare cinque minuti, la servo subito.»

«Aspetterei anche tutto il giorno» ammisi con candore, facendola ridere sommessamente.

Quel giorno, portava le onde ramate legate in una coda di cavallo e, addosso, aveva una camicia a fiori, jeans al ginocchio, infradito colorate e una lunga sacca di pelle frangiata.

Sheridan l’avrebbe chiamata ‘figlia dei fiori’, anche se non sapevo bene cosa volesse dire.

Ne conoscevo però l’aspetto per averlo visto in un film, e ammisi con me stesso che l’esempio calzava bene.

I pesanti orecchini che portava recavano il simbolo della pace, così come il ricamo sul taschino posteriore dei jeans, che ammirai con particolare interesse.

Aveva un…

Mi bloccai prima di pensare al resto della frase, dandomi del cafone.

Quando la vidi scomparire oltre il bancone e, da lì, dietro una porta a vetri satinati, sospirai di sollievo e cercai di darmi un contegno.

Non potevo sempre, ed esclusivamente, pensare alle donne in quel senso.

E poi, non volevo giocarmi l’occasione di mangiare centinaia, migliaia di gelati solo perché non mi ero comportato bene con la proprietaria del locale.

Mi imposi perciò un certo contegno e, mani nelle tasche posteriori dei jeans, attesi paziente che lei tornasse da me.

Immediatamente, come la volta precedente, i miei occhi vennero attirati dai quadri alle pareti.

Un piccolo dipinto a olio, sistemato proprio sopra uno dei tavolini interni del locale, rappresentava quello che, ai miei occhi, non poteva che essere una corrente marina di profondità.

Lo sfiorai con gli occhi, deglutendo a fatica nell’ammirare la maestria con cui il dipinto era stato confezionato.

Le sfumature di colore, i chiari scuri dei fondali marini, la potenza repressa della corrente… il suo potere incontrollabile.

Deglutii a fatica, levando una mano per sfiorarlo, i pensieri trasportati in un altro luogo, in un altro tempo.

Rabbrividii e, solo a stento, riuscii a tornare in me.

Il ritorno della bella gelataia mi salvò da un imbarazzante crollo nervoso.

Con una divisa bianca e rossa, un cappellino a bustina con il nome della gelateria serigrafato sopra e un tesserino appuntato alla camiciola, la mia gelataia si ripresentò per servirmi.

Rachel O’Rourke.

Sorrisi all’idea di aver finalmente scoperto il suo nome e, nell’approssimarmi alla vetrina, studiai attentamente i gusti, prima di scegliere.

Sapevo che Sheridan prediligeva le creme, ai sorbetti, ma che detestava il pistacchio.

Il perché, era un mistero.

«Sembra davvero concentrato.»

Rivolsi un sorriso alla mia gelataia, Rachel, e ammisi: «Devo soddisfare una mamma in attesa, sa com’è.»

Lei sgranò leggermente gli occhi, puntò un secondo lo sguardo verso la mia mano sinistra prima di dire, cordialmente: «Un marito premuroso, allora.»

Feci tanto d’occhi, indietreggiando di un passo di fronte a un’ipotesi simile e, levate le mani come a difendermi da quell’accusa, esalai: «Aaah, no! Non è mia moglie! E’ solo mia cognata e, come voglia primaria, ha il gelato, per mio sommo diletto.»

Quella spiegazione, o forse la mia reazione esagerata, la fecero scoppiare a ridere, e io non potei che unirmi a lei.

Che suono sexy e melodioso! Avrebbe potuto essere la reincarnazione di una sirena, per quel che ne sapevo!

«Allora, un cognato premuroso» replicò, inclinando il capo su un lato, mettendo poi in mostra una singola fossetta, nel bel mezzo della guancia rosea.

Un ricciolo rossiccio le carezzò la guancia, e a me venne voglia di scostarglielo.

Peccato che, uno, avrei dovuto balzare oltre il bancone, due, mi avrebbe preso per matto, tre, avrei perso la possibilità di mangiare il suo gelato.

No, troppi lati negativi, per l’unico piacere di scostare quel ricciolo ribelle.

La vaschetta fu pronta in quattro e quattr’otto e, nel consegnarmela con il suo onnipresente sorriso, mi disse: «Siamo aperti dal lunedì al venerdì dalle tre del pomeriggio fino alle nove di sera. La domenica, apriamo anche al mattino, dalle dieci, e il sabato siamo chiusi. Così non dovrà soffrire inutilmente dinanzi alla porta chiusa.»

Risi di quel commento, e annuii grato. Non avevo fatto esattamente una bella figura, ma lei mi parve divertita, perciò mi andò bene lo stesso.

