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Autore: Nico    19/01/2009    5 recensioni
Ero un mostro, destinato a rimanere eternamente tale, eppure con ancora così tanto di umano da farmi sentire due volte dannato. Come sarebbe stato più facile perdere, con la capacità di morire da uomo, anche l'anima dell'uomo.
Genere: Malinconico, Sovrannaturale, Introspettivo | Stato: completa
Tipo di coppia: Slash
Note: nessuna | Avvertimenti: nessuno
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Qualche piccola annotazione agli amanti ed estremi conoscitori dei vampiri...leggete a vostro rischio e pericolo perché con quasi assoluta certezza ho scritto un mare di ca..te, ma siccome poi pare che ultimamente ognuno possa inventarsi un po' quello che preferisce ho deciso di dare il mio indispensabile contributo alla causa xD



Sonata per violino


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Lubecca, 24 Dicembre 1817

Come può, colui che non è umano, sentire un tale gelo in un cuore che non batte?
La vigilia di Natale era l'unica notte in cui riuscivo ancora a riscoprire il mio corpo scosso da brividi, capace di sensazioni che ormai il tempo mi aveva tolto per sempre.
Stavo fermo a guardare la gente infagottata che in processione si dirigeva verso la chiesa.
Certe volte, negli anni, mi ero riscoperto a desiderare di essere una macchia in mezzo a loro, anonimo nei miei vestiti ordinati, pronto come loro a pregare Dio nascente, desideroso di credere davvero in lui.
In quell'unica notte.
“Gregor...”.
Mi voltai, e senza stupore vidi gli occhi blu di Manuel saettare nel buio e posarsi sulla folla. Avevo percepito la sua presenza già da alcuni minuti, il vento era debole, non sferzava la pelle come  spesso accadeva in quella stagione, ma era comunque abbastanza per portarmi il suo odore familiare.
Lo guardai per un attimo, poi di nuovo mi concentrai sul fiume di persone che continuavano ad arrivare. Sentii la spalla di Manuel sfiorare la mia, e senza pensare mi avvicinai di più, cercando un contatto, un calore che non provenisse solo dagli abiti che indossavamo. Il suo braccio mi cinse le spalle e le sue labbra si posarono in un freddo sussurro sul mio collo.
“Non è ancora arrivato il momento di lasciare andare il passato?”
Chiusi gli occhi per un momento e mi concentrai sulle sensazioni del mio corpo, quelle che rimanevano dell'umanità che avevo perduto e che pure erano così diverse, a tratti amplificate.
Quando li riaprii Manuel mi guardava. “E' trascorso tanto tempo, Gregor, mi avevi promesso che avresti smesso”, sussurrò.
Mi stupii nel vedere una scintilla di sofferenza negli occhi affamati di un vampiro. Ma perché, poi? Perché, se quello che provavo io poteva essere considerato tale, per Manuel non avrebbe dovuto essere la stessa cosa?
“Lo so”, dissi. “Ma è difficile”.
“E' difficile perché vuoi che lo sia!”
“Voglio che lo sia?!”, scattai. Avevamo avuto quella conversazione decine di volte nell'ultimo anno e mezzo, il migliore da quando ero stato cambiato.
“Non sono stato io a voler diventare... questo”, dissi, indicandomi con disprezzo.
Con mano leggera Manuel mi accarezzò il volto, scostandomi i capelli e riflettendosi nel verde trasparente dei miei occhi. Potevo vedermi nei suoi, sembrava quasi una magia. “Non ho voluto essere così nemmeno io. Ma non possiamo farci niente.”
“Pensi che potrei entrare in chiesa, stasera?”, domandai. L'attimo di furore era svanito, e per quanto fosse ancora incontenibile, in certi momenti, non era giusto sfogarlo sull'unica persona che sentivo vicina, l'unica per la quale provassi qualcosa di così simile a quello che, una volta, avrei definito amore.
Allora anche lui guardò la folla. Almeno la metà degli avventori erano ormai entrati, spariti dietro i pesanti portoni di legno, protetti dal male dalle mura del tempio di Cristo.
Io ero il male, Manuel lo era, o almeno parte di esso, e forse non la parte peggiore.
Me lo ero domandato tante volte, in tutti questi anni, come fosse possibile che a creature come noi, votate alla notte, all'omicidio di innocenti, fosse permesso l'ingresso in un luogo sacro come una chiesa, come l'acqua benedetta ci provocasse solo un lieve pizzicore, a semplice dimostrazione del fatto che eravamo qualcosa di diverso dal normale.
Ero un mostro, destinato a rimanere eternamente tale, eppure con ancora così tanto di umano da farmi sentire due volte dannato.
Come sarebbe stato più facile perdere, con la capacità di morire da uomo, anche l'anima dell'uomo.
Maledivo Dio e il demonio per avermi reso immortale, per avermi tolto il calore del sangue nelle vene e per avermi lasciato tutto il resto, bagaglio intrasportabile di coscienza, dolore, amore e rimpianto.
La solitudine era stata all'inizio la cosa peggiore, nuovi istinti che il cervello mi comandava di accantonare ma ai quali non avevo potuto fare altro che soccombere.
Coi sensi sempre all'erta, capaci di captare il minimo sussurro, fruscio di foglia, ogni più lieve odore, era come impazzire ad ogni respiro, essere sotto l'effetto di un potente allucinogeno senza speranza di vederlo svanire.
Solo il sapore del sangue poteva placare il vortice nella mia testa, era una consapevolezza innata in me, faceva già parte dalla mia nuova natura.

