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Autore: Mirella__    08/07/2015    2 recensioni
C'è stato un tempo in cui credevo che nella vita non ci fossero poi tante scelte.
Parliamoci chiaro, quando ero giovane la pensavo in questo modo: se sei nato da una meretrice non puoi diventare un re, se tuo padre fa il contadino, sono ben poche le possibilità che tu diventi un banchiere, se i tuoi legami non sono quelli giusti, non hai altre vie se non proprio quelle dove essi ti trasportano.
All'epoca viaggiavo tra mondi diversi, anzi, è più corretto dire che ci vivevo, poiché combattuta tra gli usi e costumi dei ricchi e la peste nera e la fame del popolo.
Non ero niente più che una cameriera, una di quelle che vedi tutti i giorni al mercato, una di quelle che stanno lì a spendere la vita al servizio degli altri, a pulire il buco del culo a quelli d'alto rango; se mi concedi il termine.
Se dovessi raccontarti l'inizio della mia storia, oh beh, credo inizierei dal giorno della mia nascita, quindi, se non hai niente di meglio da fare, prenditi una sedia.
Genere: Avventura, Azione, Romantico | Stato: in corso
Tipo di coppia: Het, Slash, FemSlash
Note: nessuna | Avvertimenti: Contenuti forti, Violenza
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Catrina

 

 

Turn your back on mother nature

 

 

Dovevo tornare alle origini, togliermi di dosso i vecchi abiti e crearmi una nuova identità.

Non c'era altra soluzione.

Nella capanna diroccata, che era divenuta il luogo in cui potevo fermarmi a riflettere, mi guardai davanti all'unico specchio - dono di Jennifer - e carezzai per un'ultima volta i miei lunghi capelli rossi.

Erano un tratto distintivo, facevano parte della mia persona, della mia vanità.

Ci sarebbero voluti anni per farli ricrescere, ma sapevo che se li avessi lasciati a quel modo sarei stata facilmente riconoscibile, o almeno questa era quello che facevano i personaggi immaginari dei libri che leggevo assieme a Jennifer.

Passai il pugnale sporco di sangue tra le ciocche e tagliai con forza; esse cadevano ai miei piedi, ma non vi badai. Quando finii il lavoro mi resi conto di sembrare un'altra persona.

Mi avvicinai alla fonte d'acqua più vicina e mi lavai velocemente, ignorando il freddo e tremando da capo a piedi.

Immagini della notte precedente mi scorrevano davanti agli occhi.

“Come pianificato” Mi ritrovai a sussurrare.

Volevo trovarlo, volevo rovinare la sua vita come lui aveva fatto con la mia. Volevo togliergli la soddisfazione che avevo sentito trasudare dalle sue labbra mentre diceva quelle due parole. Volevo vendetta; vendetta in nome del futuro che poco prima di quell'incontro disgraziato si stava aprendo d'innanzi a me pieno di promesse e speranze.

Le illusioni di una vita normale.

Tornai dentro e aprii un vecchio baule: conteneva degli abiti maschili che indossai di fretta e furia. Li sistemai come potevo e dopo essermi guardata un'ultima volta allo specchio, lo ruppi con un colpo deciso di un bastone che avevo trovato lì vicino. Io non volevo quel cambiamento.

Nella Catrina di prima c'era la sicurezza della banalità, la dolce abitudine della quotidianità.

Cosa c'era nell'immagine riflessa di una donna vestita da uomo? Solo la sicurezza di una morte prematura.

Nascosi il pugnale nella tasca anteriore della giacca e in quel momento ripromisi a me stessa che l'avrei estratto unicamente per uccidere quel fantasma.

Non sapevo a chi fosse appartenuta quella casa, né di chi fossero i vestiti che stavo indossando.

Li avevo trovati anni prima, quando non conoscevo ancora Jennifer e giocando tra le campagne ne esploravano ogni singolo anfratto.

Mi divertiva immaginare che tra le macerie ormai abbondante ci fosse una storia; che, una volta, nei letti che adesso erano sfasciati, ci avessero dormito dei bambini e che nell'altra stanza ci fossero stati i loro genitori.

Probabilmente se ne erano andati anche loro di fretta e furia, come dei ladri, lasciando la maggior parte delle cose tra quelle mura.

