Le sensazioni di un visconte
Hearts may get broken
Love endures
Hearts
may get broken
Love
endures
Love
never dies
Love
will continue
Love
keeps on beating
When
you're gone
(“Love never dies”, Andrew Lloyd Webber)
Si porta un sorso di
liquore alla bocca in un gesto che ormai gli appartiene. È abituale
per Raoul ingollarne un po', anche quando non ne ha espressamente
voglia. Lo fa e basta, con la stessa naturalezza con cui Christine
canta, con la stessa casualità con cui suo figlio Gustave si siede
al pianoforte e dà vita alle note ben vergate sul primo spartito che
riesca a trovare.
Gustave.
Il nome gli aleggia nella
mente, lasciandogli una sensazione che Raoul non sa spiegare. È come
se gli sfuggisse qualcosa, qualcosa di molto ovvio che gli dà
un'emicrania così poco piacevole da farlo arrabbiare con il mondo
intero, suo figlio compreso – suo figlio in particolare.
Il visconte chiude gli
occhi per scacciare la spiacevole immagine che gli viene riproposta
dai ricordi, ma è troppo tardi perché una misera oscurità fittizia
lo faccia tornare con i pensieri al suo bicchiere quasi vuoto:
ricorda ancora la prima volta in cui la sua mano picchiò la guancia
del piccolo Gustave senza motivo. O meglio, il bambino aveva
disobbedito, si era allontanato da sua madre senza preavviso, ed
andava sgridato, certo. Lo credeva con estrema convinzione, ma aveva
dubitato del suo metodo punitivo non appena l'aveva messo in atto.
Gli sembra di rivedere lì, di fronte a sé, nel riflesso del lucido
candelabro sul camino, il volto di sua moglie sconvolto dalla
delusione, dalla paura che quella mano calasse di nuovo sulla gota
delicata del piccolo, dalla collera per non essere riuscita a
fermarlo... Se ne era pentito subito, all'epoca; quando avvertì il
formicolio d'irritazione sulla pelle già sarebbe tornato indietro
nel tempo, se ce ne fosse stata l'occasione.
Quella stessa mano si
stringe attorno al vetro freddo del bicchiere, mentre gli occhi di
Raoul vagano per la stanza ad incontrare la figurina minuta e timida
del bimbo, intento a studiare per l'ennesima volta lo strumento
musicale. È un attimo e Gustave già esegue le prime misure di una
partitura che lo stesso visconte non ricorda di possedere.
L'uomo non fa in tempo a
cogliere appieno il movimento furtivo del collo di Christine che
scatta verso il prodigio di dieci anni, ma si lascia confondere dalle
dolci note del piano.
Qualcosa gli
sfugge.
-
Phantasma.
«È
una specie di scherzo?»
Ne ha sentite tante di
cose strane, il visconte, ma un nome come quello associato ad un
parco divertimenti è... insolito, molto insolito, più di
tanti altri nomi captati nei suoi anni di esistenza. È lì da cinque
minuti per seguire quello che dovrebbe essere l'unico mezzo per
risollevare le sorti economiche della famiglia De Chagny e già ne è
pienamente stanco.
Phantasma, ripete
tra sé mentre si avvicina la carrozza nera, macabra al solo
guardarsi, anche senza la presenza di quei tre saltimbanchi che
avanzano con lei avvinghiati al parapetto dell'abitacolo.
«È oltraggioso!»
Non solo ha appena subito
le beffe di sciocchi e rozzi americani che non comprendono la
differenza tra un soprano qualunque e sua moglie,- stolti idioti!
–, ma ora deve accettare di essere scortato dalla vettura di Mr.
Y. L'affare non lo convince, nemmeno un po', ma deve farlo per il
bene di tutta la famiglia. Lo farebbe con molta più tranquillità se
non ci fosse quella fitta allo stomaco che non comprende, che non
riesce a vedere chiaramente e che, ne è sicuro, mai capirà fino in
fondo.
Phantasma.
«È inaccettabile! Ne
risponderete di fronte al vostro capo, chiunque egli sia!»
Anche Christine sembra
insospettita dal quel particolare, ma, lo sa, non se ne sta
preoccupando più di tanto. Sua moglie è così, poco sospettosa,
dolce, a volte ingenua, fiduciosa. Evidentemente, il suo è uno
stupore bonario, il sorriso di chi ammira la fantasia altrui. Se così
non fosse, non sarebbe più la sua Christine. In un certo senso, è
lieto di vederla avvicinarsi cautamente alla carrozza per scrutarla
con interesse, mentre i tre strani individui fanno pubblicità ai
loro spettacoli. Conosce bene la sua fascinazione per il macabro,
Raoul. Sa che, anche se la donna l'ha sempre negato, non è
totalmente immune alle atmosfere romantiche dalle quali l'ha salvata.
Non se ne cura, perciò, perché sa che non avrebbe senso.
Quello che, infatti, lo
sconvolge è suo figlio.
Phantasma.
È ipnotizzato da quel
mezzo di trasporto senza cavalli. Diamine, non ha i cavalli!
Ma non fa in tempo ad aggrottare la fronte che Gustave si è già
issato all'interno senza nemmeno l'aiuto di sua madre, anch'ella
lievemente sorpresa di vederlo così irruente.
Ha ripreso da sua
madre, osserva il visconte con una nota d'amarezza. Più lo
guarda, più non trova se stesso in quegli occhioni vispi, in quei
capelli arruffati, in quella passione per la musica che lui non ha
mai avuto. Gustave è una piccola Christine al maschile, una dolce
Lotte in giacca e pantaloni.