Il primo rintocco della campana mi riportò al presente.
“Sono tutti dentro”, disse Manuel.
“Entra con me anche tu, ti prego”.
Sapevo che non l'avrebbe fatto, che per quanto il tempo avesse rimarginato le sue, di ferite, più di quanto avesse fatto con me, tutto ciò che mi aveva spiegato, tutto quello che si era convinto a credere, non avrebbe cancellato la rabbia che provava verso colui che aveva deciso, probabilmente con la sua assenza, di renderci quello che eravamo.
“Ti aspetto nel parco”, rispose, e come se non fosse mai stato lì sparì nel buio.
All'ingresso della chiesa provai un immediato fastidio nel respirare l'aria satura dell'odore di incenso, ma la tremolante luce delle candele non era abbastanza per ferirmi gli occhi.
Tutta quell'umanità raccolta mi fece provare un brivido di terrore. Non per me, certo, ma sicuramente per quello che avrei potuto fare loro.
Non era rimasto un posto libero, molte persone erano in piedi ad ascoltare la predica, intenti a capire il perché, in fondo, erano tutti quanti peccatori, tutti quanti colpevoli di aver rubato, mentito, fornicato, tradito.
Tutti quanti meritevoli del perdono divino, meritevoli di essere salvati proprio in quella notte, salvati dal loro padre.

Padre nostro che sei nei Cieli,
sia santificato il Tuo Nome,
venga il tuo Regno, sia fatta la tua volontà,
come in cielo così in terra.

La campana suonò i primi rintocchi della mezzanotte. Fu allora che la vidi.
Era appoggiata ad una colonna della navata di destra, pochi metri ci separavano e non eravamo mai stati così lontani.
Greta, mia sorella.
Com'era cambiata dall'ultima volta in cui l'avevo abbracciata senza paura, col cuore leggero e l'animo integro di colui che sa di amare nel modo giusto.
Con la testa che mi scoppiava, senza capire cosa mi fosse accaduto, era da lei che ero corso la notte in cui la mia vita si era sgretolata.

