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Autore: Kanako91    08/07/2015    7 recensioni
Durante i festeggiamenti per il ritorno di Mablung e Beleg dalla Nirnaeth Arnoediad, Thranduil si ritrova a discutere con una giovane molto irritante, che si fa beffa delle sue idee sulla guerra e lo umilia davanti ai suoi amici, per poi sparire per anni.
Si rincontreranno dopo due rovine del Doriath, ma sarà la Guerra d'Ira a cambiare le idee di entrambi sulla guerra e su loro stessi.
[Precedente a Le spine della corona e leggibile separatamente]
Genere: Guerra, Introspettivo, Romantico | Stato: completa
Tipo di coppia: Het | Personaggi: Nuovo personaggio, Thranduil
Note: Missing Moments | Avvertimenti: nessuno
Capitoli:
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- Questa storia fa parte della serie 'Frammenti di una Vigorosa Primavera'
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Dialoghi sulla guerra



Dialogo III.




Thranduil aprì gli occhi su un viso familiare.

Non proprio familiare, ma era stato l’unico viso che aveva visto quando era stato ritrovato sul campo di battaglia. Era maschile, non aveva dubbi su questo, ma era strano. Gli occhi brillavano dall’interno, i capelli erano raccolti in trecce, con piccole sfere di legno e lacci di cuoio nel mezzo, legate poi dietro la nuca in una coda. Quel che lo rendeva più strano era la statura: era seduto, ma Thranduil non aveva dubbi che, se si fosse messo in piedi, sarebbe arrivato con lo stomaco alla testa del guaritore biondo e luminoso al suo fianco.

Come ti senti?, gli chiese una voce nella sua mente. Non era Sindarin, né suonava come la lingua dei Golodhrim, ma era comprensibile.

Thranduil sgranò gli occhi e lo strano uomo abbozzò un sorriso. «Sono io» disse, in un Sindarin stentato.

Il guaritore parlò in quella lingua e Thranduil lo guardò, con le sopracciglia aggrottate e gli occhi ridotti a fessure, nella speranza che capisse il suo fastidio. L’ultima cosa che voleva sentire era la lingua di chi aveva massacrato Dior Eluchíl e troncato la rinascita del Doriath.

Lo strano uomo guardò il guaritore, che si zittì.

Thranduil sorrise, piano. Aveva la sensazione di non aver usato quei muscoli per delle ere.

«Mi sento senza forze, ma bene». Era vivo, era integro, quello voleva dire star bene. «Grazie».

Il guaritore rivolse uno sguardo allo strano uomo, con le sopracciglia inarcate, ma non parlò e di questo Thranduil gli fu grato.

«Sono contento» disse lo strano uomo, in quel suo Sindarin dall’accento bizzarro quanto lui.

Sondando quegli occhi luminosi, Thranduil capì chi doveva avere davanti. Erano solo un ricordo lontano, legato più ai racconti e al suono del corno da caccia di Araw sui Monti Azzurri. Doveva avere davanti proprio uno dei suoi cacciatori, come avrebbe dovuto suggerirgli subito la luce nel suo sguardo e l’acconciatura.

Era al cospetto di uno dei servitori delle Potenze e non se n’era reso conto!

Thranduil abbassò lo sguardo sulle mani.

Qualcuno ti aspetta?, chiese la voce del Cacciatore, nella sua mente.

Thranduil annuì. I suoi genitori avrebbero voluto sapere che era ancora vivo e... Arodel. Chissà se era arrivata nelle foreste dei Laegrim, se viveva nella stessa comunità di Oropher e Himeleth. Chissà se avevano tutti lasciato perdere la speranza che lui tornasse.

Li rivedrai, non temere, disse il Cacciatore e Thranduil risollevò lo sguardo per trovare compassione nei suoi occhi.

«Quanti sono morti, dei miei compagni?» chiese Thranduil. Quando era caduto, si era reso conto che le cose stavano andando male, molto male per loro e aveva dato per scontato che presto si sarebbero ritrovati tutti nelle Aule d’Attesa.

I sopravvissuti sono una dozzina, disse il Cacciatore, e qualcuno potrebbe non riprendersi mai.

Thranduil chiuse gli occhi. Pochi, pochissimi. Una piccola parte dei giovani sopravvissuti alle rovine del Doriath e dei veterani che volevano ancora combattere per il regno. Tra i tanti, perché era sopravvissuto proprio lui?

Oh, aveva avuto ragione Arodel. In quel momento, Thranduil avrebbe potuto giurare di sentire i lamenti delle famiglie dei giovani morti e, per quelli che non avevano più una famiglia, il ricongiungimento nelle Aule d’Attesa sarebbe stato altrettanto triste. Avrebbero avuto tutta la vita davanti e si erano lanciati, tutti insieme, in quella follia.