Phantasma, pensa
di nuovo prima di assecondare i capricci di madre e figlio a causa
dello scroscio d'acqua che si sta impegnando a rovinare i suoi piani,
il suo umore, la sua permanenza a Cony Island. Sale in carrozza per
ripararsi dalla pioggia battente giusto in tempo per sentire il
piccolo marmocchio che, con aria trasognata, parla più a se stesso
che agli astanti: «Sto sognando. È tutto come ho sempre sognato!»
salta in piedi, facendo traballare appena la struttura. «I mostri,
il divertimento, il mistero!»
Raoul non si trattiene:
brusco, afferra il braccio del bambino e lo riporta a sedere,
zittendo ulteriori repliche con un'occhiata che non lascia spazio a
dubbi.
Con rammarico, osserva
che Christine ha mutato espressione: da dolce e fiera di Gustave, è
diventata di colpo triste e incollerita con suo marito.
Si abbandona sullo
schienale di pelle, chiudendo gli occhi e ripetendosi quella parola
che non lo aiuta a far luce sulla situazione.
Phantasma.
-
Non lo sopporta più.
Quel dannato suono stridulo, quelle note troppo acute che solo il
soprano del secolo può sfiorare, quel bambino che non fa che suonare
quell'aria. Non sopporta più niente.
«Padre, venite a vedere
questo giocattolo...»
Raoul sa con chiarezza
che Gustave non vuole irritarlo, sa che ha scelto di condividere con
lui – lui che non lo risparmia dal suo temperamento – la
felicità di un momento, ma non può continuare a soffrire anche
quella melodia insolita che si ripete in quell'affare da circo.
«Christine, per favore,
digli che la risposta è no!» ringhia, sperando di vedersi obbedito,
ma la donna non lo ascolta neppure: guarda il gioco con un misto di
tenerezza e compassione, non degna lui di uno sguardo.
«Non litighiamo, ti
prego» la sente mormorare con voce lievemente incrinata. Ciò non
gli impedisce di avvertirne la bellezza che, tutto sommato, ha ancora
un potere minimo su di lui.
«Questa città è un
disastro» sentenzia. Quindi oltrepassa il bambino, noncurante dello
sguardo afflitto di Gustave, e afferra il cappotto con malcelato
disappunto. «Devo uscire»
Non ascolta affatto sua
moglie che lo implora di non bere più: se non può capire suo figlio
dopo dieci anni, tutto ciò che gli resta è sapere a memoria la
strada per il pub.
Obiettivo riuscito.
-
Non c'è limite al
peggio. Raoul lo sperimenta giorno per giorno, ora per ora, minuto
per minuto. Lo conferma con estrema certezza quando, tra le ragazze
del balletto, nota qualcosa che lo spaventa, ma non sa perché: Meg
Giry.
No.
E invece sì: Meg Giry
sta parlando con Christine, o meglio, sta stritolando sua moglie in
un abbraccio di felicità. Care vecchie amiche che si incontrano di
nuovo.
Che strana
coincidenza, pensa, prima di andare a sbattere contro qualcuno
nel camminare all'indietro.
«Tu!» esclama senza
riuscire a contenersi nel riconoscere la figura arcigna di Madame
Giry. Se Meg è cambiata, è diventata donna, una bella giovane donna
degna del suo ruolo, Madame Giry è rimasta la stessa donna altera e
vagamente negativa che ricordava all'Opera di Parigi.
L'Opera di Parigi...
«Non potete essere voi!»
è l'urlo sconvolto di Giry, che lo guarda come se avesse visto un
fantasma.
«È uno scherzo?» Raoul
nota con disappunto che è la seconda volta in cui si trova a dire
tali parole.
«Com'è possibile?»
L'uomo sospira
spazientito: ha davvero intenzione di continuare a fare domande senza
arrivare ad una santa conclusione?
«Siamo qui per lavoro»
si costringe a rispondere, giusto per non sembrare troppo scortese.
«Per conto di chi?»
«Ho qui il contratto...»
«Voglio vederlo!»
Questo lo colpisce. Ha
sempre captato dell'irriverenza in quella donna, ma mai avrebbe
creduto di vederla così... terrorizzata. Nemmeno durante gli eventi
di Parigi l'aveva vista così. Tuttavia, seguendo una sensazione, le
allunga le carte.
«Mio Dio, il prezzo!»
non si trattiene l'austera Madame.
«È alquanto alto»
«Perché? È assurdo!»
Ma che le importa?,
eppure si ritrova ad annuire e commentare, con aria infastidita: «Oh
sì, lo so. E informate il vostro capo che più tempo passa, più la
quota sale, oppure ce ne andiamo»
E poi la vede,
quell'espressione più sconvolta di prima ma improvvisamente conscia
della situazione: che Madame Giry abbia colto ciò che a lui è
sfuggito per giorni interi – o dovrebbe dire anni?
«Oh, mio caro amico, è
chiaro, dunque. State tranquillo: chi deve pagare il conto... Potete
esserne certo, lo farà»
«E profumatamente»
C'è qualcosa di strano
in quella sua voce, qualcosa che lo mette sulla difensiva tanto da
farlo sembrare più arrogante di quanto sia già.