«Buono a sapersi. Mia cognata Sheridan è ormai al quinto mese, e le sue voglie stanno diventando più… frequenti

Rachel rise sommessamente e, annuendo, replicò: «La capisco. Quando ho avuto la mia Faélán1, volevo patatine fritte e cioccolata a qualsiasi ora del giorno e della notte.»

La notizia di un figlio mi raffreddò un poco.

Se c’era una cosa che non facevo, era flirtare con le donne sposate.

Eppure, non aveva nessuna fede al dito, e…

L’arrivo a spron battuto di una ragazzina alta e flessuosa mi bloccò, portandomi a sorriderle spontaneamente.

Le lunghe chiome rosse erano arricciate e nervose, rilasciate sulle esili spalle in un groviglio senza forma e il viso, ricoperto di efelidi, splendeva di un sorriso perfetto.

Gli occhi, di un chiaro color acqua marina, scintillarono gai non appena ella mise piede in gelateria.

Il suo zaino finì a terra, a fianco della porta e, in uno svolazzare di gonne e profumo di ibisco, si allungò per dare un bacio a Rachel… chiamandola mamma.

Era dunque Faélán? O la misteriosa gelataia aveva altri figli?

A quel punto, la ragazzina – che doveva avere quattordici, quindici anni – si volse verso di me, allargò il suo sorriso perfetto e disse: «Benvenuto nella nostra gelateria!»

«Mille grazie… Faélán?»

La ragazza allora scoppiò in una gaia risata e, annuendo, lanciò una strizzata d’occhio alla madre.

«Centrata in pieno. Spero che mia madre non l’abbia annoiata con la mia triste storia.»

A quel punto, gli input in mio possesso si confusero tra loro e, nel lanciare un’occhiata al gelato per Sheridan, quasi volli non averlo ordinato.

Anche la ragazzina fissò la vaschetta e, birichina, disse: «Si scioglierà, prima che io abbia terminato di spiegarle tutto.»

«Fay, perché non lasci in pace il nostro cliente e non vai di sopra a cambiarti? Dove sei stata? Ancora nel parco? Sembra tu ti sia ruzzolata nell’erba» la rimproverò bonariamente la madre, scusandosi poi con me con un cenno del capo e un sorriso esasperato.

Io sorrisi a entrambe e, nel pagare il gelato, replicai: «Non c’è bisogno di scuse, e trovo che la schiettezza di sua figlia sia corroborante. E no, non ti preoccupare, Faélán… tua madre non mi ha detto nulla.»

Ciò detto, mi incamminai verso l’uscita.

Una volta aperta la porta, però, mi volsi a mezzo e, con un sorrisino, aggiunsi: «Ma, la prossima volta che verrò, chiederò lumi e farò i complimenti all’autore di quel quadro di ambientazione marina. E’ superbo.»

Faélán scoppiò a ridere, coprendosi di un allegro rossore.

Levando un sopracciglio, mormorai: «Sei stata tu?»

«Affondata del tutto. Davvero le piace?» mi domandò, gli occhi brillanti di interesse e piacere.

Annuii, replicando: «Essendo una frana con colori e pennello, ammiro molto chi, invece, è in grado di ideare simili creazioni.»

Rachel, scrutandomi con aria vagamente curiosa, dichiarò: «E’ gentile, da parte sua.»

«Onesto, piuttosto» ribattei, con una scrollatina di spalle. «Spero di rivedere entrambe, allora, per conoscere il resto della storia.»

La ragazzina annuì, ridendo sommessamente mentre Rachel, più schiva, replicò: «Vedremo…»

«Io ci conto. Signora… signorina…»

Mi venne spontaneo, non potei trattenermi.

Mi esibii in uno svolazzante inchino e Faélán, sorprendendomi non poco, mi imitò con grazia, corredando la riverenza da un sorriso smagliante.

Quando fui nuovamente in strada, la sensazione di straniamento che avevo provato nel vedere Faélán, continuò a perseguitarmi.

Un tarlo nella testa avrebbe avuto conseguenze meno fastidiose.

 
***

Il cucchiaio in una mano e la vaschetta nell’altra, Sheridan iniziò a dare fondo al gelato a suon di cucchiaiate e, sorridente, ascoltò la mia storia.

Le parlai di Rachel, della sua strana figlia, dei quadri nel loro negozio e di come mi fossero sembrate delle creature singolari.

Al sentir nominare il nome della mia gelataia numero uno, Sheridan si irrigidì leggermente, come se stesse tentando di rammentare qualcosa.