Thranduil ricordava con precisione quando tutto aveva iniziato ad andare storto. Avevano creduto di aver a che fare solo con degli Orchi e si erano ritrovati attaccati da Uomini Scuri e, infine, un drago. Non era stato grande, ma aveva mietuto vittime come se fosse stato Glaurung. Thranduil si era ritrovato a terra prima di essere colpito dalle fiamme e i corpi dei compagni caduti lo avevano protetto. Avrebbe voluto ricordarli tutti, ma faceva male pensare anche solo agli amici che dovevano essere morti, ricordare i nomi degli altri compagni era oltre le sue capacità.

Il Cacciatore gli cantò qualcosa di cui Thranduil non capì le parole. Però capiva il suo intento e si lasciò cullare da quel canto sconosciuto, fino a dimenticare i dolori e ricordare solo quel primo e ultimo bacio che aveva dato ad Arodel.



Appena riuscì a mettersi in piedi, Thranduil lasciò il lettino e camminò tra le altre brande, nel tentativo di riconoscere qualcuno dei suoi amici. Ma vide molti Goelydh, di quelli giunti all’Ovest secoli prima, e molti di quegli edhil biondi e luminosi che Thranduil non aveva mai visto. Le loro chiome ricordavano quelle dei figli di Finarfin, gli unici Goelydh che Thingol chiamava Ódhil e che aveva benvenuto nel suo regno.

Dovevano essere i membri della Prima Tribù. Avrebbe voluto dirlo ai suoi genitori, loro dovevano ricordarli!

Tra i Goelydh feriti, Thranduil riconobbe alcuni Iathrim, ma erano poco più che conoscenze. Salutò quelli di loro che erano svegli, si informò sulla loro salute e proseguì. Alcuni dormivano, altri erano mutilati, e infine Thranduil trovò qualcuno che conosceva e gli era caro.

Rivorn.

Si avvicinò al lettino e Rivorn aprì un occhio. Aveva una grossa bruciatura sul lato destro del viso, che l’aveva lasciato senza sopracciglia, e gli mancava la gamba dallo stesso lato, dal ginocchio in giù, e aveva il braccio destro fasciato, da cui proveniva un forte odore di erbe.

«Thranduil» sussurrò Rivorn.

Thranduil gli sorrise e gli prese la mano. I capelli, di cui Rivorn era stato tanto orgoglioso, erano ridotti a chiazze cortissime sulla testa, con varie bruciature leggere, mentre sulla destra della garza copriva la bruciatura che proseguiva dalla guancia. L’orecchio doveva essere là sotto, in chissà quale stato.

Rivorn si lasciò sfuggire un singhiozzo.

«Sei vivo» disse Thranduil.

«Vorrei essere morto» disse Rivorn, con un fil di voce. «Sto pregando il Padre di Tutto perché mi liberi da questa prigione. Non potevo morire, come Maenir? Non mi hanno neppure detto in che condizioni fosse, ma doveva essere messo male quanto me ed è morto».

«Rivorn–» iniziò Thranduil, ma si trovò a corto di parole. Cosa poteva dirgli per consolarlo? Che era meglio vivere in quello stato che languire nelle Aule d’Attesa? Era un’idea ridicola e non avrebbe potuto mai insultare Rivorn dicendogli cose in cui non credeva lui per primo.

E Rivorn pianse, il petto squassato dai singhiozzi, e gli raccontò come avesse preso il fuoco di lato e come i vestiti si fossero bruciati sulla destra, l’armatura bollente e quasi fusa e come, una volta caduto a terra, il drago gli fosse passato con la zampa sulla gamba. Thranduil sedette ai piedi del letto, vicino all’unica gamba rimasta, senza lasciargli mai la mano.

«Perché pensavamo che andare a combattere fosse una così grandiosa idea, Thranduil? Come potevamo pensare che fosse una buona idea combattere per un regno che non esiste più da anni?» gli chiese Rivorn e Thranduil poté quasi sentire le parole di Arodel echeggiare.

E ora stai andando a combattere per un regno che non esiste e che non esisterà più. Moriresti per la gloria passata.

Thranduil non si era ancora convinto di aver fatto la scelta sbagliata, nonostante durante uno dei risvegli dalla febbre avesse dato ad Arodel tutte le ragioni del mondo. E sarebbe andato comunque a chiederle perdono, in ginocchio e strisciando ai suoi piedi, per essersi preso gioco delle sue preoccupazioni e delle sue idee. Ma lui sapeva di aver fatto la cosa migliore che avesse mai potuto fare. Se fosse rimasto tra i Laegrim mentre a Nord si combatteva, sarebbe impazzito.

Però, vedendo Rivorn e pensando a tutti coloro che erano morti credendo di riportare la gloria del Doriath sul campo di battaglia, Thranduil si chiese per la prima volta se non ci fosse stato un altro modo. Un momento più giusto per intervenire. Una via che risparmiasse tutte quelle vite.

Non pensava che la guerra fosse solo dolore, quello mai. Ma ora si rendeva conto che non era qualcosa a cui correre incontro a braccia aperte, o da invocare prima di qualsiasi altra soluzione. Forse era questo che aveva cercato di dirgli Arodel, con i suoi discorsi negativi?

