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Autore: ilaperla    10/07/2015    2 recensioni
Il destino. Questa parola così comune, ma di difficile significato. Cosa celerà dietro una vita tormentata?
Alyssa, passato e presente difficili. Ha paura di combattere, di uscirne perdente. Perchè sa, che qualsiasi cosa farà soccomberà in ogni caso.
Il destino ha completato il suo corso con lei? O uno scontro può dare inizio a qualcosa di diverso?
Genere: Malinconico, Romantico, Triste | Stato: completa
Tipo di coppia: Het | Personaggi: Liam Payne, Nuovo personaggio, Un po' tutti
Note: OOC | Avvertimenti: nessuno
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Si potrebbe contare da uno a dieci sulla punta delle dita delle mani, il compito sarebbe alquanto semplice ma cosa fare quando quei dieci numeri continuano imperterriti a non diminuire ma ingigantiscono quel tempo scandito, che sembra percorso all’infinito?
Non ho la risposta.
E cosa fare quando sai di dover abbandonare la tua vita, dire addio a tutte le persone che per te sono contate come quei dieci tocchi sulle dita?
Non ho la risposta nemmeno a questo.
O semplicemente non ho più la forza per cercare una risposta.
Ora capisco chi sostiene che un malato terminale si accorge di essere arrivato alla fine e stavolta non c’è nessuno stratagemma per farmi aggirare l’ostacolo. Non più.
La flebo accanto al mio letto scandisce imperterrita quel battito che scorre tra la vita e la morte. Sospeso come un angelo silenzioso che non ti abbandona mai, che veglia il tuo percorso.
Il silenzio è sovrano in questa camera e quasi riesco a sentire lo scorrere di quelle goccioline della bottiglia nella mia vena.
Non ricordo molto di quello che è successo, ricordo solo il mio stato di dormiveglia mentre mi trasportavano in ospedale, ricordo i colori sbiaditi e mescolati delle luci sul mio capo come un pittore maldestro che li ha mescolati sulla tela bianca.
Nuovamente.
Nuovamente quelle lucine mi accompagnavano nella mia corsa in terapia intensiva e nuovamente mi hanno dato il loro benvenuto, per l’ultima volta.
Il silenzio alle volte sa essere rumoroso, fastidioso e comatoso. Non questa volta, è come se mi stesse ascoltando, è come se io potessi parlare tranquillamente con il mio cuore e la mia anima. Tranquillità, è questo che mi dice il silenzio.
Probabilmente in quella flebo ci sono più sedativi che altro, credo di essere arrivata al momento in cui nessun farmaco faccia la differenza, credo che la tranquillità prima o poi mi avvolgerà e per la prima volta vorrei che facesse in fretta. Vorrei semplicemente far parte di queste parete bianche della stanza, vorrei far parte di quel sole in alto nel cielo, vorrei poter seguire una rondine nel cielo, vorrei saper volare. Non mi dispiacerebbe veder il mondo da un’altra prospettiva, far parte del tutto, senza dar fastidio. Non ho paura.
Ancora con gli occhi chiusi ascolto il tremolante parlare fuori la stanza, non riesco a comprendere quello che le voci dicono, semplicemente un sottofondo alla tranquillità e quasi mi da fastidio, quasi vorrei uscire e impartire di far silenzio, di non disturbare questo mio viaggio.
Ma il silenzio si affievolisce per un attimo facendo scattare il rumore della serratura della porta. È un attimo, uno squarcio alla tranquillità durato alcuni attimi, poi nuovamente il vuoto.
Un leggero scalpitio arriva fino al mio letto e poi nuovamente silenzio.
Vorrei aprire gli occhi e vedere chi mi sta affiancando ma le palpebre sono come incollate, infischiandosene della volontà ultima della persona di cui fanno parte.
La mia mano viene accarezzata da un’altra più soffice e più calda, più viva, mentre l’altra estranea mi accarezza i capelli per poi giungere alla guancia.