«Oh, certo... Va tutto a
meraviglia... A parte il fatto che prima di andarvene dovrete
attendervi i capricci del mio capo»
O ha deciso di essere
molto criptica, o Raoul è davvero poco intelligente. Si sforza di
mostrarsi almeno tranquillo nel domandare: «Ah, giusto, il vostro
capo. E... chi è?»
Per esperienza, sa che
chi sospira prima di dare una risposta non ne è per niente
sollevato. Certo non poteva prevedere che quelle brevi parole
potessero raggiungerlo come l'onta di uno schiaffo, ma si maledice
ugualmente per non averci pensato prima.
«È lui»
«Lui?!»
inorridisce all'istante. Non aveva bisogno di pronunciare quella
domanda superflua. Non ha bisogno di sentirsi dire chi sia. Non ha
bisogno che Madame Giry aggiunga altro sull'identità di quel lui
pronunciato con tanta semplicità da lasciarlo di stucco. Lui
basta per metterlo in allarme. Basta per fargli rivedere quel volto
deforme, macabro, orrido, distorto e malato quanto la mente del suo
proprietario. Basta per farlo impallidire al ricordo di Christine –
la sua Christine – che cadeva preda dell'ipnosi di quel
mostro. Basta per fargli capire che non è al sicuro e che non lo era
mai stato.
«Lavorate per lui?»
riesce a chiedere, ritrovando un briciolo di autocontrollo e, insieme
ad esso, la rabbia più pura.
«Da adesso anche voi»
Dritta al punto, come
sempre.
«E la mia povera
moglie... Lo credevamo morto! Dio, sarà sgomenta!» ansima,
deglutendo a vuoto. Quindi, un dubbio lo coglie all'improvviso, ma ad
esternarlo non è che Madame.
«A meno che lo sappia
già»
Questo è troppo. Non si
cura nemmeno di scusarsi con l'unica donna che sembra essere stata
sincera con lui – sa che ha già capito: si allontana
immediatamente da lei e, interrompendo beatamente la conversazione
tra Meg e sua moglie, afferra Christine con una forza tale da
lasciare anche lui interdetto – non ha mai toccato sua moglie,
Gustave sì, ma sua moglie no.
«Tesoro, che succede?
Tutto a posto?» chiede il soprano, guardandolo apprensiva e
cominciando ad avvertire la stretta poderosa intorno al braccio.
«Quella musica... Chi è?
Chi è il compositore? Dimmelo. Adesso»
La vede spalancare gli
occhi e rabbrividire sotto il suo tocco e non può credere che lo
stia facendo davvero.
Sa.
Sapeva.
Non gliel'ha detto.
«Tesoro, non stringermi
così forte» soffia, supplice. Ma Raoul è troppo impegnato a farsi
accecare dalla rabbia per accorgersene.
«Sta succedendo qualcosa
qui, Christine. Mi occuperò di te più tardi, non temere», ma
Christine lo teme, con tutta se stessa.
Si stacca da lei come per
scacciare qualcosa di estremamente sgradevole dalla sua vista.
No, sta sognando. È un
incubo. Non sta accadendo davvero. È solo frutto della sua
immaginazione.
Christine, la sua
Christine!
Ma quanto è veramente
sua? Perché gli ha mentito? Perché non gli ha detto di lui?
Perché?
Per sbaglio, urta Meg che
lo guarda in cagnesco. Ha la netta sensazione che non sia in collera
per il gesto sbadato.
«Perché siamo qui?» le
chiede, furioso. Se possibile, ciò che esce dalla bocca della
ragazza lo avvilisce ancora di più.
«Non fare l'ingenuo»
ringhia, infatti, la vecchia piccola Meg, l'odio negli occhi e nella
voce.
Non gli interessa di
capire, non lei, non ora che ha aggiunto un pezzo mancante alla mappa
del problema.
Sente senza ascoltare
davvero la voce di Christine che parla con qualcuno, probabilmente le
Giry, ma ormai vuole solo odiare tutto e tutti.
«Buona giornata, Madame»
abbaia, scoccando a sua moglie uno sguardo eloquente, la quale non
osa replicare niente, non davanti alle due donne. Si limita a
salutare entrambe, ma qualcosa la frena all'improvviso: «Gustave.
Gustave!»
Il bambino non c'è –
che novità!
«Dobbiamo sempre trovare
questo ragazzino? Ti giuro, donna, che non appena l'avrò trovato-»
«No!»
Raoul sente disperazione
in quella sillaba. Guarda il soprano con una sorta di amore rancoroso
nel cuore, ma tace.
«Lo cercherò io» e la
segue con lo sguardo mentre si allontana da lui – anche
fisicamente.
Ma la sua mente è
altrove, pur collegata a lei: non riesce a pensare ad altro se non ad
una consapevolezza schiacciante di cui non sarebbe mai voluto venire
a conoscenza.
Il Fantasma dell'Opera
è qui.
-
Non è rientrato nella
loro suite. È rimasto fuori una notte intera. Ha dormito – se così
può essere definito svegliarsi con regolarità spaventosa ogni volta
in cui quella faccia distorta gli si insinuava nelle immagini confuse
e sfocate dei sogni – con la faccia premuta sul bancone lucido del
pub. Ha provato a distrarsi, a dare un senso a quegli eventi, a
giustificare Christine di fronte a quella bugia che ora gli brucia il
cuore e l'anima ancor più di quando l'ha appresa.