Alla fine, si aprì in un sogghigno e annuì tra sé.

«Ora ricordo perché, quel nome, non mi era nuovo. Rachel O’Rourke, che ora dovrebbe avere trentadue anni, e la figlia Faélán. Il suo caso di divorzio sorse agli onori della cronaca per più di un motivo.»

«Divorzio?» esalai. Ecco, perché non portava la fede al dito!

Annuendo, Sheridan proseguì nel racconto.

«Da quel che i giornalisti dissero di lei, si sposò ancora sedicenne con un rampollo dell’aristocrazia inglese… non ricordo il nome, ma fu uno scandalo, all’epoca. In pratica, lui la mise incinta, la famiglia del ragazzo pretese che si prendesse le sue brave responsabilità, mentre i genitori della ragazza fecero il tutto e per tutto per dipingere il futuro genero come un approfittatore di fanciulle.»

«Che ambientino!» fischiai sconvolto, faticando a credere che cose simili potessero succedere.

Un fomoriano che avesse messo incinta una donna, non avrebbe dovuto attendere gli ordini della famiglia.

Avrebbe preso da solo un simile impegno.

Sheridan mise in bocca un altro po’ di gelato, sospirò deliziata e continuò la narrazione della vicenda.

«Da quel che si sa, lei chiese il divorzio dopo che, per l’ennesima volta, il marito la spedì all’ospedale con un osso rotto. All’epoca, la bambina aveva sei anni.»

Fremetti d’ira al solo pensiero. Era inconcepibile che un uomo picchiasse la propria donna.

E lo dissi apertamente, con veemenza.

Sheridan mi guardò con i suoi profondi occhi di cielo, in quel momento colmi di comprensione.

«Tra gli umani capita anche troppo spesso, per la verità. Forse, perché non insegnano alle donne a difendersi, chissà, o forse perché insegnano agli uomini a credersi superiori all’altro sesso. Nessuno lo sa per certo, ma è un problema vecchio come il mondo.»

«Come andò a finire?»

«Visto che il marito era ricco sfondato, l’avvocato della difesa tentò di addurre come scuse le accuse della moglie, ma Rachel portò tutti i referti medici, e la giuria non poté che convalidarne le ragioni. Ovviamente, si procedette a un patteggiamento per evitare il carcere al borioso ragazzotto di famiglia benestante e, dovendo mantenere se stessa e una figlia piccola, lei accettò.»

Annuii, non sentendomela di giudicare quella scelta.

«Da quel che si sa, il tipo ora è da qualche parte in Afghanistan, o giù di lì, spedito nell’esercito dalla famiglia, perché sfoghi in altro modo le sue… pulsioni. Rachel a quanto pare, invece, è rimasta a Dublino. E fa un gelato divino, direi» mi sorrise, aggiungendo: «Inoltre, sua figlia è adorabile. L’ho vista un paio di volte in negozio, ed è un’autentica bellezza.»

«In negozio?» ripetei sorpreso.

Sorridendo divertita, replicò: «Fatti raccontare da Rachel stessa, cosa successe. Può essere un buon modo per sciogliere il ghiaccio… se vuoi.»

Sorrisi di quest’ultimo commento, ma non riuscii a dimenticare le parole di Sheridan, neppure quando presi forma di delfino per tornamene a casa.

Nuotai veloce per raggiungere Mag Mell sul fare della sera e, quando ripresi sembianze umane, mi incamminai lesto verso il palazzo.

Le acque sopra di noi si erano ormai fatte scure e, a giudicare dall’umidore presente nell’aria, una tempesta stava formandosi nell’oceano, a poca distanza da noi.

In tutto simile al quadro che aveva creato Fay.

La barriera, comunque, ci avrebbe difesi anche dai più imponenti marosi.

Ugualmente, osservai pensieroso le onde suboceaniche scagliarsi con sempre maggiore potenza contro la cupola energetica che ci proteggeva.

«Sei pensieroso, fratello.»

La voce di Lithar mi colse di sorpresa e, sobbalzando, mi volsi a mezzo per scrutarla da sopra la spalla.

Bellissima come sempre, coi suoi grandi occhi viola che scrutavano il mondo con forza e determinazione, Lithar era dissimile da noi fratelli praticamente in tutto.

Scura di capelli come chiara di carnagione, aveva una curiosa stella a punte di freccia, invece della nostra rihall stellata dalle punte arcuate.

La si poteva vedere sul suo collo, sotto l’orecchio sinistro, le rare volte in cui lei la portava scoperta.

Muath, un giorno, ci aveva detto che poteva capitare, a volte.