“Mi dispiace” sussurra una voce profonda e roca, come se avesse pianto per giorni e notti da sola.
“Mi dispiace così tanto” la voce di mio padre riesce a spezzarmi il povero e maltrattato cuore che silenzioso batte piano come se fosse un uccellino appena uscito dall’uovo.
“Non sono stato in grado di darti una vita migliore, una vita che avresti meritato. Ho cercato di combattere contro il destino, ho cercato di poterti dare quell’esistenza che tutti i ragazzi alla tua età dovrebbero avere, che tutti quanti hanno il diritto di avere. Alyssa sei stata la cosa più bella che mi sia capitata nella vita” la sua voce tremolante si spezza a un tratto e mio padre cade in ginocchio vicino al letto premendo la fronte sulla mia mano piangendo silenziosamente.
Come un richiamo lontano, la mia voce risuona in questa tranquillità fatta di singhiozzi e un pianto di un padre che ama con tutte le sue forze, la propria figlia.
“Papà” sibilo con una voce spettrale.
Lui alza di colpo il volto e cerca i cancellare quelle tracce di sofferenza che gli colano dagli occhi, senza lasciare la mia mano nemmeno per un attimo.
“Papà tu…” cerco di parlare ma mi manca il fiato e la gola brucia.
Il sondino attaccato al naso sibila e per un attimo sento che mi manca il respiro, ma devo farcela. Devo combattere quest’ultimo ostacolo. Poi tutto sarà finito.
Lui nega con la testa, accarezzandomi i capelli schiacciati sulla fronte.
“No Alyssa, non sforzarti”.
Con gli occhi lucidi nego e mi lascio accarezzare la guancia, mi ci appoggio sopra quella grande mano che fin da piccola mi ha aiutata a rialzarmi, a lottare, ad accompagnarmi nei giochi, ad aiutarmi a toccare il cielo con un dito sull’altalena al parco.
Chiudo gli occhi e una lacrima scivola via sulla guancia.
“Papà” sussurro riaprendo gli occhi e guardandolo dritto negli occhi.
So che questa volta è l’ultima, so che presto questi occhi non riusciranno più a guardare nient’altro.
“Tu” balbetto “tu sei stato la persona più importante della mia vita e non devi dispiacertene”.
Lui abbassa lo sguardo mortificato, per non far vedere la sua sofferenza.
Tremando, prendo la mia mano che ospita un ago che mi da ancora quella forza di agire, e stringo per quanto posso  la mia nella sua.
“Grazie. Grazie per essermi stato accanto” la vista si offusca ma non voglio mollare. Non ora.
“Grazie per averci provato”.
“Alyssa, io…”
“No papà” lo interrompo riprendendo da dove mi sono fermata “grazie perché sei stato il padre che mi ha capita. Grazie perché sei stato il mio papà”.
Scuote la testa e in un lampo mi stringe a se, piangendo nell’incavo del mio collo.
Piangiamo insieme, piangiamo perché la verità è che mancheremo come ossigeno l’uno all’altro. Perché una parte di noi presto morirà in questo letto.
Piangiamo perché il sipario sta calando silenziosamente su questa nostra esistenza.
“Ti voglio bene” sussurro chiudendo gli occhi e lasciando che quell’uomo mi culli, proprio come ha fatto diciannove anni fa sempre in questo posto. Alla nascita della mia esistenza.
 
Le goccioline della flebo segnano il tempo che passa.
In questo tempo delle vite sono venute al mondo, felici di vivere le loro esperienze, incuranti di tutti i problemi e incuranti di quanto meravigliosa possa essere questa esistenza.
Tante vite in questo tempo sono appese a un filo, chiedendosi quanto ancora dover sopportare la sofferenza, domandandosi quanto tempo ancora dovranno rimanere in bilico.
Il tempo. È questo così incerto e deleterio.