“Gregor, dove sei stato! Ti ho aspettato per ore!” aveva esclamato, prima di rendersi conto delle mie condizioni.
Barcollando ero entrato in casa, incapace di tenere gli occhi aperti, e senza forze mi ero buttato sul divano.
Lei mi aveva accarezzato i segni sul collo e stretto la mano, mi aveva asciugato la fronte imperlata di sudore, aveva sopportato le mie grida di dolore mentre il mio corpo si rimodellava fin dentro il midollo osseo, preparandosi a diventare ciò che ero ora.
Eravamo rimasti chiusi in casa per giorni, dopo quella notte, ma la mia fame e voglia di sangue non avevano fatto altro che crescere, diventando l'unico centro, l'unico fuoco di tutto il mio essere.
Io non sapevo spiegarle, e lei non capiva. Non avrebbe potuto capire, ed era la prima volta che accadeva una cosa del genere da quando, orfani, eravamo rimasti l'unico supporto e punto di riferimento l'uno per l'altra.
Aveva tentato, però, con tutte le sue forze.
Finché una sera, ebbro dell'odore del suo, di sangue, ero scappato il più lontano possibile e avevo ceduto, cibandomi al collo di una prostituta che, ignara, aveva tentato di adescarmi.
Da allora erano trascorsi undici anni durante i quali non avevo mai smesso di guardarla da lontano, il meno possibile per non impazzire dal dolore ma abbastanza per essere sicuro che stesse bene.

Padre nostro...sia fatta la tua volontà, diceva la preghiera.
Senza di me lei aveva sofferto, aveva rischiato di non farcela, sola al mondo come ero rimasto solo io. Due metà della stessa faccia della medaglia i cui bordi, ormai, non potevano più combaciare.
Quella era stata la Sua volontà?
“Perchè Dio mio, perchè!”, avevo gridato.
Perché se il creatore è uno e uno solo, allora anche quelli come me provenivano dalla sua mano, anche quelli come me facevano parte di quella schiera di creature che lui amava...che avrebbe dovuto amare e alle quali invece aveva riservato un destino di oscurità eterna.
Greta era rimasta figlia della luce, io ero diventato figlio delle tenebre.

Appoggiato accanto a lei vidi il suo inseparabile violino. Ero felice che almeno una delle sue vecchie abitudini non l'avesse abbandonata, che la musica continuasse ad accompagnarla dovunque andasse.
Era brava, aveva sempre avuto un grande talento, sapevo che era riuscita ad entrare a far parte di un'orchestra.
 
La voce del pastore riecheggiò profonda e mi distolse da lei per un attimo.
Rimetti a noi i nostri debiti come noi li rimettiamo ai nostri debitori,
non ci indurre in tentazione, ma liberaci dal male.
Amen.

I rintocchi finali della campana dettero il benvenuto al giorno di Natale, ma il dolore sordo nel sentire queste ultime parole di speranza non si era placato.
Ero certo che quel bambino nato in una mangiatoia, che quell'uomo morto su una croce, non avrebbe mai potuto rimettere i miei debiti, cancellare il male che il mio stesso essere mi aveva costretto a commettere.
Davvero la redenzione era di tutti? Davvero, se mi fossi pentito abbastanza, avrei potuto essere perdonato?
Ci sarebbe sempre stata un'altra vittima, non ci sarebbe mai stata scelta per me, ne speranza.