La verità è che non ci
è riuscito. Raoul è profondamente convinto che non ci riuscirà
mai, ed è questo il motivo per cui continua a chiedere un drink che
tarda ad arrivare – a ragione, lo direbbe anche lui se non fosse
per la sua mente già completamente annebbiata dall'alcol che gli fa
biascicare parole lasciate a metà in un percorso mentale che solo
lui può osservare nella sua completezza.
Soltanto nelle ultime due
ore di lucidità ha ammesso nella sua mente anche altri oggetti su
cui concentrare l'attenzione, al di fuori del Fantasma redivivo che,
nella sua fervida fantasia, aveva continuato a stringere a sé
Christine in un abbraccio di mortale passione per tutta la notte. Una
domanda continua ad aleggiare su di lui come a condannarlo per
sempre. Non si rende conto che chiedersi per quale ragione Christine
lo ami, in realtà, la discolpa quasi del tutto.
Le ha dato dolore, non le
ha mai offerto la sua piena sincerità. Non le ha nemmeno mai mentito
con intenzioni crudeli, ma non è mai stata troppo spontanea una sua
eventuale confessione. Non le ha mai regalato un bacio che non fosse
stato richiesto. L'ha amata – la ama – ma è come se Christine
non lo sapesse. Eppure, gli è rimasta accanto, rendendolo felice
come poteva. Aveva persino avanzato la proposta di tornare indietro,
di cercare quei soldi per riparare le finanze familiari in altro modo
pur di non vederlo così adirato con lei, ma soprattutto con il
bambino. Sua moglie lo aveva messo al di sopra della sua passione,
della sua voce, della sua musica – della musica del Fantasma.
Raoul la tiene in gabbia, è questa la realtà. Christine è il suo
uccellino, il suo usignolo da proteggere allontanandolo dal mondo dei
pericoli, segregandolo tra sbarre di imposizioni sociali e sue manie
di controllo. Ma Christine gli resta al fianco, non lo abbandona, e
lo ama a modo suo.
Anch'egli la ama, certo,
ma in quel bicchiere vuoto che reclama di essere riempito vede solo
un uomo che non sa dare abbastanza. Vede un uomo che non è più
quello che era, che non è più un marito e un padre, e che sta
perdendo ciò che ama di più al mondo per i suoi stupidi capricci.
Serra gli occhi
trattenendo una lacrima troppo amara perché abbia il coraggio di
farla scivolare via, ma con le orecchie avverte un suono ovattato
dall'ebbrezza provenire dalla sua sinistra. Non c'è bisogno che
confermi con la vista che quella che è appena entrata da non sa dove
sia Meg Giry: la sua voce squillante e affrettata, affannosa forse,
chiede un caffè bollente e nero prima di rischiare il congelamento.
Allora la guarda
incuriosito: indossa un accappatoio che le sta grande ma che, è
evidente, la sta scaldando e asciugando con velocità. Se lo strofina
addosso, per niente imbarazzata dalla presenza di Raoul che la
scruta, anzi, ricambia l'occhiata con cipiglio compassionevole.
«Mia madre aveva detto
che vi avrei trovato qui» spezza il silenzio, accompagnando le
parole con un ghigno. Ora scommettono anche su dove sia andato a
finire. È caduto in basso, molto in basso.
«Sapete dove siete?»
continua, imperterrita, facendosi avanti.
«All'Inferno, immagino»
dice il visconte, rendendosi conto con un attimo di ritardo di quanto
sia roca la sua voce. Per forza all'Inferno: i morti stanno lì, no?
«Qui intorno la chiamano
la sala del suicidio» precisa lei come se avesse appena detto
una cosa usuale. «Ci vengono per farla finita quando non sanno dove
altro andare. I disperati... Il posto perfetto per scendere già al
molo e scomparire tranquillamente»
«Sembrate essere
un'abituale» scherza senza nemmeno rendersene conto.
«Io?» sembra piccata.
«Io vengo qui per nuotare»
L'affermazione è in
grado di destare la curiosità dell'uomo come il liquore tanto
desiderato. La fissa accusandola implicitamente di essere pazza.
Probabile che sia questa muta colpa di cui viene tacciata che la
spinge ad essere più chiara. «Questa città è troppo fredda,
caotica, mediocre... Non è facile mantenere la coscienza pulita,
qui... Rimanere anonimi tra la folla. È permesso di tutto. E così
vengo qui all'alba ogni giorno, vengo a lavare via tutto, a sguazzare
nel mare e gli permetto di purificarmi»
Raoul è sempre più
curioso: non avrebbe mai detto che Meg Giry, la bambina che aveva
paura del Fantasma dell'Opera, come se fosse stato il Diavolo in
persona a minacciare la loro esistenza, avesse dei problemi, dei
segreti da lasciare dietro di sé, del dolore da cancellare. Eppure
eccola lì, a confessare ad un uomo ubriaco che non va tutto bene
come sembra.
«Non sareste mai dovuto
venire in America» sentenzia la ragazza, strappandolo dalle sue
considerazioni. «Non è posto per gente come voi e Christine. È
facile dimenticare chi si è e a dove si appartiene. È per questo
che mia madre dice che dovreste andarvene. Ora. Prendete vostra
moglie e il bambino e andate»
Cosa? Che c'entra?
«Andarcene? E che dire
di stasera? Il concerto, i soldi! Dovrei andarmene solo per lui?»
Lui. Ha tralasciato quel
lui per qualche minuto, ma è destinato a trovarselo davanti
agli occhi nei momenti più inaspettati. Reprime uno sbuffo d'ira e
sente senza attenzione.