Che cosa effimera.
Non ci accorgiamo delle ore, dei giorni, mesi e anni che passano. Ma ci accorgiamo dei secondi quando qualcosa ci annoia, quando siamo infastiditi, quando qualcosa sta per terminare.
Mi sembra di aver chiuso gli occhi solo poco fa, ma un rumore di sedie mi fa aprire lentamente gli occhi.
Davanti a me c’è quella donna con il caschetto e i capelli color dell’oro.
Quella donna che non mi ha mai lasciato un messaggio, che semplicemente ha abbandonato la nave che stava affondando come un capitano impaurito.
Quella donna che è tornata con prepotenza, con devastazione, ma che sarà sempre mia madre.
Mi sorride.
E mi dispiace, mi dispiace non ricambiare perché di forza non ne ho più.
Sorride rigirandosi e ammirando la fede che ha ancora al dito. Come segno della sua fedeltà e devozione a un uomo che probabilmente amerà per sempre.
Sempre sorridendo, alza lo sguardo sul mio capezzale e inaspettatamente prende voce alla sua realtà.
“Lo amo ancora se tu te lo stessi chiedendo” esordisce per poi abbassare ancora una volta gli occhi sulla fede.
“Sono tornata perché ho visto le tue foto su di un giornale, insieme a quel cantante e per un attimo mi sono rivista io nel tuo sguardo. Avevo tue notizie da amici di famiglia, ma sapevo che qualcosa stesse per cambiare, mi sono documentata e ho trovato quella clinica in Svizzera che mi ha fatto sperare. Ma non avevo fatto i conti con la realtà, che era troppo tardi per tutto” una lacrima rotola sulla sua guancia e punta gli occhi luminosi sul soffitto.
“E’ tardi ormai per chiederti scusa Alyssa lo so, ma voglio che tu sappia che io non ti ho mai abbandonata perché non ti volevo. Sono scappata via dalla paura, dalla sensazione di oppressione, dalla finta sensazione che non ce l’avrei fatta”.
Ascolto e ringrazio che non mi faccia parlare, credo che non ne avrei la forza.
Sotto la mia pelle, quel sangue infetto scorre troppo velocemente e scoprire la realtà è più doloroso del previsto.
“La verità figlia mia, è che non ho passato giorno rimproverandomi di avervi abbandonato. Te e tuo padre, eravate la mia famiglia e non mi perdonerò mai di quello che ho fatto”.
Abbassa la testa e guarda quella fede troppo larga per le sue piccole dita.
Fa il giro del letto e mi viene accanto prendendomi la mano tra le sue gelate.
“Mamma” sussurro guardandola.
Perché la verità è che per quanto una persona ti abbia ferito, ti abbia fatto star male, se questa persona è la tua mamma, quella donna che volenti o nolenti ti ha dato la vita e per te sarà sempre quella figura idilliaca, non puoi fare altro di perdonarla.
Anche dopo una vita di abbandono.
Forse è la forza della morte. Il voler perdonare chi ci ha fatto del male, perché poi non ne avremo più una seconda possibilità.
“E’ così bello sentire questa parola da te” sussurra con la voce rotta.
“Non ti chiedo perdono Alyssa, perché so che non me lo merito. Ti chiedo di capirmi se tu puoi. Comprendi la paura, comprendi la voglia di scappare dagli errori e solo così troverò pace”.
Una nuova lacrima scivola via dai suoi occhi e io accarezzo quelle dita, proprio come succedeva tutte quelle sere sul divano a guardare la tv indisturbate sotto ad una coperta verde.
“Va tutto bene” sussurro.
Lei mi sorride e si china su di me lasciando un bacio sulla mia fronte.
“Sarai per sempre mia figlia Alyssa, questa è una certezza”.
Chiudo gli occhi e sorrido assaporando la sensazione di velluto delle sue labbra sulla mia pelle.