«Nessuno mi riesce a parlare, i guaritori parlano quella lingua maledetta e i Cacciatori ti entrano nella testa e ti parlano quando non vorresti» disse Rivorn e strinse l’occhio, arrossato e gonfio. «Voglio tornare a casa, non voglio più combattere. Voglio andare lontano da queste terre e tutto il male che quei Golodhrim hanno portato. Cosa c’è a Est? Cosa c’è, Thranduil?»

Thranduil non sapeva cosa ci fosse a Est. Dai racconti della Grande Marcia che aveva sentito e dalle parole di sua madre, nulla di meglio del Beleriand. E i Laegrim avevano racconti altrettanto tremendi di quelle terre e compiangevano gli altri di loro che avevano scelto di rimanere lungo il Grande Fiume e le foreste delle Terre Selvagge.

Ma non era quello che Rivorn voleva sentire.

«C’è la terra dei nostri avi, a Est. Ci sono le Acque del Risveglio, col loro dolce suono, e il cielo stellato sulle nostre teste, ovunque si guardi. Ci sono grandi praterie, piene del suono dei grilli, e foreste che si espandono, antiche e verdi, lungo le pendici delle Montagne Rosse».

Rivorn sorrise. Aveva smesso di piangere.

«Voglio andarci. Magari troverò qualche mio cugino».

«Di sicuro» disse Thranduil, con un sorriso. «E strada facendo, potresti fermarti a prendere un po’ di vino, di quello che piaceva al nostro re».

Al che Rivorn rise. «Un gran buon vino quello. Vorrei averne un bicchiere ora, invece di quegli intrugli che mi dà quella donna insopportabile». Rivorn rivolse lo sguardo alla guaritrice pochi letti più in là, intenta a riposizionare un osso del braccio di un ferito Golodhrim, che urlava e si dimenava, mentre un’altra guaritrice lo teneva fermo dall’altra parte.

Un Cacciatore corse al letto e premette un braccio sul petto del ferito e con l’altro bloccò le gambe. Lo schiocco dell’osso fu udibile fino a dove si trovavano Thranduil e Rivorn.

«Lo ha fatto anche a me, sai? Alla spalla. Solo che avevo la pelle del braccio bruciata e ogni volta che mi metteva le mani addosso era come se avesse i palmi coperti di aghi». Rivorn storse la bocca in una smorfia. «E ha un’espressione così fredda e distante, che ti chiedi se veda una persona o solo un insieme di carne e ossa».

Thranduil strinse la mano di Rivorn e gli sorrise. «Vivi e dimostrale che sei una persona».

Rivorn grugnì, ma Thranduil era speranzoso. Il suo umore era cambiato da quando lo aveva trovato, per quanto fosse più cupo di quanto lo fosse prima della battaglia. Ma c’era speranza.

Thranduil restò con Rivorn ancora un paio di ore, finché non gli portarono il pasto, e tornò al suo letto sentendosi più in forze di prima.

Il giorno dopo, una Cacciatrice lo avvisò che Rivorn era morto.



Il mare era più vicino di quanto Thranduil lo ricordasse. Aveva divorato la parte Nord della Taur-im-Duinath, che presto avrebbe dovuto cambiare il suo nome, se le acque fossero avanzate ancora. C’erano porti nuovi, costruiti alla veloce per ormeggiare delle grandi navi bianche, con teste di cigno alla prua. Erano splendide e brillavano come stelle alla luce pallida del sole, appena velato da nubi.

I marinai erano tutti Teleri e Thranduil avrebbe voluto sapere se tra loro c’era qualche cugino o zio da parte di sua madre. Sarebbe stata una bella storia da raccontarle. Una delle poche.

Thranduil era stato l’unico a lasciare la tenda dei guaritori, degli altri Iathrim sopravvissuti una parte era morta per le ferite e il dolore, un’altra era ancora a letto e impossibilitata a muoversi. L’Esercito dell’Ovest si era incamminato di nuovo e aveva portato con sé gli altri feriti, ma non ne aveva voluto sapere di accogliere tra le sue fila i soldati della Terra di Mezzo.

Torna alla tua famiglia, di’ loro di spostarsi lontano dal mare, gli aveva detto il primo Cacciatore ad avergli parlato, quando Thranduil si era lamentato della cosa. Non per lui, in realtà. Lui voleva andarsene da lì, da quel fetore di morte, carne bruciata, sangue ed erbe medicinali. Ma aveva sentito altri che volevano restare, i Goelydh sopravvissuti alle prime battaglie e che volevano ricongiungersi ai Golodhrim venuti da oltre il Belegaer.

Così Thranduil si era incamminato verso Sud, lui e un piccolo gruppo guidato da uno della Gente di Ivon, e ora si trovava sul pontile, da cui i Teleri non scesero mai. Si sentiva un estraneo, fuori posto, in questo porto che non aveva mai visto e popolato da gente così diversa da quella a cui era abituato. Anche i Teleri, che avevano fatto parte del Terzo Clan come lui e gli altri Sindar, erano diversi. Avevano una luce che Thranduil percepiva al limitare della sua visione e che non riusciva a vedere se ci si soffermava.