Uscii dalla chiesa prima di tutti gli altri e aspettai di vedere Greta per un ultima volta.
La processione di gente defluì lenta, più luminosa, più gioiosa di quando era entrata, anche questo uno dei miracoli che non mi riuscivo più a spiegare, che continuavano a perpetrarsi senza motivo apparente.
Da qualche minuto nessuno usciva più ma di lei non c'era traccia. Sbucai dall'ombra nella quale mi ero rifugiato per controllare che fosse tutto a posto quando finalmente la vidi, e i suoi occhi erano fissi su di me.
Provai un panico improvviso, un desiderio di fuggire quasi irresistibile.
“Gregor!”, gridò lei.
Finché non sentii la sua voce.
Allora mi voltai, e fu come se tutta la mia vita tornasse a fiotti dentro di me e mi afferrasse la gola con l'intento di soffocarmi.
“Greta”, mormorai, testando la consistenza del suo nome sulla lingua, pronunciato a voce alta dopo tanto tempo.
Fu lei a muovere i primi passi nella mia direzione, che ben presto si trasformarono in una corsa che la portò tra le mie braccia in pochi secondi.
“Gregor...Gregor, sei...”
“Vivo?”, terminai io.
Lei mi guardò, con quei suoi occhi profondi  e saggi, di una saggezza che non era mai stata naturale in una ragazza così giovane, ma che ora si adattava meglio alla donna che era diventata.
“Ho sempre saputo che eri...”.
Si staccò da me riluttante, accarezzandomi il viso. Non potei non notare il brivido che la percorse nel toccarmi la pelle.
“Perché non sei venuto da me, Gregor? Per tutti questi anni, ero certa che fossi vivo, e che non mi avresti mai abbandonata a meno che non...”
“Non sono vivo, Greta. Da tanto tempo, ormai”, dissi.
“So cosa sei Gregor, non l'avevo capito subito, quando sei stato male, e anche dopo... era difficile, incredibile, ma sapevo...ora lo so”.
Mi guardai intorno con circospezione. Anche in presenza di mia sorella non mi sentivo a mio agio lì in mezzo alla strada, così esposto agli sguardi altrui.
“Andiamo da un'altra parte, ti prego. Non parliamo qui”, dissi, muovendomi in direzione del parco. Per qualche secondo lei non mi seguì, ma bastò poco e sentii i suoi passi dietro di me.
Aveva avuto paura, forse un campanello di allarme si era acceso nella sua testa, ma non era bastato a farla comportare saggiamente.
Avrebbe dovuto voltarsi e scappare, rifugiarsi in chiesa e credere che lì non sarei potuto entrare. Una parte di me voleva intimarle di andarsene e dimenticare, ma non lo feci.
Potevo essere il suo assassino e lasciai ugualmente che mi seguisse.
Camminammo a lungo senza dire una parola, fianco a fianco, ma il calore del suo corpo, a differenza di quello di Manuel, era quasi visibile. Gli sbuffi del suo respiro a contatto con l'aria gelata si perdevano, carichi di vita, nella notte.
Solo una volta giunti al parco mi concessi di fermarmi e guardarla davvero, come non avevo potuto fare da un tempo infinito.
“Come sono diversi i tuoi occhi”, le dissi.
Lei si avvicinò sicura, senza far trasparire il minimo timore.
Non aveva forse paura di me? Credeva di trovarsi ancora a parlare con suo fratello?
“Anche i tuoi sono diversi”, disse, e di nuovo la sua mano fu sulla mia guancia, fredda per un corpo umano, una fornace per un corpo di vampiro. “Non ti ho mai visto così bello, Gregor”.
“E' uno dei nostri trucchi”, dissi, ma non riuscii a nascondere una smorfia di disappunto. “Attiriamo gli altri con la nostra bellezza, ma una volta caduta la maschera...”