La mia mamma.
 
Il sole sta tramontando con i suoi mille colori e le sue mille sfumature che vanno dal rosso al rosa. Il rosso mi ricorda la mia stanza della musica.
Ricordo che quando iniziai a suonare il piano, mio padre volle adibire una camera della casa solo alla mia passione. Così un giorno ci trovammo, per puro caso, in un negozio di ferramenta ma alla fine lui aveva già architettato tutto.
Comperammo della pittura e delle grande mensole, il pomeriggio dopo mangiato andammo nella stanza e mi informò che quella sarebbe stata la mia stanza preferita. Non aveva tutti i torti.
Passammo il pomeriggio e la sera a pittare, a ridere e a sporcarci l’un l’altro come due bambini. Io lo ero bambina.
Il giorno dopo, quando tornai a casa dopo scuola, trovai mio padre fuori il porticato che mi sorrideva. Non disse nulla, mi afferrò per mano e mi condusse nella stanza che il giorno primo avevamo pitturato con tanto amore e con tanta allegria.
Aveva ragione.
Era stupenda. Era la mia preferita. Era la mia vita.
Da allora non è cambiato nulla lì dentro, nemmeno una frase alla parete, nemmeno un disco in vinile, al contrario man mano si sono andati sempre più ad aggiungere.
È sempre stata il mio nido, il mio punto di ritrovo. Mi ci chiudevo dentro dopo aver fatto la chemio, è quello che mi dava speranza durante quelle orribili sedute. Il pensiero di tornare a casa e di ascoltare un vinile che non avevo ancora scoperto.
La stanza della musica era me. Era e sarà sempre Alyssa.
Nella stanza entra un’infermiera che mi sorride e che cambia bottiglia alla flebo, vorrei tanto ringraziarla ma non ho più fiato, sento le palpebre pesanti e vorrei solo dormire.
Quando esce, poco dopo, sento bussare alla porta e invece di esortare a fare entrare chiunque sia lì fuori, chiudo gli occhi involontariamente.
 
Quando li apro, il tramonto è andato via e al suo posto ci sono due o tre stelle che brillano.
Avverto che la stanza non è più vuota e voltando la testa ci trovo i ragazzi con Eloise seduta sul letto mentre mi guarda fissa.
“Ciao” sussurro cercando di sorridere.
Ma ho l’impressione di aver fatto solo un’orribile smorfia, i miei amici non ricambiano.
Solo allora mi ricordo che i ragazzi non sono al completo.
Solo quando cerco i suoi occhi profondi tra loro, non li trovo e sento mancarmi un battito, cosa che mi fa affaticare con il respiro. Chiudo gli occhi e cerco di trovare il ritmo giusto, evitando di sentire l’odiosa macchina accanto a me.
Perché Liam non c’è?
Il ricordo di Sophia mi fa tribolare. Non può essere, non può averlo fatto. Non può avermi abbandonata come ha fatto mia madre.
Sento gli occhi pungermi e a un tratto non voglio che nessuno mi veda così.
Ho sempre evitato di avere delle relazioni nella mia vita: amici, amori. Per evitare che mi vedessero mollare, che mi vedessero perdere, che mi vedessero morire.
La mano di Eloise mi accarezza il viso e quando riapro gli occhi, la trovo a sorridere tra le lacrime.
“Mi dispiace” le dico.
Lei fa segno di no e ho la certezza che quella ragazza è stata per me la forza che mi è servita per andare avanti. Non la cambierei con nessuno.
Eloise si abbassa e mi abbraccia forte. Sento le lacrime bagnarmi il collo e so per certo che anch’io stia piangendo.
Non ho rimorsi, ci siamo volute bene dal principio, come partecipanti dello stesso percorso.
A un tratto tutti i sorrisi, tutte le risate mi ricordano di quanto la nostra amicizia sia stata importante non solo per me ma anche per lei.
