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Autore: 16tnharry    05/07/2015    0 recensioni
Nonostante avesse una vita piena di ostacoli, lei riusciva a sconfiggere qualsiasi cosa con il suo sorriso e con il suo senso dell'umorismo. Posso solo dire che in pochi mesi è diventata una di quelle persone che ammiri spudoratamente, e che da lei sono riuscito ad imparare tante cose da cui ho ricavato tenacia, desiderio di vivere e la felicità. E si sa che nessuno può donarti tutte queste cose, ma lei, in qualche modo ci è riuscita. In quel periodo ero più che sbalordito, io, avendo vent'anni, avrei dovuto insegnare a lei i valori della vita e il senso della felicità stessa, ma Adèle, così si chiama, è partita in quarta e ha iniziato a farmi capire che in questo mondo nessuno è debole, nessuno è troppo o non abbastanza per eseguire una determinata azione, anche per l'impossibile.
Genere: Drammatico, Generale, Triste | Stato: in corso
Tipo di coppia: Nessuna
Note: nessuna | Avvertimenti: nessuno
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Molti dei miei coetanei disprezzavano il loro lavoro, quindi perdevano tempo e si sacrificavano solo per ottenere lo stipendio. Gli ospedali non sono dei luoghi in cui divertirsi, ma io riuscivo a farlo nel reparto bambini perché loro emanavano una gioia infinita, e trasmettevano una carica assurda. Alcuni mi erano stati assegnati per insegnare loro a leggere, a capire le possibili definizioni esistenti sulla faccia della terra, e anche per aiutarli a spicciare parola con altri bambini o con le persone adulte. L'unica pecca del mio lavoro era assistere alle perdite che ogni giorno erano in grado di demolire i cuori dei miei colleghi, e ovviamente ne risentivo anch'io. Non essendo ancora entrato in contatto con i bambini malati di cancro, non riuscivo ancora a capire le vere e proprie sensazioni che si provavano nell'assistere al termine di vita di un proprio paziente. Una delle mie colleghe, Tatiana, aveva lasciato dopo venti anni il suo lavoro da dottoressa/aiutante dopo la perdita di un bambino che gli era stato affidato per ben dieci anni. Per lei era stato un gran colpo al cuore, e in quel periodo mi chiedevo se fosse stato lo stesso anche per me. Probabilmente il tempo per abituarsi era infinito, oppure non ci si abituava mai ad una cosa del genere, se qualcuno ti sta davvero a cuore non ci pensi all'abitudine. In ogni caso, erano passati cinque mesi da quell'accaduto, e nessuno ci pensava più all'assumere qualche sostituto di Tatiana. Come ogni mattinata lavorativa aspettavo Hunter, un mio piccolo paziente dai soli sei anni che non poteva vedere, ma con un senso dell'udito molto sviluppato. Quando avevo i turni di sera e i suoi genitori l'affidavano a me, gli leggevo alcuni libri per farlo addormentare, gli parlavo un po' del mio lavoro e lui mi accennava ogni volta che un giorno sarebbe diventato proprio come me, e non c'era cosa più bella dell'essere un suo punto di riferimento. Appena arrivò nella nostra sala con i suoi genitori, si catapultò in un batter d'occhio tra le mie braccia con una gioia immensa. « Ti vedo molto attivo oggi, capitano! Hai per caso voglia di esercitarti? » « È solo molto contento di stare qui con te, Elijah. Non so come ringraziarti per ciò che fai, ha sviluppato un senso di equilibrio straordinario e sa anche dove mette i piedi, è fantastico. » Proferì Mr Irving. « Non c'è bisogno di ringraziarmi, è tutto merito suo. Solo che qualcosa mi dice che è venuto qui solo per giocare con gli altri bambini, non è così, Hunter? » Accennai, aumentando con leggerezza il tono della mia voce in modo che il mio messaggio arrivasse ad Hunter, che in un attimo era sgaiattolato dai suoi amici, alcuni di essi con la sua stessa mancanza del senso visivo. Avrei voluto lasciarlo lì con loro, ma se volevo evitare di essere cacciato fuori dall'ospedale dovevo eseguire il mio lavoro. Dopo aver salutato i suoi genitori, lo feci sedere sulle mie gambe con un foglio spesso, un punteruolo e una tavoletta metallica sul tavolo. Con il metodo Braille gli avrei insegnato a leggere. Consisteva nell'incidere dei punti nelle piccole caselle vuote, che si sarebbero trasferiti sul foglio, e attraverso il senso del tatto Hunter avrebbe potuto imparare le lettere in codice. Con le dita toccava ed esaminava quei piccoli puntini, chiedendomi ogni tanto cosa fossero e a cosa servissero. « Sono lettere, attraverso queste potrai imparare a leggere, a scrivere quando sarai un po' più grande, a contare, e anche a suonare uno strumento musicale. » « E allora potrò imparare a suonare la chitarra che ho a casa, o il violino della nonna! » « Potrai diventare Stevie Wonder, se vorrai! » « Elijah...come sono i colori? » borbottò. Quella fu una domanda a cui ci misi un bel po' di tempo per rispondere. Era inaspettata, anche perché stavamo parlando di qualcosa di completamente diverso. Nessuno me l'aveva mai chiesto prima, e ad essere sincero, mi intimoriva. Come si possono descrivere i colori ad un bambino cieco? Quell'innocenza con cui aveva pronunciato quelle parole, quella