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Autore: Calliope49    08/07/2015    2 recensioni
*COMPLETA*
«Avete anche un nome, monsieur?»
«D’Artagnan».
Lei strinse appena le labbra. «Ah, siete quel d’Artagnan».
«Prego?»
«D’Artagnan, Athos, Porthos e Aramis. Treville vi nomina spesso - quando parla dei rischi per la sua salute, ad esempio».

Una calma insolita è piovuta su Parigi, ma la situazione non è destinata a durare. Strani incidenti, un omicidio e la comparsa di un misterioso bandito daranno filo da torcere agli uomini del re. Nel mezzo, una ragazza e troppe cose che non sono quello che sembrano…
[AthosXNuovoPersonaggio; Accenni Constagnan e Annamis]
[N.B. La storia non tiene conto degli sviluppi della seconda stagione perché è stata ideata prima che ne cominciassero gli episodi]
Genere: Avventura, Azione, Sentimentale | Stato: completa
Tipo di coppia: Het | Personaggi: Athos, Captain Treville, Nuovo personaggio
Note: What if? | Avvertimenti: nessuno
Capitoli:
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- Questa storia fa parte della serie 'On the side of the angels '
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XXII
I nodi vengono al pettine
 

«Non capisco il motivo di tutta questa folla». Dal finestrino della  carrozza, de Leroux lanciò un’occhiata al corteo di guardie e moschettieri. Il capitano Treville, in gran spolvero, era in sella al suo cavallo.
«Pensavo aveste detto al conte che saremmo andati da soli, Eminenza»
«Mi sono giunte voci di disordini nella zona dell’ospedale. Di questi tempi, duca, la sicurezza non è mai troppa» rispose svogliatamente il cardinale prendendo posto nella vettura.
Diane osservò la scena a distanza, le mani sudate che lisciavano ossessivamente la stoffa della gonna.
«Andrà tutto bene» le disse d’Artagnan quando le passò accanto.
La ragazza fece un cenno di assenso, ma pensò che non sarebbe arrivata viva all’ospedale. C’era una lunga lista di cose che avrebbero potuto andare male.
Perse l’equilibrio sui gradini della carrozza, inciampando nel suo stesso vestito. Qualcuno alle sue spalle l’afferrò al volo per le spalle, prima che cadesse.
«Nervosa?» mormorò Athos, continuando a tenerla.
«Vorrei avere una spada, o una pistola…»
«Non esagerare» concluse il moschettiere. Diane sentì che lui le aveva fatto scivolare qualcosa in mano, chiuse il pugno e lo nascose tra le pieghe della gonna.
Finalmente riuscì a sedersi accanto a Cesare. Di fronte a lei, il cardinale sorrise sotto baffi, negli occhi la malizia di chi ha capito più cose di quante fossero necessarie. La ragazza sospirò e puntò lo sguardo fuori dal finestrino.
Si misero in viaggio.
Con discrezione, Diane provò a guardare cosa le avesse lasciato Athos. Si trattava di un minuscolo pugnale, poco più di un tagliacarte, l’unica rassicurazione che poteva darle. La ragazza si ritrovò a sorridere e se lo lasciò scivolare all’interno della manica.
Come tutte le cose per cui non ci si sente pronti, la carrozza giunse a destinazione troppo presto.
L’ospedale era l’imponente edificio che Diane ricordava dal giorno dell’inaugurazione, troppe finestre senza nessuna luce che vi brillasse attraverso.
Le sembrava passata una vita da quella mattina e a volte le sembrava di non aver fatto alcun passo avanti ma quando con la coda dell’occhio vide i moschettieri smontare da cavallo realizzò che era partita per quell’avventura da sola e adesso non lo era più; si era ferita pelle e cuore ma ne era valsa la pena, anche se le cicatrici non smettevano di bruciare.
Pensò all’Italia, realizzò che neanche lì avrebbe trovato riparo da quel dolore sottile, dalla parte di se stessa che non si riconosceva quando l’aggraziata ragazza di buona famiglia si guardava allo specchio.