«Quando il sole sorgerà
domattina potremo ricominciare, puliti. Salpa, dimenticati di
noi, fuggi, fai in modo di diventare cieco e lasciati questo posto
alle spalle»
Raoul non nota nemmeno
l'assente forma di cortesia: è troppo impegnato a capire cosa abbia
voluto dire la piccola Meg perché il suo cervello possa elaborare
più d'un pensiero per volta.
Prima che la figura
minuta sparisca dalla sua vista, decide di dover urlare quello che
spera con tutto se stesso che sia vero. Si alza dallo sgabello,
barcollando verso la porta e sbraitando:
«Miss Giry! Io non ho
paura di lui! Ho avuto la meglio! E se mai avesse il coraggio di
incontrarmi faccia a faccia, da uomo a uomo-»
Quando si volta, ciò che
vede gli gela il sangue nelle vene. Al di là del bancone, a
soppesarlo con lo sguardo come un avvoltoio, ci sono due occhi
parzialmente nascosti da una maschera bianca, eterea, pura, in un
certo senso. Occhi di demonio, ma pur sempre occhi.
«No, no, non può
essere!» esclama, immobile, mentre prova a battere le palpebre per
allontanare un incubo, una fallace illusione della sua mente
inebetita. Le rialza e il Fantasma è ancora lì.
«No» è un sussurro,
stavolta, mentre non riesce a non pensare che non sia cambiato più
di tanto, nonostante i dieci anni di distanza dall'ultimo incontro.
In effetti, non sa quanto un mostro possa cambiare nell'aspetto.
«Non hai paura di me,
dici?»
In un breve,
impercettibile istante, Raoul capisce cosa provasse Christine di
fronte al suono della sua voce. È derisoria, lo capisce, ma non può
reprimere il brivido d'ansia che gli rizza i capelli sulla nuca.
Avverte una distinta sensazione di freddo intorno al collo quando lo
vede muoversi, spostarsi, strisciare felpato al di fuori del bancone,
senza smettere quel ghigno orrido che sembra averlo ipnotizzato.
«Stai indietro o ti
uccido, lo giuro!» strilla, girando attorno ad uno sgabello per
evitare di farlo cadere a terra. Ma il Fantasma non l'ha nemmeno
sentito.
«Certo,» parla, e ora
il suo tono melodioso ha una sfumatura micidiale, «come hai detto,
mi hai battuto allora; ma era tanto tempo fa, visconte, e
stavamo giocando una partita differente. Guardati: pieno di debiti,
ubriaco fradicio – Raoul è sicuro che, se non ci fosse quella
stupida maschera a coprire il volto maciullato, vedrebbe il naso
dell'interlocutore arricciarsi in maniera disgustata –, pietoso...»
«E tu?» ringhia,
afferrando il legno pur di non mollare un pugno su quella faccia già
distorta. «Sbagliato come il peccato, orrendo, orribile!»
Il Fantasma ride di
gusto, come ad invitarlo a fare di meglio. Quante volte si sarà
sentito dire quelle parole dritte in volto? Ricorda tristemente la
storia di quel criminale, quella stessa storia che Madame Giry aveva
rivelato a lui e lui soltanto per amore di Christine. La storia che
l'aveva convinto ad intervenire pesantemente, e che non avrebbe mai
scordato...
Il flusso dei pensieri si
interrompe quando dalla figura rigorosamente vestita di nero proviene
una frase che Raoul ha difficoltà ad interpretare.
«Che ne dici di una
scommessa?»
Inarca un sopracciglio a
cercare un segno di beffa sul volto del Fantasma, ritrovandosi a
preferirla al posto di un'aperta dichiarazione di guerra. Ma non c'è
mutamento in lui.
«Qual è la posta in
gioco?»
«La nostra Christine»
Nostra.
«Non è tua»
«Infatti, sceglierà
questa sera a chi appartenere»
Se possibile, il ghigno è
diventato più malefico di prima. Se possibile, Raoul è ancor più
accecato dall'ira.
«Dove vuoi arrivare?»
«È molto semplice, in
verità, visconte. Se canta, perdi...»
«Io non perderò»
«... e te ne vai,
sparisci»
Non pensa più, il
visconte. Esegue gli ordini dell'istinto senza poterli controllare.
«Bene. E se non canta?
Se vinco?»
Il Fantasma si stringe
nelle spalle, noncurante. «Considera tutti i tuoi debiti saldati»
Ciò che lo innervosisce
di più è l'atteggiamento arrogante che continua a manifestare come
se gli fosse legittimo. La maschera che continua a dargli l'idea che
ci sia tutto e niente al di sotto. La sicurezza di vincere, di avere
già in pugno Christine – perché?
Se aveva provato a
mantenere una minima quantità di autocontrollo in sua presenza, la
proposta dei soldi è troppo allettante perché Raoul non allunghi
una mano aperta in direzione di quel bastardo, non lo sfidi con lo
sguardo e con la mente e non dica, con voce finalmente ferma: «Molto
bene. Cominciamo e che vinca il migliore!»
«Che vinca il migliore»
e in un tocco gelido il Fantasma stringe quel palmo, indugiando in
quel contatto, quasi nostalgico. Di nuovo, il visconte e il mostro
sono schierati l'uno contro l'altro, stesso prezzo – Christine
–, ma regole diverse.
«Ho già vinto in
passato, te l'ho già portata via» sibila Raoul, aumentando la presa
sulla pelle scheletrica dell'altro. «Lo farò ancora, oggi. Pensi di
avere una possibilità, certo, ma non è così. Posso scommetterci
qualsiasi cosa, anche raddoppiarla...»