Ci siamo sempre fidate l’una all’altra, confidate i nostri pensieri più profondi e anche quelli più semplici e fraterni. Le vorrò per sempre bene e so che anche lei lo farà nei miei confronti.
“Sarai sempre mia sorella” mi mormora all’orecchio stringendomi ancora di più.
“E tu la mia.”
Un bussare alla porta fa staccare Eloise dalle mie braccia e l’infermiera di prima sbuca da dietro la porta di legno.
“Ragazzi, lasciatela riposare” annuncia, facendosi di lato e aspettando che vadano via.
Eloise mi stringe ancora una volta tra le sue braccia e mi lascia un bacio sulla guancia.
Harry si avvicina subito dopo abbracciandomi e lasciandomi una carezza sui capelli.
Zayn, il burbero e taciturno Zayn, con gli occhi lucidi mi lascia un piccolo fiore accanto al comodino e si piega a darmi un bacio sulla fronte.
Subito gli fa coda Louis, sorridendomi e dicendomi “ci vediamo presto” gli sorrido impercettibilmente e accetto la sua stretta sulla mano libera dalla flebo.
Quando vedo Niall temporeggiare al capo letto, gli sorrido e allungo una mano.
I ragazzi escono, scortando Eloise, mentre il mio amico si avvicina al letto.
Rimaniamo in silenzio, mentre lui mi afferra la mano e guarda fuori la finestra.
“Niall…” lo chiamo facendo abbassare il suo sguardo su di me.
“Lo so” gli ammetto, leggendo negli occhi la sua preoccupazione.
Probabilmente l’ho sempre saputo, probabilmente l’ho scoperto solo da poco. Non lo so.
Quello che so è che Niall ha gli occhi che parlano, ha gli occhi più limpidi che io conosca. Nessuna emozione può essere nascosta neppur volendo.
So quello che prova per me, so cosa vuol dire provare un’emozione verso qualcuno che sta andando via.
Niall mi sorride, cercando di essere forte.
“Da quando?” Mi domanda, cercando di trovare risposta nei miei occhi.
Scrollo le spalle “non lo so” ammetto.
“Ho cercato sempre di non ammetterlo, di far finta di niente ma tu mi hai sbalordito anche questa volta Alyssa, sei davvero una persona speciale, e probabilmente è proprio per questo che io mi sono innamorato di te” ammette, stringendo la sua mano sulla mia.
“Arriverà quella ragazza che ti sconvolgerà la vita Niall Horan, arriverà e io sarò contenta per te. Sarò contenta per il mio migliore amico.”
Niall fa un sorriso amaro e in quel momento ritorna l’infermiera schiarendosi la voce.
“Giovanotto, devi andare.”
Niall si volta e le fa un cenno con il capo. Mi lascia la mano e subito sento un brivido freddo passarmi nelle ossa.
Non ancora.
Non ora.
Si china e mi bacia la tempia.
“Ti avevo già trovato Alyssa.”
 
Pov Liam
 
Quando è troppo tardi per rimediare agli errori, quando ti accorgi che il tuo bicchiere preferito sta per cadere dal tavolo, cosa faresti?
Il primo istinto è di sporgerti per afferrarlo, ma solitamente capita che ti scivoli dalle dita, che sei così vicino da afferrarlo, ma la forza di gravità lo inghiottisce. Lo tira giù fino a romperlo in mille pezzi e tu non devi fare altro che abbassarti e raccogliere i cocci.
È quello che sto facendo io.
Spettatore passivo della distruzione di quel vetro chiamato vita.
Sono seduto su questa maledetta poltrona da ore e ore, ho visto il sole sorgere e tramontare, senza aver trovato ancora il coraggio di spazzare quei cocci di una vita non vissuta a pieno. Di quei cocci che per me sono amore, sofferenza e desiderio.
Codardo.