Un ordine urlato dal capitano della sua nave e Thranduil si riscosse. Anche la loro lingua era diversa, non troppo, ma il necessario da non rendere le parole subito chiare al primo ascolto.

Thranduil si ritrasse dal parapetto, schivò i marinai che si affrettavano di qua e di là per preparare la nave alla partenza, e scese sottocoperta, dove gli era stata mostrata una piccola cabina in cui avrebbe potuto sedersi e passare il viaggio in tranquillità.

Non sarebbe stato un lungo viaggio, glielo aveva assicurato il capitano, scandendo piano le parole. Ma Thranduil non sapeva cosa fare sopraccoperta, era inutile e sarebbe stato solo d’impiccio.

Vai a sposare quella fanciulla a cui pensi tanto, gli aveva anche detto il Cacciatore, con un sorriso intenerito.

Thranduil non aveva risposto a quelle parole, ma, mentre si stendeva sull’amaca della cabina, trovò quell’idea troppo allentate. Chissà se lei avrebbe voluto per marito uno sciocco che andava in guerra senza pensarci due volte.

Sperava di sì. Perché di qualcosa era certo: la pace era l’assenza di pericoli e la guerra doveva essere l’ultima risorsa. E voleva condividere quella realizzazione con lei e renderla realtà, almeno nel loro piccolo mondo.



I boschi dell’Ossiriand sembravano fuori dal mondo: non erano stati per nulla toccati da quel che stava succedendo più a Nord. Thranduil avrebbe potuto quasi dimenticare le foreste morte e vuote che aveva visto durante il viaggio.

Ma quella guerra era un ricordo troppo fresco e doloroso per potersene liberare così presto.

Thranduil si addentrò nel bosco, la sacca che gli avevano recuperato i Cacciatori che batteva contro la schiena a ogni passo. Non aveva più la sua armatura, era stata troppo danneggiata e la Gente di Oli era sembrata felice del dono. Non aveva più la lancia, era finita da qualche parte nel campo di battaglia e non era stata più recuperata. Aveva solo la sua spada. E non l’avrebbe voluta con sé.

I Laegrim dovevano essere già scattati in allerta al suo ingresso nel bosco e Thranduil assunse l’aria più innocua di cui fu capace, per evitare un attacco.

Un ellon, vestito di verde come le fronde degli alberi, gli tagliò la strada e un altro gli sfilò la spada dal fodero.

Thranduil sollevò una mano e portò l’altra al petto, e rivolse un cenno del capo al Laegel davanti a lui.

«Sono Thranduil, figlio di Oropher, e sono tornato–». Inspirò. Poteva dirlo, non c’era nulla di strano.

«Ben tornato, Thranduil, figlio di Oropher» disse l’ellon. «Al tuo passaggio, gli alberi cantano dei compagni che hai perso e della morte che si espande nel Nord».

Thranduil annuì e l’ellon che teneva la sua spada tra le mani gli si affiancò.

«Sono arrivati eserciti dall’Ovest, oltre il mare» disse Thranduil. «E sono vivo perché i miei compagni sono morti».

«Così come noi siamo vivi perché il nostro re è morto» disse l’ellon. Non aveva ancora abbassato il cappuccio e, per quanto ne sapeva Thranduil, non l’avrebbe mai fatto davanti a lui. «Ora comprendi anche tu perché ci siamo ritirati nella foresta».

Thranduil chiuse gli occhi. Oh, avrebbe voluto ridere. Suo padre era più in confidenza con i Laegrim di quanto lui se ne fosse mai reso conto. E dire che un tempo anche Oropher aveva trovato i loro timori e le loro usanze troppo selvatiche e poco ragionevoli, spaventati e non davvero leali a Thingol, e ora parlava con i Laegrim di questioni riguardanti la sua famiglia.

«Ora lo comprendo» disse, con un cenno del capo, ed era vero. Pensavano che preservare le vite per cui Denethor era morto fosse il modo migliore per rendergli onore e, se prima Thranduil l’aveva vista come codardia, adesso aveva cambiato del tutto idea. Era una scelta difficile e per nulla dettata dalla paura, solo dal dolore.

E Thranduil ormai capiva quel dolore.

La spada tornò nel fodero con un rumore metallico e l’ellon davanti a lui si spostò di lato.

«Puoi proseguire, Thranduil figlio di Oropher».

Thranduil si rimise in cammino, annunciato dal canto del tordo, e quel richiamo lo accompagnò nella foresta. Nessun Laegrim lo disturbò, finché non colse i segni delle abitazioni sugli alberi e i primi segni sul suolo che lì ci viveva qualcuno. Sapeva dove trovare la casa dei suoi genitori. Non lo aveva dimenticato nemmeno per un secondo.

Un tordo levò il suo canto e Thranduil si fermò.

«Thranduil?»