Ecco il mostro, quello che si celava dietro l'innocuo, dietro il rassicurante.
“Ti prego, non parlare così”, mormorò lei. I suoi occhi erano lucidi, pieni di lacrime non cadute, ma tutto ciò che vi vedevo riflessa era dolcezza.
“Tu non sai quanto... sono così felice di vederti, di sapere che sei qui. Qualunque cosa tu sia adesso...Gregor, per me sei vivo!”, disse con voce rotta.
“Non sai quante volte avrei voluto essere morto davvero in tutti questi anni”, mormorai.
Sentii una presenza alle mie spalle, nascosta nel buio, ma non mi voltai. Sapevo perfettamente chi fosse, sentivo le sue emozioni vibrare nell'aria, ma ero altrettanto certo che non avrebbe fatto nulla.
“E' stato così difficile andare avanti dopo che sei scomparso nel nulla. Eri tutto quello che avevo, Gregor. Tutta la mia famiglia”.
“E tu lo eri per me, ma adesso è tutto diverso. Non posso più esserlo”.
Vedevo chiara nei suoi occhi la riluttanza ad accettare quello che le stavo dicendo. Prese la mia mano tra le sue, rabbrividì, ma non la lasciò andare.
“C'è un modo, però”, disse.
Non capii immediatamente cosa volesse dire, le rivolsi uno sguardo interrogativo ma lei continuò a fissarmi sicura, senza dire una parola.
Fu allora che Manuel uscì dall'ombra. “Vuole che tu la trasformi”, disse.
Greta spostò rapida lo sguardo su di lui e mi si avvicinò un po' di più, come se io potessi ancora proteggerla da qualcosa, come se io non fossi in realtà lo stesso pericolo dal quale tentava di ritrarsi.
“Manuel”, mormorai.
“E' quello che ti sta chiedendo, Gregor. Vuole che tu la trasformi”, ripeté lui, impassibile agli occhi di chiunque non lo conoscesse bene quanto lo conoscevo io.
Mi voltai verso di lei e la fissai incredulo.
“Quando ho collegato tutto quello che era successo, i segni che avevi sul collo, la febbre, la sete di qualcosa che non potevi avere...quando ho capito cosa stavi diventando, era troppo tardi, ormai. Eri già sparito nel nulla”, disse lei.
“L'ho fatto per te, non volevo farti del male!”, esclamai.
“Non c'era modo di non farmi del male, Gregor! Restando o andandotene, non c'è stato giorno in cui non abbia desiderato ritrovarti, chiunque...qualunque cosa tu fossi. Non c'è stato giorno che non abbia desiderato che mi avessi portata con te”.
“E quindi vuoi che lo faccia adesso? Dopo undici anni?”
“Io non... saremmo di nuovo una famiglia”, mormorò.
Non riuscivo a credere alle mie orecchie. Dopo tutto quel tempo, dopo tutta la sofferenza e l'agonia vissuta nella consapevolezza di aver perso ogni cosa, l'unica persona che avevo davvero voluto proteggere mi stava chiedendo di trasformarla in qualcosa che lei stessa, in circostanze normali, avrebbe odiato. Un mostro.
Cercai un aiuto nello sguardo di Manuel, desiderai per un breve istante di trovarvi approvazione, un segno che mi convincesse che non sarebbe stato poi così terribile renderla come noi.
Lui mi si avvicinò, prese la mia testa tra le sue mani e appoggiò la sua fronte alla mia. “Ricordi com'eri prima che ci incontrassimo? Com'era insopportabile vivere con te stesso?”
Ricordavo perfettamente, non avrei mai potuto dimenticare quel vuoto incolmabile, quell'abbandono dell'anima che sentivo come una voragine nel petto. “Certo”, sussurrai.
“Allora sai quello che devi fare”, disse. “Per lei. Per te”.
Respirai profondamente e lui mi lasciò andare.
Greta era ancora ferma lì davanti a me, in attesa di una risposta ma allo stesso tempo incuriosita, probabilmente, dal vedere l'atteggiamento che avevo nei confronti di un altro uomo.