Quel simbolo apparteneva a consanguinei dei mac Lir, e gli incroci da sempre avvenuti tra le famiglie, potevano far nascere rihall differenti.

Per un motivo che non avevo mai compreso, era solita tenerla perennemente oscurata dal sottotunica dell’armatura, o da eleganti foulard di seta.

Quasi la sua vista la angustiasse, o la facesse sentire inferiore. Diversa.

«Come mai fuori anche tu? Sei stata sulla terraferma?» le domandai, penetrando nel palazzo reale al suo fianco, salutati entrambi dalle guardie di ronda.

Lithar scosse il capo, sbuffò, ma infine disse: «Sono andata dal mastro armaiolo. Ho rotto la mia daga, e volevo farmene fare una nuova.»

«E come diamine hai fatto a romperla?» esalai, confuso.

«Stavo allenandomi con Ciara, quando ho messo un piede in fallo e sono caduta… spuntando la daga.»

Ridacchiai, non potendo farne a meno ma, quando vidi che Lithar non approvava la mia ilarità, smisi subito.

«Ehi, sorellina, può capitare a tutti di sbagliare. E poi, tieni conto che stavi lottando niente meno che contro Ciara, che è la guerriera più forte che si conosca.»

Col mio dire, cercai solo di tirarle su il morale, ma ottenni solo un muso lungo e… sì, il principio di un pianto.

Che stava succedendo a Lithar?

La fissai stranito, domandandomi cosa le stesse succedendo, ma nulla venne in mio soccorso.

Non potevo essermi dimenticato del suo compleanno. Lei e Rohnyn erano nati con il fare di agosto, perciò mancava ancora più di un mese.

Inoltre, dubitavo fortemente che se la sarebbe presa per una mia dimenticanza in tal senso.

Lithar era tante cose, ma di certo non una persona che metteva il broncio.

Quindi, cosa stava succedendo?

Mi avvicinai per darle un goffo bacio sulla guancia – non ero ancora avvezzo a simili carinerie – e, dopo averle sorriso, sperai mi confessasse i suoi timori.

O cosa la arrovellasse tanto da tingere di fosco i suoi bellissimi occhi d’ametista.

Lithar fece per dirmi qualcosa, ma i passi sonori di nostra madre ci fecero allontanare l’un l’altra, niente affatto desiderosi di ricevere il suo disappunto.

Muath poteva far paura, quando era furiosa, ma quel giorno mi parve solo pensierosa e sì, ansiosa.

Ci raggiunse con il suo passo spedito, guardandoci dall’alto della sua poderosa altezza.

«Lithar, vieni con me.»

Non disse altro, e mia sorella non chiese spiegazioni. Si limitò a seguirla come un cagnolino ammaestrato, e io me ne chiesi il motivo.

Cosa nascondevano, quelle due?

Non domandai, ovviamente, né mia madre ritenne doveroso darmi qualche spiegazione.

Mi lasciarono semplicemente solo nel corridoio, illuminato dalle torce bioluminescenti, e a me non restò che andarmene nei miei appartamenti.

Fu solo quando raggiunsi i miei alloggi, che badai a un particolare che, in precedenza, mi era sfuggito.

Ogni mille anni, Lithar si era rinchiusa nelle sue stanze assieme a Muath e, per un giorno intero, non ne erano uscite. E sempre in quel periodo.

Me ne intendevo poco di rituali femminili, e Lithar era adulta da troppo tempo, per pensare che fosse una cosa legata alla sua sessualità.

No, c’era dell’altro ma, poco ma sicuro, nessuna delle due me ne avrebbe parlato.

Piuttosto, mi avrebbero ucciso.

E io potevo benissimo tenermi le mie curiosità. Per lo meno, per quello che riguardava mia sorella.

Tutt’altra storia era per Rachel e Faélán.

Non sapevo bene per quale motivo, ma di loro volevo sapere ogni cosa. Tutto quanto.

 
 
 
 
 
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1 Faélán: (leggasi ‘Faylin’
)

Note: come potete vedere, Krilash non è solo lo spensierato ragazzo che pare spassarsela sulla terraferma, in barba agli insegnamenti fomoriani. C'è qualcosa che lo tormenta così profondamente da tenerlo desto ogni notte, da portargli incubi tali da lasciarlo tramortito. Inoltre, Rachel lo turba sempre di più, così come la dolce Fay, che lo porta a chiedere di entrambe, a indagare su di loro... perché è vitale, per lui, sapere di loro.
Vedrete ben presto perché il suo interesse sia stato destato in maniera così forte.
Per ora, grazie per essere rimaste con me fino a qui!


  
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