Lui si girò nella direzione della voce e Oropher scese gli ultimi pioli della scala di fune e lo raggiunse in cinque ampie falcate. Thranduil ebbe giusto il tempo per sfilare la sacca e gettare a terra la spada, che Oropher lo strinse in un abbraccio.

«Sei tutto intero».

«Ho avuto un buon insegnante».

Oropher emise un verso nasale. «Ho scelto bene» disse, un tremito era appena nascosto in quelle parole.

Thranduil strinse suo padre. Era strano abbracciarlo, quando l’ultima volta che lo aveva fatto era stato ai tempi della prima rovina del Doriath. Quella volta era stato un abbraccio di conforto che aveva coinvolto anche Himeleth, come se Oropher avesse cercato di consolare Thranduil per la morte del loro re, mentre in realtà era lui ad averne bisogno.

Questo era un abbraccio affettuoso e Thranduil sentiva di non averne scambiato uno con suo padre da quando era stato un bambino. Non ne aveva cercati altri, una volta diventato adulto, forse per timore di perdere quella maturità che credeva di avere.

Ora, però, non si sentiva tornato bambino. La stretta delle braccia di Oropher era un ritorno a casa. Anche se magari non gli era stato tutto perdonato.

«Devi raccontarmi cos’è successo» disse Oropher. Sciolse l’abbraccio e gli prese il viso tra le mani, per guardarlo negli occhi, i pollici che gli sfioravano gli zigomi come per accertarsi che lui fosse davvero lì.

Sì, era davvero tornato a casa. E Thranduil avrebbe voluto piangere, ma non aveva lacrime. Non avrebbe mai creduto di vedere un’espressione simile sul volto di suo padre e si rese conto di essere stato troppo ingiusto con lui.

Non gli si era opposto per mancanza di fiducia in lui, gli si era opposto perché temeva il mondo in cui vivevano e voleva preservarlo fino alla fine. Thranduil smise di vedersi come un figlio per un attimo e provò a pensare cosa avrebbe fatto lui al posto di Oropher. Con ogni probabilità, non sarebbe stato molto diverso da lui.

«Non sono sicuro di poter dire che non lo rifarei» disse Thranduil e puntò lo sguardo sulla spilla al colletto del padre. Di quello era certo. Avrebbe dovuto ripetere quell’esperienza, per arrivare a capire cosa avevano cercato di digli suo padre e Arodel.

Oropher scosse il capo. «So che rifaremmo tutto come questa volta, ma non importa» disse. «Sono giunte voci, del mare che sta divorando le terre che erano nostre, di un grande esercito dal Reame Benedetto, della terra che trema e di montagne che crollano».

Thranduil annuì. Non aveva avuto modo di vedere tutto ciò, ma uscito dalla tenda il paesaggio era stato diverso da come, un tempo, aveva conosciuto quelle terre. Gli erano rimaste impresse nella sua memoria di bambino, quando ancora la Cintura non era stata posta a difesa del Doriath e i Golodhrim non erano arrivati, ma ora non c’era più nulla di tutto ciò. Consumato dal Morgoth e da chi combatteva contro di lui, il Beleriand era cambiato, era irriconoscibile. E Thranduil non trovava la forza di rimpiangere quel che il mare stava divorando.

Meglio che le praterie, i colli e le foreste dei suoi ricordi restassero verdi e vivi come lo erano nella sua mente. Non avrebbe voluto vedere il Beleriand ridotto a un deserto dalla guerra. Meglio che finisse tutto sotto le acque di Ulu.

Senza preavviso, Himeleth giunse alle sue spalle e lo abbracciò.

«È tornata la nostra primavera» mormorò sua madre, la testa sulle spalle di Thranduil. Lui si girò per ricambiare l’abbraccio e, ora che c’era anche lei, poteva raccontare tutto.



Thranduil ci impiegò giorni ad avere notizie di Arodel e Tirdegil e scoprì che erano anche loro nell’Ossiriand, solo molto più a Nord rispetto ai suoi genitori. Così, partì per andare a trovarli, fingendo di non vedere le occhiate divertite che si lanciarono Oropher e Himeleth.

Il villaggio che gli era stato indicato non aveva solo case sugli alberi, ma anche a terra e una palizzata a delimitare il perimetro del centro abitato. Per quanto gli bastò sollevare lo sguardo appena fuori dal villaggio per notare che gli alberi fuori dalle mura di legno avrebbero potuto nascondere case e punti di vedetta senza problemi.

Ai Laegrim che gli vennero incontro, Thranduil si presentò e disse di cercare mastro Tirdegil e loro non diedero alcun segno di riconoscere il nome.

«Hastor mi ha detto di averlo visto in questo villaggio» aggiunse. Nominare un membro della cerchia stretta di Denethor avrebbe dovuto funzionare come lascia passare, anche se non era stato proprio lui a dargli questa informazione.

Allora i due Laegrim si guardarono l’un l’altro e quello a destra parlò: «Gli chiederemo se vuole incontrarti».

Thranduil avrebbe voluto sbuffare e sollevare gli occhi al cielo, ma si limitò ad annuire, mantenendo il viso più immobile possibile.