Come un’ombra emersa dal sogno di un pazzo, il conte Legrand comparve sulla soglia dell’edificio, occupando con la sua figura corpulenta l’intera apertura della porta di ingresso. Jean-Pierre alle sue spalle stava ritto come una statua.
Diane provò a intercettare lo sguardo dello scagnozzo del conte: era tranquillo come sempre, ma era lui quella sera al porto, che aveva sparato ai compagni che non potevano fuggire, era lui che aveva ucciso Morice e sparato a d’Artagnan, era per colpa sua che Marie era morta.
La ragazza sentì l’odio che le affannava il respiro. L’odio è peso e fatica, stanca e distrugge e lei non era in grado di combatterlo, né riusciva più a sopportarlo.
Il conte non sembrò aversene a male per tutti quegli ospiti inattesi, li invitò a entrare con fare cerimonioso.
Accanto a sua nipote, Treville inspirò lentamente e strinse per un attimo le dita di Diane tra le sue.
Mentre i visitatori sfilavano in uno stretta anticamera, Diane sentì qualcuno che le si avvicinava, gambe che sfioravano il cerchio della sua gonna.
Si voltò pensando che fosse Cesare o uno dei moschettieri, sussultò quando si rese conto che era Jean-Pierre.
«Avrei voluto venire a farvi visita, mademoiselle» le bisbigliò l’uomo. «Per Marie. Io… non ero in città quando…»
«Certo. Quale altra ragione vi avrebbe impedito di presentarvi al suo funerale, altrimenti». Diane pensò che la freddezza accusatoria nella sua voce avrebbe potuto tradirli tutti, ma non riusciva più a fingere. Lo sguardo di Jean-Pierre sul suo viso allentava i lacci del sacco dove aveva richiuso tutto il suo astio e tutto il suo veleno.  
«Sono certa che avremo occasione di riparlarne» concluse, avvicinandosi a Cesare per prendergli il braccio come se cercasse di restare aggrappata alle cose migliori.
«Vi chiedo scusa per l’ingombro, caro conte» disse Richelieu. «Il re ha molto insistito perché questa visita si svolgesse nella più assoluta sicurezza».
«Una precauzione del tutto comprensibile, Eminenza».
«I miei uomini hanno l’ordine di ispezionare la zona» intervenne Treville.
Un istante di perplessità aprì una crepa sulla maschera di perfetta cortesia di Legrand. Che avesse fiutato qualcosa?
«Naturalmente» disse poi, calmo. «Jean-Pierre, vuoi essere così gentile da accompagnare i signori?».
Di istinto, Diane incrociò lo sguardo di Richelieu, il cardinale assottigliò leggermente gli occhi da rapace. Se non le aveva creduto fino a quel momento, cominciava forse a crederle adesso.
La ragazza sentì i moschettieri passare alle sue spalle, il tintinnio leggero delle loro spade che dondolavano appese alle cinture. Non poté voltarsi a guardarli, poté solo pregare che tutto andasse come sperato.
«Se volete seguirmi» mormorò il conte, spostando con un gesto una tenda di tessuto grezzo. «Ah, mademoiselle Leroux, non sentitevi obbligata a sottoporvi a questo spettacolo, non è adatto alla delicatezza di una giovane donna».
«So decidere da sola cosa è adatto alla mia delicatezza, monsieur» gli rispose Diane.
Accanto a lei, Treville ghignò, il duca tossì leggermente per sottolineare la propria disapprovazione.
Legrand non aveva parlato a sproposito. Quando varcarono la soglia, Diane si sentì cogliere dall’angoscia. Era abituata alla morte, all’immobilità placida di cadaveri dal volto smunto, la sofferenza era un’altra cosa.
In un’unica grande stanza erano disposte tre file di letti, separati da lenzuola bianche. L’aria odorava di malattia, di troppi corpi tenuti insieme, si sentiva persino il ristagno di carne bruciata.
Suore con l’abito bianco stretto in vita da una corda con i nodi dell’ordine francescano sfilavano come fantasmi nel chiaroscuro di luci fioche. I lamenti dei malati salivano in un unico monotono gorgoglio.