Ma non aveva alcun senso spiegarle che in tutti quegli anni mi ero reso conto che, con davanti un'eternità come prospettiva, il sesso della persona che avrei scelto come compagna di vita non aveva poi tutta questa importanza.
“No”, dissi invece. “Non posso...non voglio farlo”.
“Perché!”, esclamò lei.
“Perché tu non devi diventare così. Devi vivere, amare, soffrire, essere felice e morire come una donna. Devi avere un paradiso nel quale andare, una volta giunta alla fine”.
“Tu non l'avrai?”, mi domandò.
“Se un giorno morirò non credo che ci sarà un paradiso per me”, dissi.
Lei scosse il capo, ma non disse nulla. Non cercò di convincermi, non sostenne che anche per me ci sarebbe stata speranza, e di questo le fui infinitamente grato.
“Puoi fare una cosa, però. Se vuoi”, continuai.
“Che cosa?”
“Suona il violino per me un'ultima volta”.
Lei si guardò attorno perplessa. “L'umidità non fa bene alle corde, rovinerà il suono”, disse.
Era scesa una nebbia gelida, ma la luce della luna si rifletteva sulle minuscole particelle d'acqua tanto da sembrare che provenisse direttamente da esse.
Era una notte speciale, quella. “Non importa, voglio il mio regalo”, dissi.
Incerta, si chinò e aprì la custodia dello strumento. Lo accarezzo e lo prese in mano con cura, coccolandolo tra le braccia quasi come fosse un bambino.
“E' un tuo regalo, ti ricordi?”, disse, con lo sguardo perso in memorie che ora sembravano così lontane.
“Certo, è stato il tuo regalo di Natale quasi diciassette anni fa. Temevo che non sarei riuscito a comprarlo”, risposi.
“E' stato il regalo più bello che abbia mai ricevuto in tutta la vita”, disse lei.
Le sorrisi perché sapevo che era vero. “Suonalo per me, ti prego. Non ci sarà mai più un'occasione migliore”.
Greta impugnò lo strumento, prese un respiro profondo e lo posizionò tra mento e spalla. Ci fu un momento di silenzio assoluto, poi le note riempirono l'aria all'improvviso. La rapidità delle sue dita sulle corde era ipnotica e la melodia fluiva senza intoppi, con ritmo rapido e sicuro.
Non ricordavo che suonasse così bene.
Manuel mi cinse le spalle da dietro, ricongiungendo le mani poco sotto il mio sterno. Era leggermente più alto di me, quindi appoggiai la nuca al suo petto, chiusi gli occhi e mi abbandonai alla musica.
Fu come se le note assumessero forma e colore dietro le mie palpebre, come se Greta, con le sole sue dita e il suo archetto riuscisse a creare una melodia fatta della stessa sostanza dei miei ricordi e delle mie antiche speranze.
Cose che avevo perduto, che non avrei ritrovato, certo non così come le avevo lasciate. Ma avevo Manuel, che pur essendo quello che era mi amava con lo stesso cuore dell'uomo che una volta era stato. E non avevo forse ritrovato anche Greta?
Aprii gli occhi e mi sembrò eterea nella sua bellezza. La nebbia sfumava i contorni del suo corpo ma la faceva allo stesso tempo brillare come le stesse gocce d'acqua di cui era composta.
Aveva il volto segnato dalle lacrime ma continuò a suonare con tutta se stessa, come se da quella musica dipendesse tutto il resto della sua esistenza.
Come era iniziato, con la stessa rapidità tutto cessò e di nuovo piombò il silenzio.
Rimanemmo tutti immobili per alcuni secondi, incapaci forse di lasciare andare quel momento che, per l'ultima volta, ci aveva legati con incredibile intensità.