Sono un codardo, sono proprio difronte alla sua porta, sapendo che da un momento all’altro rimpiangerò di non aver alzato il mio culo di merda per percorrere quei fottuti metri e farmi vedere distrutto dalla persona che amo.
Che razza di persona sono?
Che persona sono diventata?
Abbasso il capo tra le mie mani e vorrei spezzare tutta questa tensione, tutto questo soffrire che ci sta portando via. Vorrei avere la forza di portare via quel corpo di quella persona che sta soffrendo, che presto non ci sarà più.
E io sarò solo, senza una parte della mia anima. Senza vita.
Egoista.
Voglio per me quella persona, voglio continuare a sentire la sua risata, voglio toccarla, sentire il cuore accelerare, il fiato spezzarle quando l’accarezzo, ascoltare le sue melodie al piano che la fanno sentire viva, voglio continuare a vivere Alyssa. Perché è l’unica persona che si merita questa vita, anche se è merdosa, anche se è catastrofica, lei se lo merita.
Invece sta per andare via, sta per abbandonare tutto. E con tutto, anche me.
Una mano sulla spalla mi riscuote ma rimango con il capo abbassato non volendo vedere e ascoltare nessuno. Non sono pronto. Non ne ho la forza e non ne ho voglia.
Perché potrei ritrovarla solo per una sola persona, ma questa non è quella che mi toccherebbe in questo momento, troppo stanca in un letto di questo schifo di ospedale.
La mano mi stringe la spalla.
“Liam, dovresti entrare” la voce profonda e roca di Michael mi smorza l’anima e un groppo, come un nodo troppo stretto, stringe in gola.
Nego con la testa prendendomi i capelli nelle mani.
“Figliolo, non c’è più tempo” mi esorta con la paura nella voce.
E so che devo farlo.
Devo farlo per me.
Devo farlo per lei, perché se lo merita.
Lascio che le mani cadano da sole sulle ginocchia e mi alzo a testa bassa, percorrendo quella minima distanza che mi separa dalla verità.
Dalla morte.
 
Quando apro la porta silenziosamente, mi colpisce la pace della stanza.
Non è un silenzio forzato, sembra più la quiete di un posto eterno. L’odore del piccolo fiore sul comodino profuma l’ara e la fa diventare dolce, quasi perfetta.
Il corpo di Alyssa giace su un letto troppo grande per lei, tanti fili sono attaccati a quella ragazza. Il sondino nasale emette un rumore a cadenza fissa di cinque secondi, il battito cardiaco è lento e stanco e la flebo segna il percorso lento e miserabile della malattia.
Alyssa, la mia piccola Alyssa, ha gli occhi chiusi e sembra essere in pace con se stessa. Anche in quel momento, sembra essere la perfezione che la vita dovrebbe essere orgogliosa di aver avuto.
Sento le gambe deboli e chiudo gli occhi trattenendo grida di disperazione.
“Liam” sussurra lei, senza aprire gli occhi.
Apro i miei e mi faccio vicino. È sorprendente come lei riesca a percepire la nostra forza, il nostro piccolo filo conduttore.
“Hei” mi chino e le lascio un bacio tra i capelli.
La sua pelle è gelata, liscia e quasi ultraterrena. Sembra non essere qui con me, i suoi occhi sono ancora chiusi e vorrei tano che gli aprisse, vorrei vedere quel colore del cielo che prima o poi mi tormenterà l’anima. E io lo so. Sarà un tormento dolce, proprio come il miele per le api ed egoisticamente parlando, non vorrei che andasse via questo splendido ma doloroso tormento.
Lei non mi risponde e mi siedo sul letto accanto a lei, prendendole la mano fredda e sottile, quella sana che non è stata maltrattata perché in quella è come se ci fosse il ricordo di Alyssa guarita, come se ce la potesse fare.
“Scusa” sussurra lei.