Diane si trovò a fissare quel purgatorio e pensò che quell’ospedale non fosse un rifugio per i bisognosi, era un lebbrosario per i reietti che Parigi preferiva dimenticare.
«Forse il conte ha ragione» bisbigliò Cesare, quando lui e Diane rimasero indietro. «Non c’è proprio bisogno che tu ti sottoponga a tutto questo».
«Non sono una bambina stupida» replicò la ragazza, stizzita.
«Cosa ti prende oggi? Sei strana…»
«Scusa, non è con te che ce l’ho»
«E con chi allora?».
Un’ombra bianca, una suora dal viso magro e scavato emerse da dietro una tenda. «Credete di essere in una galleria del Louvre? Fate silenzio!» sbraitò a denti stretti contro i due giovani, li fissò con una durezza da combattente e Diane si sentì seccare la gola.
«Perdonate, sorella» disse Cesare, mortificato. Strinse la mano della ragazza e la trascinò via, riunendosi al corteo al seguito del conte che  stava enumerando come un mercante i pazienti curati e i bambini nati in quell’ospedale.
«Sarò lieto di farvi avere un resoconto scritto per la vostra relazione, duca» concluse, congiungendo le mani.
«Mi sarà senz’altro utile, grazie, monsieur».
Diane osservò Richelieu che si teneva stretto i lembi della pesante mantella scura perché non toccasse il pavimento né sfiorasse niente. Sua Eminenza era visibilmente a disagio e lei fu lieta di non essere la sola.
«Credo che dovremmo dire una preghiera o due, cardinale…» osservò Treville in un filo di voce. Quei due uomini si detestavano, eppure erano capaci di una complicità da vecchi camerati. Erano comunque soldati dalla stessa parte della barricata, guerrieri che si erano scelti campi di battaglia differenti nella stessa guerra.
Richelieu si schiarì la voce, fece qualche passo portandosi nel punto più lontano possibile dalle corsie e fece il segno della croce.
Intorno a loro le suore si segnarono e si misero in ginocchio.
Il cardinale cominciò un Pater Noster con una voce da litania.
Erano lì dentro da troppo tempo e Diane non riusciva più a sopportare quell’attesa. Mentre tutti snocciolavano versi in latino guardando il cardinale, la ragazza indietreggiò senza fare il minimo rumore e sparì dietro la prima porta che le capitò a tiro.
Se avessero notato la sua assenza, avrebbe potuto dire che era uscita a prendere aria.
La porta immetteva in una saletta dove erano ammassate lenzuola sporche in attesa di essere lavate. L’odore era nauseante e Diane si guardò attorno come se stesse annegando, alla ricerca di un modo per tornare a galla e riprendere fiato.
Vide uno scaffale ingombro di ceste e casse vuote, impiegò qualche istante a notare la porta mezza nascosta dietro quel mobile.
Avevamo ragione, pensò. L’idea di essere così vicina alla vittoria, alla possibilità di smascherare il conte, le fece sentire un bruciore sotto pelle che si trasmetteva secondo dopo secondo in tutto il corpo, come se all’improvviso il sangue avesse cominciato a friggerle.
Non pensò. Aprì la porta con cautela e sbirciò dentro.
Oltre la soglia c’era un ballatoio spoglio con una scala di pietra che si perdeva verso il buio di uno scantinato senza aperture. Dal basso proveniva il rumore di passi, una cacofonia leggera di suoni attutiti.
La ragazza scese le scale.
Il primo impulso che provò fu quello di ridere.
Sopra la sua testa il duca e il cardinale recitavano la loro parte di bravi cristiani, nel buio di quello scantinato un terzetto di uomini faceva la guardia a grandi casse uguali a quelle che aveva visto quella sera al porto, uguali a quelle nascoste nella casa che lei stessa aveva dato alle fiamme molte settimane prima. 
La ragazza li spiava nascosta dall’ombra. Solo un lume brillava in un angolo dello scantinato, molto lontano dalle casse e dai contenitori di polvere da sparo.