Fu Greta a muoversi per prima, abbassò lo strumento e venne verso di noi. Manuel mi lasciò andare e fece un passo indietro.
“Haydn. Concerto per violino in do maggiore”, disse.
“E' stato stupendo. Grazie”, le risposi.
Era come se entrambi non volessimo dire nulla per paura di dire quello che dovevamo.
“Credo che questo sia un addio”, sospirai alla fine.
Lei si chinò, rimise a posto lo strumento nella custodia e si rialzò. La sua mano tremava quando prese la mia. “Almeno abbiamo avuto la possibilità di dircelo, questo addio. E' più di quanto avrei mai sperato di poter avere”.
“Anche io”, dissi.
“Ma perché deve essere proprio un addio? Potremmo rivederci...come stasera, per esempio”.
“Non credo che sia una buona idea”, intervenne Manuel.
Greta arretrò di un passo, forse intimorita dalla sua presenza. Era la prima volta che lui le si rivolgeva direttamente.
“Per quale motivo?”, rispose lei, facendosi coraggio.
Lui mi guardò, mi indirizzò un sorriso triste e le rispose. “Diciamo che la nostra comunità non è esattamente amichevole”.
“Ce ne sono molti altri come voi?”, chiese Greta, spalancando gli occhi.
“Abbastanza”, intervenni io. “Siamo per lo più solitari o riuniti in piccoli gruppi, ma la maggioranza di noi ha abbracciato pienamente la propria natura. Non si sentono frenati dall'attaccare gli uomini, danno libero sfogo al loro istinto”.
“Se scoprissero che sei la sorella di Gregor diventeresti come la lampada accesa su una barca in mezzo al mare di notte”, disse Manuel. “Non siamo tutti una grande famiglia, se capisci cosa voglio dire”.
Lei abbassò le spalle sconfitta. Chiaramente capiva, e capivo anche io che lasciarla andare era la cosa migliore da fare, ma come avevo imparato tante volte a mie spese, fare la cosa migliore avrebbe significato anche fare quella più difficile.
Mi avvicinai a lei. “Greta...”
Mi si gettò tra le braccia e mi strinse forte, immergendo il viso nel mio mantello e soffocando il pianto che non riusciva più a trattenere.
“Non sai quanto mi mancherai Gregor, ma andrò avanti per te”, disse con voce rotta.
La allontanai gentilmente prendendola per le spalle e le asciugai una lacrima nuova che era in procinto di cadere. “Questo rende tutto molto più facile”.
Anche lei si asciugò gli occhi e finalmente mi regalò un piccolo sorriso. “Dopotutto se ce la fai tu a vivere come un vampiro io non posso essere da meno!”
Anche io le sorrisi. Il peso che mi gravava nel petto c'era ancora, ero certo che non sarebbe mai scomparso del tutto, ma per la prima volta nella mia vita immortale avevo la sensazione di poter riuscire a sopportarlo.
“Vai a casa adesso, è notte fonda. Io e Manuel ti seguiremo da lontano senza farci vedere, aspetterò che tu sia entrata”.
Avrei voluto piangere come aveva fatto lei ma non ne ero più capace, quindi feci un passo indietro, afferrai la mano di Manuel e mi aggrappai all'unica cosa solida che mi era rimasta.
Greta sorrise anche a lui, poi con lo sguardo mi accarezzò per l'ultima volta. “Arrivederci Gregor”, disse, prese il suo violino e si incamminò nella notte.
Come le avevamo promesso la seguimmo fino a casa.
La vidi aprire la porta e fermarsi per un momento sulla soglia, si voltò è cercò nel buio, ma non avrebbe mai potuto vederci. Salutò me e la notte con un ultimo gesto della mano e se la richiuse alle spalle.
“Addio Greta, sii felice”, mormorai, strinsi più forte la mano di Manuel e gli sfiorai le labbra con un bacio, grato più che mai di non essere solo.