«Potrei prenderti sul
serio»
«... perché tu
perderai»
Gli si fa più vicino,
intimidatorio, aggressivo, insicuro. «Abbiamo un figlio, una
garanzia, non trovi?»
Ma capisce subito di aver
detto qualcosa di sbagliato, qualcosa che non ha avuto l'effetto
desiderato, forse l'opposto: il Fantasma ride. «Ne sei sicuro?»
«C-Cosa?»
«Ne sei così sicuro? Un
tale bambino... Insolito, diverso... musicale...»
«Che vuoi dire?»
«Niente. Solo... e sii
sincero... Chi di noi due ritrovi più in lui?»
Raoul sente che se non
molla la morsa sul polso del Fantasma per appoggiarsi a qualcosa di
più saldo, concreto e sicuro, potrebbe scivolare a terra con la
testa che vortica e la vista appannata da qualcosa di molto più
profondo del dubbio.
«Tu menti...» soffia,
scattando all'indietro e sbattendo contro qualcosa che non ha voglia
di identificare: quella morsa allo stomaco, quell'insoddisfacente
sentore di non sapere chi sia suo figlio dopo dieci anni... Dieci
anni.
E se l'avesse
incontrato prima del matrimonio...?
No. Non poteva essere
vero.
«È un bluff!» ma nella
mente gli si presenta l'immagine di Gustave che suona al pianoforte
un'aria di cui non ha mai sentito nemmeno il nome – di cui il padre
non ricorda nemmeno l'esistenza. Rivede gli sguardi inusuali di sua
moglie. Ricorda le sue perplessità.
Sta giocando con me.
Non è vero.
«Stai mentendo...»
ansima, ma il Fantasma non sembra intenzionato a proseguire il
tracciato.
«Che vinca il migliore,
visconte! Fate del vostro meglio!»
L'ultimo suono che Raoul
ascolta prima di abbandonarsi contro la superficie liscia del bancone
è la risata agghiacciante del suo peggior nemico.
Che cosa ho fatto?
Si
copre il volto con le mani, schermandosi la vista nel timore di
vedere apparire di nuovo il Fantasma.
Christine.
Non
si torna indietro, lo sa.
Gustave.
Piange.
-
È
bellissimo. Finalmente, dopo tanto tempo, Raoul sembra l'uomo di
sempre, il giovane audace che ha sfidato il Fantasma nei sotterranei
dell'Opera, che ha rischiato la vita per la sua Christine, che l'ha
amata senza riserve. È bello, sicuro di sé mentre bussa alla porta
del camerino del soprano, la mano che gli trema come ad un ragazzino
alla prima cotta. Ha quasi paura di interrompere la quiete della
stanza, nella quale sente giocare allegre le voci delle persone che
più ama al mondo – una delle quali potrebbe non essere più sua di
lì a pochi minuti, l'altra forse non lo è mai stata.
È solo un bluff.
Sarebbe
bello crederlo anche di fronte a quella testolina paffuta e acuta,
così curiosa, bisognosa di affetto che lo guarda una volta entrato
come a domandarsi cosa voglia fare suo padre, se rivolgerglisi con
tono immeritatamente imperioso o se accarezzargli amorevolmente il
cuoio capelluto. Quel bimbo è rimasto dieci anni ad aspettare che
suo padre gli volesse bene, ha aspettato che lo mostrasse. Ha
aspettato il suo genitore come il Fantasma ha aspettato Christine.
Famiglia.
Si
costringe a focalizzarsi sulla situazione presente, allungando una
mano a sfiorare con timidezza la testa del piccolo, abbozzando quello
che a lui sembra un sorriso di scuse – come se un sorriso potesse
cancellare dieci anni di mancanze.
«Padre,
non sembra bellissima la mamma stasera?» chiede Gustave, e non
potrebbe porre domanda più appropriata: Christine è semplicemente
radiosa. Soltanto una volta l'ha vista così bella, soltanto quando
era entrato nel suo camerino senza troppe cerimonie, invitandola a
cena e ignorando quello che l'allora ingenua signorina Daaè chiamava
Angelo della Musica.
«Infatti
lo è» e Christine sembra leggergli nella mente il pensiero che ha
appena formulato.
«E
guardati, Raoul!» esclama, dunque, osservandolo ammirata. «Somigli
a quel bel ragazzo nel palco dell'Opera che era solito lasciarmi solo
una rosa rossa»
Ogni
ricordo di loro è legato a quel teatro, a quell'odiosa vicenda che è
tornata a farsi sentire come non più una semplice presenza
trascurabile, ma come un presente che non deve – non può,
non è giusto – diventare futuro.
«Gustave,
ti dispiace aspettare di fuori per un attimo?» domanda educatamente
a suo figlio – ma non è certo di poterlo chiamare tale.
«Posso
dare un'occhiata in giro? Da solo?»
«Sì,
tesoro» interviene sua madre, un pizzico di severità nella voce.
«Ma resta dietro le quinte e alla fine dello spettacolo torna qui»
«Va
bene»
Non
fa in tempo a sentire il bambino pronunciare quell'assenso che il
piccoletto è già sparito. Sorride, il visconte, si prende quel
breve momento di serenità prima di esternare il peso che gli grava
sullo stomaco da troppo tempo.
Lo
sguardo che rivolge a sua moglie è in grado di preoccupare anche
lei, ma non se ne cura troppo: sente di dover dire ciò che ha
intenzione di dire.