Per quel poco che la ragazza riusciva a vedere, i tre uomini erano armati. Forse si stavano preparando a spostare le casse in un luogo più sicuro, appena fosse calata la sera, forse aspettavano la visita di qualche compratore oppure erano stati avvisati della presenza sospetta dei moschettieri.
È fatta… pensò Diane mordendosi il labbro. Ora sapeva dove erano le armi, ora poteva denunciare il conte, ora poteva mettere fine a tutto.
Si voltò per tornare di sopra, doveva trovare i moschettieri, doveva andare a prendere suo zio, dovevano approfittare della presenza del cardinale, esattamente come aveva previsto il loro piano…
Respira. Non sei arrivata fin qui per farti tradire da un moto di impulsività.
Con estrema lentezza, Diane si voltò, attenta a non fare rumore. Il suo passo era leggero, inudibile anche in mezzo a quel silenzio quasi perfetto.
È finita…
Sorrise, ora che aveva ripreso controllo del proprio respiro e della propria lucidità. Salì i primi gradini e quando sollevò lo sguardo incrociò il foro nero di una canna di pistola puntata contro la sua faccia.
 
***

D’Artagnan accarezzava l’impugnatura della pistola come un cacciatore che rabbonisce il suo segugio prima di scagliarlo contro qualche preda.
Non potevano essere certi che fosse stato Jean-Pierre a sparargli quella notte sotto la neve, come non potevano essere certi che avrebbero trovato le armi quella mattina, eppure Athos leggeva il nervosismo negli occhi dei suoi compagni.
In un attimo realizzò che poteva succedere davvero: poteva finire tutto quella mattina e allora avrebbero messo altri mostri a dormire per sempre, e allora avrebbero reso un gran servizio al Paese, e allora Diane sarebbe stata libera di riprendersi la sua vita, quella che spettava a ogni ragazza della sua età. Sarebbe stata libera e lontana, al sicuro dalle ombre che si era trascinata dietro per dieci anni e da tutte quelle che aveva trovato sulla strada quando era tornata a Parigi.
E lui sarebbe andato avanti come sempre, a fatica, con il peso del passato che gli stringeva le caviglie. Diane era un altro fardello nella scia dei suoi passi.
«Non so cosa vi aspettiate di trovare» disse Jean-Pierre all’improvviso. «Qui dietro c’è solo una lavanderia e un deposito».
«Siamo sempre pronti alle sorprese» rispose Aramis con un sorriso sornione.
«Volete controllare fuori, per vedere se qualche figuro poco raccomandabile si è avvicinato alla carrozza di sua Eminenza?». C’era del sarcasmo nella voce dell’uomo, quasi una sfida alla loro impotenza: state tentando di afferrare l’aria da mesi, non riuscirete a vincere oggi.
«A proposito di figuri poco loschi» aggiunse l’uomo dopo qualche istante di silenzio, «so che eravate sulle tracce di un insolito criminale mascherato, prima che il conte ottenesse di farvi sollevare dal caso»
«E con questo?» domandò Athos, che non trovava per niente rassicurante quella domanda.
«Mi chiedevo se aveste qualche indizio su di lui»
«Non ne abbiamo» si affrettò a dire d’Artagnan. «A voi che importa?»
«Pensavo potesse entrarci qualcosa con l’omicidio di Marie»
«E io sono biondo…» bisbigliò Porthos in un filo di voce, senza che Jean-Pierre lo udisse.
«Naturalmente, avete lasciato irrisolta anche quella questione»
«Abbiamo dei sospetti»
«Chi?»
«Perché dovremmo dirvelo?».
L’uomo lanciò ai moschettieri un’occhiata torva, piena di disprezzo malcelato. Doveva tenere davvero alla ragazza, ma con la vita che si era scelto avrebbe dovuto essere più accorto. Non era anche quello l’amore? Sapere quando rinunciare per il bene dell’altra persona…
«Non importa» concluse, «magari me ne occuperò io, a tempo debito».
Nessuno di loro ebbe modo di replicare. Un colpo di pistola spezzò il silenzio asettico di quell’ala dell’ospedale e tutti si voltarono per cercare di capire da dove provenisse.