Poco dopo, una delle guardie tornò a prenderlo e lo accompagnò alla casa di Tirdegil, che era una di quelle a terra, da cui sentì provenire suoni e colpi che Thranduil non seppe identificare. Fu quando entrò nella casa di Tirdegil, che si accorse di avere a che fare con botteghe. E Tirdegil era lì come scrivano, con libri e fogli sul tavolo in fondo alla stanza.

In quel momento, però, c’era un gruppo di sei bambini Laegrim seduto a terra davanti a Tirdegil, i nasi all’insù per ascoltarlo leggere, seduto al bordo della scrivania. Thranduil si fermò sulla soglia e sbatté le palpebre.

«Ma Idril fu turbata da quelle parole» stava leggendo Tirdegil, «e, da quel giorno, guardò sempre il cugino con sospetto».

Tirdegil sollevò lo sguardo dal libro e si raddrizzò con un balzo e un sorriso. «Thranduil!»

I bambini girarono la testa di scatto verso di lui e Thranduil si ritrovò puntato da sei paia di occhi, poco contenti dell’interruzione.

«È tornato il nostro eroe dalla guerra» disse Tirdegil, lasciando il volume sulla scrivania.

Thranduil abbozzò un sorriso e sollevò una mano. «Credo che i bambini vogliano sentire il seguito della storia».

«Dobbiamo sapere cosa farà Maeglin!» disse uno di loro.

«È la prima volta che sentiamo questa storia» disse un altro.

«Non è vero» intervenne una bambina, «nel villaggio di Tatharon è arrivato un signore che dice di venire da Gondolin e ha raccontato una storia simile a mia zia».

«Se l’hai già sentita, perché non te ne vai?»

I bambini si persero in quella discussione e Tirdegil li aggirò e raggiunse Thranduil.

«Vuoi che parliamo dopo con calma?»

Thranduil annuì. «Sarebbe meglio» disse. «C’è Arodel?»

Tirdegil sorrise. «Sali l’albero alle spalle di questo studio».

Una scala di corda pendeva lungo il tronco e Thranduil la risalì, contento di non essersi portato dietro alcun bagaglio. Non che avesse intenzione di restare.

Per nulla.

Raggiunti i primi rami, Thranduil emerse dall’apertura di una piattaforma di legno e si guardò intorno. Questa era una casa e non una piattaforma di vedetta, così tra i rami c’erano delle coperte piegate, un tavolino con un libro, una cesta di rametti intrecciati da cui spuntavano rocchetti e stoffa spiegazzata.

Un fruscio alla sua destra attirò la sua attenzione e allora Thranduil la vide emergere da un paravento. Arodel era vestiva di verde, con gli abiti pratici dei Laegrim, e la sua solita treccia avvolta intorno alla testa.

«Arodel» sussurrò Thranduil.

Se per un attimo Arodel era sembrata spenta, smise di esserlo appena incontrò il suo sguardo: sgranò gli occhi e mosse un passo verso di lui, ma Thranduil fu più veloce e, davanti a lei, fece per piegare un ginocchio e la testa.

«Temo di doverti–».

Con un mormorio molto simile a un “idiota”, due braccia si strinsero intorno alle sue spalle e gli impedirono di inginocchiarsi davanti a lei. «Sei vivo» disse Arodel e affondò il viso tra i suoi capelli.

Thranduil crollò in ginocchio e lei con lui, e la strinse a sé, premendo il viso nella sua spalla. Era vera e viva tra le sue braccia, non un sogno della febbre o un ricordo pieno di nostalgia e rimpianto. Era viva e lo stava stritolando, strappandogli il fiato.

«Sì, sono vivo» disse Thranduil e la voce gli suonò spezzata.

Arodel rise o pianse, lui non avrebbe mai saputo dirlo.



Un dito gli tracciò il profilo, dall’attaccatura dei capelli alla punta del naso, sfiorò la pelle sopra le labbra e scese ancora. Thranduil serrò i denti, piano, intorno al dito e Arodel trattenne una risata.

Thranduil aprì un occhio e poi l’altro.

«Hai detto che dovevo riposare e lo stavo facendo».

Arodel inarcò le sopracciglia. «Hai dormito un giorno intero, direi che è sufficiente».

Thranduil corrugò la fronte e scrutò il cielo tra le foglie, ma la luce era molto simile a quella di quando si era addormentato in quella radura lontano dal villaggio. «Saranno passate poche ore».

Arodel si distese sulla coperta, un braccio piegato sotto la testa. «Proprio così».

Thranduil le lanciò un’occhiataccia, senza essere davvero indispettito dalla cosa. Si girò di lato e si sorprese, ancora una volta da quand’era tornato, di come Arodel sembrasse tranquilla. La tensione che le aveva visto in viso quella volta nella Taur-im-Duinath era svanita e ora il sorriso aleggiava sulle labbra, pronto a emergere alla prima scusa, ma non ancora pronto a raggiungere gli occhi.

«Sono offeso» le disse. «Non mi hai mai lasciato finire quel che volevo dirti quando sono tornato».