Era stata una fortuna per me.

Non che ci fosse niente di valore, ma dovevo essere nessuno, almeno per un po', e i vestiti del ragazzo che doveva esserci stato prima di me erano perfetti per l'occasione.

Non avevo cibo, non avevo soldi, ma avevo un'idea in mente: imbarcarmi al primo porto utile e allontanarmi dalla città il più possibile, oppure prendere un cavallo e inoltrarmi nella boscaglia più fitta.

Entrambe le idee avevano i loro pro e contro.

Vivere nel bosco avrebbe significato morire di fame, mentre l'essere scoperta come donna su una nave mi avrebbe esposta alla mercé di mercanti, di corsari, di pirati, ma almeno avrei potuto tentare la sorte.

Non avevo scelta, per questo misi quel poco di roba che avevo nelle tasche e uscii dalla baracca, iniziando ad allontanarmi a grandi falcate.

Il mio piano inizialmente mi era sembrato geniale, ma ad ogni passo che facevo ogni suo difetto si chiariva e, come una barca con una falla, colava inevitabilmente a picco.

Non avevo le prerogative di un marinaio, non avevo nessuna carta che mi raccomandasse a qualche capitano.

Fu così che dal porto il mio obiettivo si spostò alla taverna.

Non avevo soldi con me, ma volevo provare qualcosa di nuovo, rischioso e indubbiamente stupido. Contavo sul fatto che la città era grande, speravo di non incontrare nessuno che mi potesse denunciare, quasi certa che quella bettola all'estremo delle mura cittadine fosse un posto bene o male sicuro.

Una delle mie qualità migliori stava nella memoria: ricordavo ogni cunicolo che vedevo, per me era impossibile perdermi; una qualità che continuo ad avere, da come puoi vedere.

Quando aprii la porta, la prima cosa che mi colpii di quello schifo fu il fetore.

Sembrava che una puzza nauseante di piscio, vomito e aliti fetidi derivante da tutta la città avesse deciso di riunirsi a festa in quel locale angusto. Fu difficile non dare di stomaco, oh... estremamente difficile; tuttavia mi diedi coraggio e riuscii a prendere posto lì dove quel sublime odore arrivava a folate meno possenti.

C'erano uomini di ogni età e con mia sorpresa notai che le donne non erano in minor numero.

Avevo fame, avevo sete, ma con le tasche vuote non si compra niente, perciò mi ritrovai a guardare come un cane bavoso un uomo che mangiava una bella bistecca con accanto un enorme bicchiere di vino.

Se ne accorse anche lui, del mio sguardo, e mi abbaiò contro di guardare da un'altra parte se non avessi voluto ritrovarmi con la testa ficcata... beh, non ti piacerebbe sapere dove.

“Gerard, sempre scontroso. Il ragazzo qua avrà fame, come tutti noi. Da quando quei porci aristocratici hanno aumentato le tasse persino sull'aria che respiriamo è difficile tirare avanti”.

Mi piacerebbe poterti dire che queste furono le parole che sentii con esattezza, ma se devo essere sincera ero impegnata a ricordarmi di chiudere la bocca e non riprendere a sbavare, anche se quella volta sarebbe stata letterale.

Il ragazzo che aveva parlato era di una bellezza fiera e decisa. Mento squadrato, naso appuntito e occhi neri; i vestiti lasciavano intravedere una muscolatura non indifferente, che mi ostinavo a guardare appena per non sembrare un... aiutami, non ricordo il termine preciso, lo avevo letto molto tempo fa tra i libri di Jennifer; se non sbaglio... ah già! Un mozzo da culo.

Iniziammo a intrattenere una conversazione, cosa che non mi dispiaceva affatto e alla fine riuscii anche a farmi offrire un bicchiere.

Lo mandai giù di colpo e le risate che ne seguirono mi resero euforica a tal punto che ne volli un altro. Divenni sboccata, ridevo, non controllavo i toni e in quel modo divertii molti.

Un uomo della taverna, uno di quelli che mi aveva presa in simpatia, mi offrì il secondo bicchiere e mandai giù anche quello: per me che non ero abituata all'alcol fu come un pugno nello stomaco.