«Me ne occupo io» esclamò subito Jean-Pierre. «Non serve che vi mettiate di mezzo».
Fece per lanciarsi fuori dalla stanza. D’Artagnan si sfilò la pistola dalla cintura e lo colpì alla nuca con un unico gesto deciso.
Il tirapiedi di Legrand stramazzò al suolo come un sacco di rena e Porthos guardò il giovane con finta aria di rimprovero.
«Che vuoi? Mi stava irritando» borbottò il guascone.
«Andiamo a vedere chi è stato tanto idiota da farsi sparare» si intromise Aramis, per riportare l’attenzione sulle questioni più urgenti.
«Ho paura di provare a indovinare…» borbottò Athos.
I moschettieri sfrecciarono fuori dalla stanza, scavalcando il corpo di Jean-Pierre privo di sensi.
 
***
 
«Cosa credevi di fare, ragazza?» sputò un uomo con un sorriso sardonico.
Diane era ferma sui gradini, davanti a lei l’uomo e la sua pistola, alle sue spalle gli altri tre che si erano precipitati a vedere cosa stesse succedendo.
L’uomo, probabilmente uno di quelli scampati dal disastro al porto, le fece cenno di scendere le scale. Incespicando sui gradini corrosi dal tempo, la giovane raggiunse il ventre buio dello scantinato.
«Cosa credete di fare voi?» esclamò. «Se mi sparate vi sentiranno»
«Chi dice che dobbiamo spararti?» disse un altro uomo. Diane indovinò il lampo di una lama.
«Nessuno ti verrà a cercare quaggiù. Penseranno che magari te ne eri uscita a prendere una boccata d’aria… e chissà cosa può succedere a una ragazza sola in un quartiere come questo»
«Faranno domande. Controlleranno questo posto da cima a fondo. Vi scopriranno». Diane sapeva che quei criminali avevano ragione, ma doveva prendere tempo. Si rese conto che la sua unica possibilità era che le sparassero davvero.
«E poi, sottovalutate quanto forte io possa urlare» concluse, facendo un balzo all’indietro per sottrarsi alle mani degli sconosciuti che si muovevano nella penombra come spettri.
L’uomo sulle scale l’afferrò e le chiuse la bocca con la mano.
Diane non riusciva a respirare. Strinse i pugni e il minuscolo pugnale che le aveva dato Athos le scivolò nel palmo della mano. In un tentativo disperato lo conficcò nella coscia del suo aguzzino e glielo rigirò nella carne.
L’uomo urlò, con un sussulto fece partire il colpo di pistola che atterrò come una cometa ai piedi della ragazza.
Così va meglio…
Gli altri si guardarono in viso, atterriti. Uno di loro si scagliò su Diane e l’afferrò brutalmente per le spalle, stringendole la gola.
«Colpa tua, ragazzina. Adesso ci aiuterai a uscire da qua» le disse.
Non è nemmeno la prima volta che un gruppo di banditi mi prende come ostaggio per coprirsi la fuga… fu il primo sciocco pensiero di Diane. Il secondo fu che questa volta avrebbe davvero potuto non farcela.
«Non farete in tempo a uscire da questo posto» sibilò.
Dall’esperienza passata avrebbe dovuto almeno imparare che non è opportuno far innervosire uomini armati che ti tengono sotto tiro, ma poi come avrebbe fatto suo zio a lamentarsi della sua testardaggine?
«Allora non ne uscirai nemmeno tu»
«Allora sarete ancora di più nei guai».
Uno degli uomini la colpì al viso con un pugno fortissimo. Diane sentì il sapore del sangue in bocca e la testa girarle.
L’afferrarono e la trascinarono per le scale, in una corsa quasi alla cieca.
Erano a metà dei gradini quando la porta nascosta si aprì di schianto e le guardie del cardinale comparvero con le pistole alla mano.