curiosità di sapere quali fossero quei così tanto amati colori di cui parlavano i suoi amici, facevano in modo che la mia mente elaborasse qualche risposta concreta che avrebbe permesso ad Hunter di immaginare la purezza e la fantasia dei colori. Così, riponendo il punteruolo sul tavolo e appoggiando il mento su una delle sue piccole spalle, iniziai a parlargli di un argomento che avrei presto associato a ciò che voleva sapere. « Sai, i colori sono un po' come l'umore delle persone. Sono un po' come la felicità e la tristezza. Quando sei felice esprimi gioia, sorridi costantemente, sei energico e faresti qualunque cosa per mantenere intatta quell'allegria, perché sai che è simbolo della felicità, dello stare bene. Ecco, ci sono i colori felici e i colori tristi: i colori felici si usano appunto per esprimere la vivacità che provi in quel momento, e i colori tristi si usano quando sei angosciato. Tra quelli felici c'è il giallo, è un colore molto carico, uno di quelli che ti tirano sù il morale e che non ti fanno mai mancare il sorriso. Quindi, il giallo è uno di quei grandi sorrisi che fai quando sei felice, mentre tra i colori tristi c'è il grigio. Il grigio è un'intera giornata di pioggia, è il pianto di un bambino, è quando non riesci a stare bene, a trovare la felicità. Ma è comunque un bel colore, tutti i colori sono belli, Hunter. » « Il colore felice è bello! Pensi che il giallo possa essere simile al mio umore? » « Il giallo ti dona, capitano. » « Elijah, posso andare dai miei amici? » « Ma non abbiamo neanche iniziato ad esercitarci, Hunter, andiamo. » « Mi hai insegnato i colori! I miei genitori saranno fieri di me. » Quando pronunciò l'ultima frase era già corso via con il suo piccolo bastone, anche se io ero in piedi al suo fianco per evitare che cadesse e si facesse male. Guardavo Hunter ed ero fiero del lavoro che praticavo ogni giorno, notavo dei risultati notevoli nei suoi movimenti, nel contatto con il mondo esterno e con le persone. Avevo solo paura che ai suoi dieci anni me l'avrebbero portato via, e allora non l'avrei più visto. Sarebbe cresciuto, ai suoi 13 anni sarebbero iniziate le sue prime esperienze adolescenziali e allora si sarebbe dimenticato del mio nome. Ma anche il mio insegnamento era una delle sue nuove esperienze, quindi sarei rimasto per sempre nella sua mente e nel suo cuore. Le mie paranoie erano così continue che non riuscivo a mettere il bastone tra le ruote, ero uno di quei tipi di persone che si affezionano così tanto anche dopo qualche settimana, e non sapevo se fosse una cosa positiva o, ahimè, qualcosa di negativo. In quel preciso istante, tra le soavi risate dei bambini, udivo anche un suono fioco, uno di quelli che credi derivino dalla tua immaginazione. Invece no, proveniva dal reparto affianco, l'accoglienza dei bambini con il cancro. Per un attimo pensai che ci fossero visite dalle persone teatrali, quelle che fanno visita ai bambini attraverso dei balli classici o dialoghi comici. Però, quando chiusi il portone trasparente di quella sezione dietro di me, non vedevo alcun movimento. C'era solo un piccolo stereo in funzione in un angolo, musica classica, e una stanza con un letto vuoto e disfatto. Il mio sguardo scrutava e cercava attentamente in ogni parte della camera o del corridoio, e le grida dolci dei bambini di quel reparto allungavano spesso un sorriso sulle mie labbra. « Hey! Che ci fai qui? » Una ragazzina attirò subito la mia attenzione con la sua voce affinata. Era piuttosto alta, arrivava al mio stomaco, e un sorriso dominava il suo candido volto. Tra le sue mani c'erano delle punte, quelle che indossano le ballerine, e da lì capii che lo stereo era suo, e che lei stava ballando sulle note delicate di quella musica classica. « Oh, scusa, io sono Adèle. È un piacere conoscerti. » « Anche per me è un piacere conoscerti, Adèle. Io sono Elijah, e sono qui perché, beh, sentivo questa musica provenire da qui e..pensavo ci fossero visite, tutto qui. » Adèle. Un nome ricco e vivace proprio come il suo viso e i suoi occhi. Non posso dire che lei non soffrisse, come ogni persona con il cancro si convive col dolore, ci si abitua, e lei ci era abituata davvero bene. Pensavo a come fosse possibile che la sua vivacità potesse trionfare su ogni male, perché, oh dio, se riesci ad andare avanti nonostante la tua malattia che cerca di inghiottire le tue cellule, sei in grado di fare qualunque cosa. E lei lo era. Lei era la grinta, la forza fatta a persona, e noi altri anneghiamo negli abissi per un piccolo problema familiare, economico o di salute. Ti basta guardare queste persone, guardare Adèle, e tutto ti sembra luminoso. Ecco che, quando la conobbi, in me crebbe un senso di appartenenza. Era come se in qualche modo lei mi appartenesse, ed era per questo che nei giorni seguenti, quando avevo i turni di sera e quando alcuni dei miei piccoli pazienti non si presentavano, passavo del tempo con lei. Probabilmente passavo la maggior parte delle giornate con lei, e, evidentemente, non le dispiaceva affatto.
   
 
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