«Christine...»
esala, mentre la donna allunga una mano a sfiorargli il viso, in un
gesto compassionevole. Ma Raoul non ha bisogno di compassione, non
ora. «Da quando siamo sposati, le cose non vanno bene...»
«Raoul-»
«Non
provo orgoglio per come mi sono comportato...»
«Raoul,
entrambi abbiamo-» vorrebbe dire sbagliato, lo sa, ma l'uomo
avverte comunque una nauseante fitta all'addome, non riesce ad
eludere dalla mente che, ammessa la verità delle parole del
Fantasma, Christine l'ha tradito, l'ha tradito con un mostro, un
mostro che le ha dato un figlio.
Ma non è detto che
sia la verità.
«So
che non ho il diritto di chiedertelo, lo so... Ma c'è un'ultima cosa
che devo fare»
Il
soprano è atterrito, lo guarda come se temesse di vederlo cadere da
un momento all'altro, in preda ad uno svenimento dato dall'emozione.
«Qualsiasi cosa, caro»
«Se
mi ami davvero, se mi ami come ti amo io...» le prende la mano,
quella dolce mano calda e morbida che non lo accarezzava da troppo
tempo, «Non cantare stasera»
La
pelle della donna si irrigidisce di colpo mentre la padrona trasecola
come di fronte ad uno schiaffo. «Cosa? Ma, Raoul-»
«Ti
prego» La voce è più implorante di quanto sembrasse nella sua
mente. «C'è una cosa che devi assolutamente sapere... È tutto
sbagliato, amore mio! Quel-»
«Ma
devo farlo, caro!» Non sa, il visconte, se sul volto di Christine ci
sia più dolore che delusione. Ma alla fine si decide: sono l'orrore
e il risentimento a combattere su quei lineamenti, nient'altro. «È
quello che avevamo concordato» Sembra quasi una minaccia, un
ricatto, un colpo al cuore che Raoul non ha previsto.
«Quel
demone... Quella creatura infernale...» Non vorrebbe ringhiare, ma
lo fa. «Abbiamo giocato alle sue regole per tutto questo tempo,
Christine. Lo capisci?»
Sì,
Christine lo capisce, glielo legge negli occhi. Ma la donna che ha di
fronte non ha intenzione di negare niente. La donna che ha davanti sa
e non cede. Ha come l'impressione che non sia stata manipolata, che
sia felice di aver assecondato i piani di un folle, che non abbia
voglia di mollare ora. Questo è il colpo peggiore, quello che gli
spazza via ogni certezza, che gli suggerisce il trionfo della morte,
morte che ha il volto distorto di un Fantasma in carne ed ossa.
«Ascolta,
per favore» supplica il soprano, sfiorandogli il dorso della mano
con la sua. «Lascia che superi questo... Ne ho bisogno»
Il
respiro manca ad entrambi. Bisogno. Una fitta all'altezza
dello stomaco tormenta Raoul per un attimo, riportandogli alla mente
tutte le volte in cui il suo, di bisogno, è stato più forte
dell'amore per la sua sposa.
Egli
si domanda se una stilettata al cuore possa uccidere un uomo.
«È
vero, necessiti di tante cose...» ammette, e si fa male da solo.
«Tante cose che ti ho sempre negato...»
Vuole l'uomo che ero
un tempo, il marito gentile e premuroso che non sono più... E lo
sarei ancora, dannazione! Deve solo chiederlo, e lo sarò di nuovo.
«Se
mi ami ancora... Noi dobbiamo andarcene, Christine, ora!»
Le
dita della donna tremano contro le sue, ma non si ritraggono. Gli
occhi lo scrutano fervidamente, e Raoul sa che stanno cercando tracce
di menzogna, di scherno, ma non ne trovano: solo serietà, verità.
«Lo
stai dicendo davvero?» chiede in ogni caso, carezzandogli la guancia
in un gesto che sa di invito a riflettere di più. «Davvero?»
Annuisce
piano l'altro, nonostante lo sguardo allucinato di Christine gli
trafigga il petto. «Ho prenotato una traversata per tre
sull'Atlantic Queen. Parte tra un'ora, abbiamo appena il tempo
necessario... Ti prego... Per la nostra salvezza... Quella del
bambino»
Gustave.
L'ennesimo colpo al cuore.
«Ne sei così
sicuro?»
Christine
avvicina il suo viso, le lacrime agli occhi che premono per uscire ma
che riesce stoicamente a frenare.
«Un tale bambino...
Insolito, diverso....»
È un
bacio soffice, dolce, di quelli che non si erano concessi da molto
tempo. Raoul sa solo che non vorrebbe mai interrompere quel contatto,
almeno lo vorrebbe appieno se non lo sentisse disperato.
«... musicale!»
Mentre
spezza la magia, mentre si chiude la porta del camerino alle spalle,
il visconte non si chiede quando ha perso l'amore di sua moglie, ma
se l'abbia mai davvero avuto.
-
È un
dolore sordo quello che gli distrugge il cuore ad ogni pulsazione.
Raoul lo sente distinto ogni volta che si muove, che sospira, che
respira. Anche lo stomaco reagisce con lui, e sobbalza, si chiude, si
stringe e non gli lascia possibilità di scampo. Persino le orecchie
rombano, ronzano e riproducono note che scavano nelle già profonde
ferite della sua anima. È l'eco delle note che ha appena sentito, di
quelle note che ha odiato per tutto quel tempo pur senza conoscerle.