Probabilmente sente anche lei la forza che le viene portata via attimo dopo attimo e vorrei tanto che quella stretta di mano prendesse la mia di forza, gliela cederei volentieri. Perché è questo che si dovrebbe fare quando si ama una persona. E io, Dio, se la amo.
“Per cosa?” Le domando, mandando giù quel nodo, sperando che mi abbandoni al più presto.
“Per non essere stata la ragazza che tu cercavi” ammette, aprendo leggermente gli occhi.
Come può dire questo? Come può?
“Ti ho visto piangere” aggiungere lei, cercando di stringere le deboli dita tra le mie.
Stringo la sua mano di rimando e nego con la testa, capendo tutto.
“No tesoro, no. Non pensarlo nemmeno per un secondo. Ti prego” la supplico, ricordando la conversazione con Sophia.
Ricordo le lacrime, lacrime di paura, lacrime di sofferenza ma mai lacrime di rinnego.
“Lo capirei” risponde Alyssa, chiudendo gli occhi nuovamente.
Guardare quel dolore, quella sofferenza è troppo. Vorrei scuoterla dalle spalle e gridarle di rimanere con me, perché lei è stata tutto quello che avrei mai desiderato.
“Tu non immagini nemmeno come mi senta. Alyssa tu, mi hai fatto capire cosa realmente significa l’amore, mi hai fatto capire cosa significa vivere. Se potessi, rivivrei tutto con te, da quel giorno in cui ti feci cadere, tutto. Ti ho amato come nessuno mai, e ti amerò per sempre” le mie parole sono cariche di terrore, la mia voce trema e Dio, lascio che le lacrime mi rigano il volto, stanco di trattenerle. Stanco di tutto.
“Liam” mi chiama lei, boccheggiando ma aprendo gli occhi.
Mi guarda negli occhi e per un momento penso che sia tutta una farsa, che tra poco si alzerà dal letto e mi dirà che era uno scherzo, che voleva solo mettermi alla prova. Poi la finta convinzione decade.
“Ricordi cosa ti dissi tempo fa?” Mi domanda sorridendo.
“Qualsiasi cosa accada, qualsiasi, io sarò sempre con te Liam, nel tuo cuore io vivrò sempre. Proprio come la nostra canzone” sorride ma le lacrime le bagnano le guance e non ho la forza di asciugarle, perché non ho nemmeno la forza per asciugare le mie.
Piangiamo, perché sappiamo che questa è l’ultima volta per noi.
Poso il suo palmo sul mio cuore, proprio lì dove batte quell’organo così complicato, che decide chi amare, quanto battere e cosa provare.
“Ti amo Liam” ammette sorridendo “e non mi pento di nulla”.
Le sorrido, perché lei lo merita.
Lei è stata la forza.
Lei è stata la volontà.
Lei è stata la felicità.
Lei è stata la musica.
Lei è stata l’amore.
“Ti amerò sempre” sussurro senza ripensamenti. Guardandola per l’ultima volta.
 

 



Ebbene eccoci qui, ultimo capitolo di Turn Back Time. Credevo che questo momento mai sarebbe arrivato.
Ho tentennato, ho combattuto con l'ispirazione ma ce l'ho fatta.
Ma non è ancora tutto finito, presto -quando meno ve l'aspettereste- arriverà l'epilogo e metteremo un punto definitivo a tutto questo.
E un po' mi dispiace. 
Ringrazio tutti voi che mi avete aspettata. Vorrei tanto sapere cosa ne pensate. Potete dirmi tutto quello che volete, anzi. Ne sarò contentissima. 
Se avete due minuti da perdere, lasciatemi due parole.
Non mi dilungo sulle cose da dire, perchè ho la battaglia in testa.
Sappiate che l'epilogo è pronto e quando capirò che sarà il momento lo pubblicherò e per allora vi spiegherò tutto e ve ne parlerò.
Un bacione.

Sempre vostra.

-IlaPerla-
  
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