«So già cosa mi vuoi dire e non voglio sentirlo. Perché non hai tutti i torti». Arodel chiuse gli occhi e Thranduil si strinse una mano nell’altra, per resistere alla tentazione di sfiorarle il viso e increspare quella visione, come un riflesso nell’acqua di un lago.

«Ho sbagliato a credere che la guerra avrebbe risolto tutto. Non credo valga la pena di tutte quelle morti per un po’ di pace» le disse Thranduil.

«Ma non è sempre sbagliato combattere. Spesso combattere vuol dire proteggere vite, al prezzo di altre, ma se qualcuno è disposto a fare questo sacrificio, chi sono io per chiamarlo stupido?»

«Sei saggia».

Arodel aprì gli occhi. «No, non lo sono. Non riesco ad accettare che qualcuno faccia qualcosa che io ritengo stupido».

Thranduil sospirò. «Allora siamo in due».

Arodel sogghignò. «Ma non avevo dubbi che tu fossi un idiota» gli disse e Thranduil strinse gli occhi. «Sono sorpresa di scoprire che lo sono anch’io».

Thranduil non resistette più. La prese per un fianco e la tirò contro di sé, strappandole un risolino. Era così bello vederla così viva.

«Siamo due idioti e la cosa, strano a dirsi, mi consola» continuò Arodel, posandogli una mano sul petto.

Thranduil sorrise e sfiorò il naso di lei col suo. Arodel chiuse di nuovo gli occhi e sorrise appena.

«Credo di capire i tuoi timori» le disse. «Nemmeno io voglio perdere i miei cari ed è per questo che voglio combattere e voglio che si combatta. Morire, sapendo che le persone a cui tengo sono salve, sarebbe meglio di morire fuggendo dai pericoli».

Arodel sospirò. «Lo so e trovo ammirevole la passione con cui sei disposto a sacrificarti per tutto e tutti. Tu non hai bisogno della certezza di una buona riuscita per gettarti tra i tuoi cari e il pericolo.

«Vorrei avere anch’io tale coraggio, vorrei essere così spericolata.

«Ma, nel limite delle mie possibilità, anch’io farei qualsiasi cosa perché nessuno debba soffrire o morire in guerra. La risposta alla guerra non è altra guerra, non può esserlo. Ci sono altre vie prima delle armi e bisogna percorrerle tutte e, quando mi stancherò di percorrerle, è perché non ci sarà più la speranza».

Thranduil scrutò il viso di lei, le palpebre abbassate e le ciglia scure sulla pelle pallida. Non aveva bisogno di rivolgergli lo sguardo per fargli capire cosa voleva dire, né per convincerlo.

«Una donna saggia mi ha fatto una domanda, una volta» le disse e Arodel lo guardò. «E vorrei il tuo parere».

Lei sollevò appena gli angoli della bocca all’insù. «Abbiamo appurato che io non sono saggia».

Thranduil ridacchiò. «Sono arrivato a una risposta persino io, tu ci arriverai prima di me».

Arodel emise un verso nasale e gli tirò una pacca sul petto. «Qual era questa domanda?»

Thranduil inspirò.

«La pace è lo spazio tra due guerre o l’assenza di pericoli?»

Non ci fu un attimo di esitazione nella risposta di Arodel: «È l’assenza di pericoli».






Nota dell'autrice


E così, è finita anche questa breve avventura nel passato di Thranduil.
Se non altro, si capisce ancora meglio perché ho postato prima Sulla soglia della notte e poi questa, oltre al cameo di Thranduil che bene o male è stato notato da chi doveva notarlo, eh eh eh.

Prima di tutto, vorrei augurare tanti auguri a Tyel! Ancora auguri, tesoro, e buona torta LOL

Poi, volevo annunciare che prenderò una pausa dal postaggio da oggi fino a settembre. Avrei voluto dirlo prima in privato a chi di voi conosce i miei piani futuri, ma è una decisione che ho preso stasera, guardando a quello che mi aspetta nei prossimi mesi e quello che devo ancora scrivere e, soprattutto, agli impegni di Chià – perché sarà “solo” la mia beta, ma ci tengo ad averla on board e senza di lei e il suo supporto non avrei abbastanza sicurezza in me stessa e nei miei scritti da postare.
Ovviamente, continuerò a scrivere come una dannata e a settembre tornerò con una storia sul Silmarillion (che ho sventolato sotto il naso di quelle anime pie che sanno chi sono), solo per posticiparla sempre più. Non temete, non desisto! È solo che mi preoccupa e ci tengo troppo per rovinare tutto con la fretta.