Eppure, ora che le ha ascoltate, ha gli occhi gonfi di lacrime –
lacrime che pizzicano e bussano con urgenza contro le palpebre
semichiuse: quasi si pente di averle chiesto di non cantarle.
C'è
odio e c'è amore nel suo intimo. Odia quel brano, e lo ama. Lo ama
perché una poesia d'amore non può che esercitare fascino su di lui.
Lo odia perché quelle parole dolci, appassionate, vere, sentite, non
sono state per lui.
L'Angelo
della musica, pensa, mentre una sensazione che non desiderava
provare si fa strada tra le pieghe della sua mente. Improvvisamente,
vorrebbe trovarsi di nuovo lì, ad un passo dal palcoscenico, da
Christine, a pendere dalle sue labbra che dànno vita a suoni
armoniosi e perfetti. Preferirebbe subire di nuovo, e mille volte
ancora, la tortura di vederla felice grazie ad un altro uomo –
anche se Raoul non è ancora certo di poterlo chiamare così.
Tornerebbe
volentieri indietro di qualche minuto, il tempo di percepire
distintamente il direttore che dà il segnale all'orchestra, pur di
non rimanere lì, nei corridoi intricati dei camerini, a percorrere
la strada in silenzio.
È
questo che lo uccide: il silenzio che gli permette di capire ogni suo
singolo spasmo, ogni sua singola imprecazione, ogni sua reazione del
corpo e della mente.
I
pensieri gli si affastellano senza che sia in grado di controllarli.
Tutti convergono in un punto ben preciso, al centro di quella spirale
di suoni, musica, frasi e gentili carezze di cui può captare solo un
vago ricordo sfumato: Christine.
Il
percorso che sta compiendo lo rimanda a qualcosa di ancora troppo
vivido, quasi ha paura a nominarlo tra sé. Quella rete di stanze,
vicoletti e porte sbarrate lo avvicina ancora una volta all'Opera di
Parigi. Gli sembra di aver già vissuto questo momento, solo con
qualche sfumatura diversa. Stava andando sempre da Christine – la
sua Christine –, una rosa in mano e il nomignolo Piccola
Lotte premuto sulle labbra per catturare l'attenzione di quella donna
che tanto l'aveva colpito. All'epoca sapeva che l'avrebbe trovata
nella sua stanza riservata, intenta a sciogliersi i capelli
dall'acconciatura elaborata.
Ora
qualcosa è cambiato: si dirige verso il camerino di una donna che
non gli appartiene più – che non gli è mai appartenuta –
con una rosa e una lettera spiegazzata dal tremito della mano, con la
consapevolezza che lei non sarà lì ad aspettare lui, ma che sarà
lontana, sul punto di terminare con armonia quel brano struggente e
sensazionale che una mano innamorata ha scritto per lei.
Allora
giungeva a corteggiarla, adesso esce dalla sua vita.
Entra
nella stanzetta, constatando che non vi è nessuno, che può agire
indisturbato.
Fa
solo qualche passo, le gambe che tremano e minacciano di non
sostenere il suo peso. Si protende teneramente sul tavolo da toeletta
di sua moglie, come se ella fosse lì, pronta ad accoglierlo con un
sorriso smagliante e fiero, femmineo e affettuoso. Per un attimo ha
l'illusione che possa davvero vederla, toccarla, sfiorarle ancora
quelle labbra con le sue, delicato, dolce, il visconte che tanto
tempo fa aveva ricevuto il sentimento devoto e gentile della donna
che non ha saputo amare a dovere.
Ma
Christine non c'è. Al suo posto, solo una nuvola molto indefinita
del suo profumo, e Raoul scopre che anche l'odore di sua moglie, ora,
gli fa male, lo lacera e lo annienta.
Un
altro, da adesso, riempirà il vuoto che è riuscito a creare nel
cuore di una fanciulla che chiedeva solo amore.
Raoul
ha scelto: pone con cura la rosa e la lettera – un regalo e una
benedizione – sul ripiano, accarezzando un'ultima volta la carta
bianca della missiva. Non ha la forza per rileggere quelle poche
righe che ha scritto in fretta, anticipando il pianto che gli avrebbe
annebbiato la vista. Sa che è stato sincero e schietto. Questo gli
basta.
Lancia
loro ancora uno sguardo urgente prima di conquistare la porta,
chiudersela alle spalle e imboccare la strada che lo porterà fuori
dal labirinto: al porto c'è una nave che lo aspetta.
FINE
Angolo
dell'autrice: Salve a tutti!
Pubblico
questa OS con grande emozione per due motivi: è la mia prima storia
nel fandom e sono molto contenta di averla scritta! Infatti, mi ha
dato l'opportunità di entrare nella psicologia di questo Raoul
completamente cambiato rispetto al primo musical. Scrivere di lui mi
ha permesso di capirlo un po' di più e di dare delle spiegazioni a
dei comportamenti che, a primo impatto, mi spiazzarono.
Ultima
cosina: la versione di riferimento è quella con l'OLC, quindi con
Ramin Karimloo, Sierra Bogges e Joseph Millson. Ho cercato di
raccontare la vicenda basandomi sulla loro interpretazione!
Detto
ciò, vi saluto, ovviamente non senza ringraziare chi vorrà passare
a leggere, chi vorrà lasciarmi un commento e chi, semplicemente,
aprirà la storia! :D
Un
bacione e alla prossima!
Julie_Julia