Diane, mezza stordita e più impaurita che mai, si chiese se i moschettieri nel mentre non si stessero facendo un goccetto con Jean-Pierre da qualche parte. Le guardie rosse non sembravano abbastanza sveglie per trarla d’impaccio da quella situazione: al cardinale importava incastrare il conte per prendersene il merito, fare uscire tutti vivi da lì non doveva rientrare nelle sue priorità o in quelle dei suoi soldati.
«Lasciate andare la ragazza» intimò una delle guardie.
Apprezzo il tentativo ma quando mi faranno saltare la testa voi sarete i primi che il mio fantasma verrà a tormentare…
«No. Voi ci lascerete passare e… ci lascerete passare o la bambolina muore» replicò l’uomo, spingendo con più forza la canna della pistola contro la tempia di Diane.
«Lasciateli passare, ho già abbastanza mal di testa…» squittì lei, mezza furiosa e mezza terrorizzata dall’inettitudine del soldato che aveva davanti.
Le guardie rosse si fecero da parte e i tre uomini si affrettarono a uscire, trascinando con loro la ragazza.
Quando sfondarono la porta della lavanderia e si riversarono nella grande camerata che ospitava le corsie dell’ospedale, furono accolti da un coro di strilli.
«DIANE!». La ragazza non capì chi lo avesse gridato per primo, se il duca, Treville o Cesare.
I tre uomini restarono impietriti, come se si fossero resi conto dell’impossibilità della situazione.
«Conte! Che storia è questa?» tuonò il cardinale - che per precauzione era comunque sparito dietro le spalle del capitano dei moschettieri.
L’enorme faccione di Legrand era bianchissimo e sudato.
Diane cominciava a sentire la nausea, la testa che le scoppiava e la voglia di mettersi a piangere o a gridare o tutte e due le cose insieme.
E poi il mondo precipitò.
La ragazza vide con la coda dell’occhio delle figure spuntare di lato. Un braccio l’afferrò e la trascinò così forte da farle scricchiolare l’articolazione della spalla.
I moschettieri erano comparsi Dio solo sa da dove e si erano lanciati addosso ai tre uomini, approfittando dell’effetto sorpresa per strappare loro l’ostaggio che intendevano portarsi dietro.
Diane non capì subito cosa fosse successo, realizzò solo di essere con la faccia affondata in un lembo di cuoio, un braccio le cingeva le spalle e lei non aveva il coraggio di voltarsi a guardare.
D’improvviso si sentì gettare a terra, e cadde restando aggrappata a chiunque l’avesse sottratta ai suoi aguzzini.
Spari. Grida. Odore di polvere e di bruciato. Suono di passi che correvano. Rumore di corpi che impattavano l’uno contro l’altro e di ossa rotte. 
«ARRESTATELI! IN NOME DI DIO!» tuonò Richelieu da qualche punto imprecisato della camerata.
Poi il silenzio.    
Diane non si era accorta di aver chiuso gli occhi,  li riaprì uno alla volta e si rese conto di essere letteralmente avvolta addosso a qualcuno.
«Porthos?…» squittì.
«Credo di aver fatto ingelosire un po’ di gente in un colpo solo, eh» scherzò lui. Si alzò e l’aiutò a rimettersi in piedi.
La ragazza era malferma sulle gambe, si appoggiò al braccio del moschettiere e cercò di riacquistare coscienza di quello che aveva attorno, di ricostruire quello che era successo.
Le suore erano accovacciate dietro ai letti; gli infermi sulle loro brande avevano sprofondato la testa nei cuscini; qualcuno piangeva; le guardie rosse erano ancora sulla porta, uno di loro reggeva tra le mani una cassa con dei fucili avvolti nella paglia.
Cesare e il duca erano impietriti, con gli occhi sgranati fissavano il nulla davanti a loro.
Il capitano Treville afferrò il conte e lo spinse contro il muro. «Vi dichiaro in arresto, in nome del re».
Diane cercò lo sguardo dei moschettieri. Loro le stavano sorridendo, anche se non avevano una bella cera.
La ragazza si staccò dal braccio di Porthos e mosse qualche passo, si fermò, sbatté le palpebre, inspirò. Poi vomitò in un badile. 
 

 
  
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