Intanto, ne approfitto per un po’ di

SHAMELESS PROMOTION:
nella pagina della sezione “Il Signore degli Anelli e altri”, in alto a destra, c’è una bellissima scritta “Aggiungi Personaggi” (cliccate pure sul nome, ho messo il link). Troverete una lista di personaggi da votare per aggiungerli alla lista e far felici tanti fanwriter: ecco, se volete votarli tutti, fareste un grande favore al fandom. Io, in particolare, sarei felicissima se Eönwë, Eöl (per questo anche melianar) e gli Elfi ricevessero tanti bei voti (dai, Curufin e Celegoooorm! e Idril dove la mettiamo? ed Elwing?), ma siete liberi di votare per il bene del fandom e non il mio.
Eccetto per Frerin che è già nella lista approvata ed è pure la versione accentata, ossia il top. Lui è un doppione. Sciò. Il doppione è via, ma ricordo che Frerin è già in lista e nella versione corretta dal punto di vista ortografico. Di certo non ho nulla in contrario al fratello di Thorin in lista, dato che è anche presente in tante storie. Più personaggi ci sono, meglio è!
(ho detto che era shameless, sorry not sorry)

Infine, le consuete note:

  • nei Racconti Incompiuti, si dice che i flet sono tipici dei Silvani di Lorien, che all’inizio erano per lo più luoghi di vedetta e riposo per le guardie e che, probabilmente ispirato da Nimrodel, Amroth abbia iniziato la tradizione di usarli come abitazione permanente. Ora, visto che i Silvani del Lorien altri non sono che discendenti dei Nandor e dubito che Nimrodel abbia inventato nulla (sorry, Nim, ma lo saprai tu meglio di me), ho dato per scontato che i Nandor utilizzassero delle piattaforme/case sugli alberi, antenate dei flet, per due semplici motivi:
    1) il Rhovanion era bello pericoloso ed è per questo che i Nandor sono migrati, in parte, verso il Beleriand. La domanda che sorge a questo punto è: come si difendevano dai pericoli? Ho pensato che i pericoli fossero per lo più a terra e, quando i pericoli sono a terra, uno va a dormire sugli alberi;
    2) mi sembra il modo migliore per un popolo schivo e “sulla difensiva”, portato ad attacchi sorpresa e di guerriglia, di vivere. Poi magari mi sono persa le informazioni certe sulle loro abitazioni e mi scuso, ma quella che ho fatto mi sembrava la scelta più logica e naturale.
  • fa di nuovo capolino il valarin e la mia concezione di come funzioni: sappiamo che gli Elfi (gli Amanyar, più che altro) la trovano fastidiosa da sentire, il che mi ha portato a chiedermi se oltre a sentirla, in qualche modo, la capissero. Anche perché, quando Oromë trova gli Elfi non credo abbia parlato loro in Primitive Quendian? Okay, dà loro il nome Eldar, nella loro lingua, ma lo avrà fatto dopo averla imparata, direi.
    Da qui ho pensato due cose:
    1) così come ho accennato in Sulla soglia, la lingua parlata è comprensibile quando viene usata con l’intento di essere capita, anche se chi ascolta non conosce il valarin. Quindi, il canto che fa calmare Thranduil non è altro che un utilizzo del valarin “vocale”, direi;
    2) usata telepaticamente, è comprensibile perché ti trasmette quello che vuol dire, non le parole in sé.
    Poi, è canon che gli Ainur preferissero non usare il valarin se non tra loro, perché alle orecchie delicate degli Elfi, il suono non era proprio il top e per gli Ainur era più facile imparare le lingue degli altri, che insegnare la loro.
    Certo che andarmi a impelagare in lingue divine è roba da masochisti, ma mi piace fantasticarci su, eh eh!
  • non ricordo bene la fonte, ma mi pare che abbiamo la traduzione Sindarin di Arafinwë, senza che lui abbia messo piede nella Terra di Mezzo come Esiliato, perché i suoi figlioli erano identificati dai Sindar come parte della “casa di Finarfin”? Magari me lo sono sognato e ho tratto le mie conclusioni, ma spero di no! Qualcuno mi aiuti, perché non ricordo neppure dove recuperare una simile informazione!
  • la regione del Dorwinion è in una regine che esisteva già, anche ai tempi del Mare Interno di Helcar. Se non erro, alcuni uomini della tribù che si stava muovendo verso Ovest, aveva aggirato Helcar e si era insediato in questa regione che sa tanto del Dorwinion. E il vino viene citato anche nel lai dei Figli di Hurin, con tanto di riferimento a Thingol. Perciò, mi sembrava giusto inserirne un riferimento! (e poi mi diverte un mondo l’abbinamento Elfi e vino, quindi…)
  • credo di shippare Rivorn e la “donna insopportabile”. Chissà, quando uscirà dalle Aule di Mandos, potrebbe pure trovarla ancora single.

Concludo qui, prima che ne note superino in lunghezza la storia.
Ringrazio chi ha letto e recensito (echadwen, feanoriel, leila91, thranduil_heat) e in particolare melianar e tyelemmaiwe per il supporto con i nomi e Chià per aver betato e sopportato le mie riscritture in preda al panico!

Visti i commenti arretrati che ho OVUNQUE, penso che ci sentiremo comunque, ma in qualsiasi caso la mia casella dei messaggi è lì, per chi volesse contattarmi.

Ci vediamo a settembre con altre storie!

Kan

   
 
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