Ne calai almeno altri tre, prima di sentirmi male davvero.

La testa era così leggera, il corpo così pesante e le paure che mi avevano assalita dal giorno prima erano diventate solo un vago ricordo.

Tutto attorno a me si fece appannato, i suoni distorti si amplificarono e mi tappai le orecchie, biascicando con la voce tipica di chi era ubriaco una richiesta di pace, che ovviamente non venne ascoltata.

Le mie palpebre erano macigni e calarono inevitabilmente, celando la luce.

Quando riaprii gli occhi, mi ritrovai su una carrozza e le grosse sbarre di legno mi impedivano di vedere granché.

Dalle strade lastricate e dagli scorci degli edifici, capii che mi stavano trasportando verso una delle piazze più grandi della città e dovetti ricorrere a tutta la mia forza di volontà per non cedere al panico.

Che ragazza sciocca e avventata che ero stata!

Credevo sul serio di riuscire a scappare da coloro che mi cercavano; credevo pure che tagliare i capelli mi avrebbe reso un'altra persona, ma mentre le ruote del carro affondavano nei buchi di quella strada mal ridotta - causandomi un dolore infernale alla schiena - mi resi conto che non ero nemmeno stata lontanamente vicina alla fuga.

Un suono di tamburi accompagnava il mio cammino, le mura attorno alla piazza erano alte, imponenti, opprimevano chi stava al suo centro; il ritmo degli strumenti cresceva di pari passo con quello del mio cuore, mi divenne difficile persino respirare.

Avevo mal di testa, la sbronza della sera prima aveva fatto il suo effetto e nell'unico vero momento di lucidità pensai che almeno avevo fatto qualcosa fuori dall'ordinario: ubriacarmi la sera prima di finire impiccata: perché questo stava per succedere.

La mia sentenza era stata detta, io non avevo nemmeno la possibilità di obiettare: l'uomo che pareva essere morto per mano mia era davvero troppo importante e se il suo assassino non era lì, qualcuno doveva essere il capro espiatorio.

L'avanzata del veicolo si arrestò bruscamente, le porte vennero aperte e con una violenza non necessaria venni tirata a terra.

“Cammina, tesoro, non costringermi a trascinarti, non sarebbe un bello spettacolo. Non rendiamola più tragica di quanto già non sia”.

Il ragazzo della sera prima mi tendeva la mano: era un soldato della guardia.

La taglia che evidentemente mi avevano messo sulla testa era grossa. Chissà se lui mi aveva trovata per mera fortuna o perché m'aveva cercata.

Mi rialzai barcollante, ignorando la sua offerta d'aiuto; con uno strattone venni costretta a farmi avanti e mentre camminavo verso il patibolo sentii le accuse che mi venivano rivolte, assieme al mio nome e l'ora della mia impiccagione.

Non avevo mai avuto nessuna possibilità di fuga, ogni cosa nella mia vita era stata prestabilita e la convinzione dell'esistenza di un singolo e segnato destino aveva ripreso vita tra le rovine di quel che era andato distruggendosi la notte prima.

Quando vidi il nodo pendere dal patibolo realizzai che quella sarebbe stata la mia caduta, allora mi sentii incredibilmente fragile; non c'era niente a tenermi in equilibrio su quello che era diventato un filo sottilissimo.

Divenni cieca dall'orrore, tremai da capo a piedi e urlai, urlai che non ero stata io a commettere quegli atti, che non era a me che dovevano puntare contro le baionette, ma ad un uomo senza nome, senza volto, senza presenza.

“Voi che puntate le armi contro una fanciulla di appena sedici anni, pensate davvero di ottenere giustizia a questo modo? Voi che volete tirare il collo a chi di inverni ne ha visto così pochi da non aver mai sentito il freddo vero sulla propria pelle! Vergognatevi!”

Mi divincolai dalla presa del ragazzo, con una gomitata riuscii persino a fargli saltare via un dente e mentre lui si agguantava il mento con una mano, corsi verso quella che pareva essere l'unica via d'uscita.

Aspettavo di sentire i colpi, sapevo che le pallottole mi avrebbero raggiunta e tolto la vita, ma non m'importò in quel momento, veloce com'ero sempre stata, riuscii persino a raggiungere uno degli edifici adiacenti alla piazza.

Fu in quel momento che mi chiesi il perché. Era priva di logica quella mia vittoria, il mio corpo sarebbe dovuto essere già riverso a terra.

Mi voltai con uno scatto, decisa a non voler rivivere ancora l'illusione della fuga, ma quando vidi il perché quella mi era stata possibile restai senza fiato.

Uomini addestrati uccidevano le guardie con quelli che sembravano passi di danza.

Anzi, mi sbagliavo, era qualcosa di molto più virile quello che c'era nel loro stile di lotta.

Le pistole venivano estratte e puntavano con una precisione millimetrica alla testa dei propri obiettivi, quando queste finivano le cariche, venivano gettate via e al loro posto le spade venivano sguainate con una ferocia e un'eleganza unica nel loro genere.

Non potevano volere me, sicuramente doveva essere solo una grandissima benedizione quella coincidenza, quindi ripresi a correre per fuggire lontana da lì.

La terra scorreva sotto le mie gambe, saltavo ostacoli, superavo carrozze, mi nascondevo tra i vicoli quando potevo, sapendo che se fossi stata persa di vista da tutto e tutti allora sarei stata intoccabile.

La battuta d'arresto arrivò non molto tempo dopo, sapevo che stavo dirigendomi verso un vicolo cieco, ma se avessi saputo sfruttare le strade nessuno mi avrebbe raggiunta quando sarei arrivata al capolinea.

C'ero quasi.

Svoltai l'ultimo angolo, saltai le balle di fieno e mi nascosi tra due casse, approfittando della mia statura minuta per appiattirmi tra di esse e la parete.
Davanti a me passarono due soldati dell'arma e trattenni il fiato per non farmi cogliere in un luogo dal quale mi era impossibile scappare.

Respirai solo quando sentii i passi allontanarsi.

“Ma tu guarda chi abbiamo qui”. Dall'ombra apparvero due uomini incappucciati che mi sorrisero cordiali, tuttavia quell'espressione riusciva a incutere un timore primordiale.

“Un ratto che si nasconde tra i barili”. Specificò il più alto dei due.

“Un ratto che ti ha dato del filo da torcere. Ammettilo, non ce la facevi più a correre, vero Carl?”

“Un ratto che ti ha concesso l'occasione per darti delle arie, come sempre”.

I due uomini si tolsero il cappuccio, erano identici sotto ogni punto di vista.

Avevano una cicatrice che deturpava loro il volto nello stesso punto e che probabilmente era stata inflitta loro dalla stessa mano.

Mi impressionarono, i gemelli, ma all'epoca non ci voleva poi molto per stupirmi.

“Un ratto che mi ha dato modo di dimostrare quanto io sia veloce rispetto a te”.

Sospirarono entrambi, ma non badai più di tanto alla loro stramba conversazione: cercavo il modo di andare via.

Lì, acquisii una delle lezioni che da quel momento in avanti mi avrebbe salvato la vita.

Fai scannare i tuoi nemici tra di loro. Non nego che per farlo, però, ci voglia una certa esperienza e il risultato del primo tentativo non fu quello sperato.

“A me sembrava che tu cercassi di star dietro a quello”. Indicai uno dei due, affidandomi al caso; non li avevo visti neanche rincorrermi, ma contavo sulla loro possibile stupidità.

Ero abituata a troppi stereotipi. Spesso grosso non è sinonimo di stupido e spesso il capire qualcosa non significa poter migliorare la situazione.

Quel che è semplicemente è.

Si girarono entrambi nella mia direzione.

“Guarda, guarda chi tenta di metterci contro”.

“Fratello, te ne occupi tu? Mi raccomando, non essere troppo violento, ci serve intera”.

Il gesto di uno dei gemelli fu talmente veloce che non riuscii nemmeno a metterlo a fuoco; la sua mano mi arpionò la spalla e mi buttò a terra con una forza sovrumana.

Nell'urto contro il lastricato sentii un sinistro scricchiolio delle ossa del mio braccio e l'adrenalina mi impedii di sentirne il dolore, peccato che fu per brevi attimi.

Qualcosa mi colpii alla testa e precipitai nuovamente nell'oblio.

  
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