**************

Non fu però quella l'ultima volta che parlai con mia sorella.
Per anni e anni, dopo quell'incontro, continuai a seguila. Si innamorò di un uomo, anche lui un musicista, ed ebbe due figli. Un maschio, Hannes, e una femmina, Judit, che purtroppo morì di malattia quando aveva solo sette anni.
Ebbe una vita piena, segnata da gioie e tragedie come la vita degli esseri umani.
Come la vita che avrei avuto io, probabilmente, come quella che avevo voluto per lei.
Andai a farle visita la notte di Natale del suo settantottesimo anno di vita, quando ormai la malattia l'aveva consumata al punto tale da non permetterle nemmeno di alzarsi dal letto per andare alla messa.
Entrai in camera sua senza troppe difficoltà, presi una sedia e mi sedetti di fianco al letto a guardarla dormire. Faticava a respirare, aveva l'aspetto logoro di una vecchia, ma quando aprì gli occhi capii che anche se fossero passati secoli l'avrei riconosciuta.
“Gregor...”, mormorò.
“Ciao Greta. Buon Natale”, le dissi, prendendole la mano.
Lei me la strinse debolmente. “Non sei affatto cambiato”, disse con un mezzo sorriso.
“Sono contento di non poter dire lo stesso di te”, dissi io, e da come mi guardò capii che aveva inteso perfettamente quello che volevo dire.
“Ho avuto una vita felice, non sempre, ma è stata una vita piena”, sussurrò.
“Lo so, ti ho tenuta d'occhio”.
“Ho avuto il mio angelo personale a vegliare su di me tutto questo tempo”, ridacchiò lei, ma cominciò immediatamente a tossire, abbandonandosi esausta sul cuscino.
“Sono tutto fuorché un angelo, te lo assicuro”, le ricordai.
“Sarai per sempre il mio meraviglioso angelo immortale”, disse.
Mi alzai e mi sedetti di nuovo sul letto accanto a lei, prendendole entrambe le sue mani e stringendole tra le mie.
“Non sai quanto mi sei mancata”, confessai. “Ma non potevo venire, non avresti saputo giustificare...”
“Ssh, non dire niente. Non importa. In realtà ci sei sempre stato e sei qui adesso, è tutto quello che conta per me”.
Continuai a stringerle le mani, le baciai le dita. Erano tiepide, ma sentivo, con quel sesto senso che negli anni si era sempre più affinato, che la fiamma della vita le avrebbe riscaldate ancora per poco.
“E' strano come alla fine della vita tutto diventi così chiaro, come tutto ciò che di bello e di pulito abbiamo vissuto diventi la parte più importante, mentre i brutti ricordi rimangono relegati là in un angolo come uno spauracchio che in realtà non fa più paura”, continuò.
“Dev'essere bello sentirsi così”, risposi.
“Solo grazie a te e a Manuel posso sentirmi così, non vi sarò mai grata abbastanza per quello che non avete fatto quella notte”.
“Glielo dirò, sarà felice di saperlo”.
Mi sorrise. “Per favore, potresti aprire per me il baule che sta sotto la finestra?”
La lasciai andare, mi alzai ed andai ad aprirlo. C'era il suo violino, lì dentro, lo stesso con il quale mi aveva salutato l'ultima volta.
“Prendilo”, disse.
Lo presi con cura tra le mani e tornai verso il letto.
“Voglio che lo abbia tu. Sarà un mio ricordo”, mormorò. Vedevo i segni della stanchezza che la avviluppava, ma la sua voglia di combattere fino all'ultimo non era da meno.
“Non ho bisogno di un oggetto per ricordarti. Sarai con me per l'eternità, e se anche per me arriverà la fine, anche dopo, tra le fiamme dell'inferno o dovunque andrò”.
“Anche io sarò sempre con te Gregor, non credere che ti libererai di me tanto facilmente”, affermò. “Ma voglio che lo abbia tu lo stesso. Saprai cosa farne se e quando verrà il momento”.
“Va bene”, dissi.
Lo posai per terra e tornai ad inginocchiarmi di fianco al letto. Le scostai gentilmente una ciocca di capelli grigi che era sfuggita alla treccia e le ricadeva sul volto.
“Credo che sia arrivato il momento di salutarci per davvero”, disse con voce fioca.
Ormai non riusciva più a tenere chi occhi aperti, sopraffatta dalla stanchezza, ultimi attimi di una candela il cui stoppino era arrivato a bruciarla per intero.
“Dormi Greta”, sussurrai, “buon viaggio”.
La baciai sulla fronte, la guardai un ultima volta e uscendo silenzioso come ero entrato presi il violino.
Per un attimo ebbi l'impressione di sentire la sua voce che mi sussurrava di essere felice, ma non tornai indietro perché ormai ci eravamo dati il nostro ultimo saluto.
“Ci proverò”, dissi.
Morì il primo gennaio dell'anno di grazia 1865.

**************
 
Filarmonica di Berlino, 24 dicembre 2008

“Siamo qui da una settimana e ti viene in mente che il momento migliore per farglielo avere è proprio un'ora prima del concerto?”, borbottò Manuel.
“Non ce n'è uno migliore, te lo assicuro!”, affermai. “E poi hai scorrazzato per Berlino con la tua nuova Mercedes per tutto il tempo mentre io la cercavo, quindi hai poco da lamentarti!”
“Solo perché mi sono comprato i nuovi Ray Ban, erano gli unici che non facessero a pugni col colore della mia pelle e col mio Belstaf, altrimenti non mi sarei fatto vedere in giro”, sbuffò.
Per quanto esasperante fosse diventata l'ossessione di Manuel per le griffe, continuava ad essere soprattutto divertente.
Avevamo vissuto talmente tanti cambiamenti, atrocità, scoperte, aberrazioni e meraviglie, in un paio di secoli, che qualche piccolo sfizio, forse, meritavamo di togliercelo!
“Potevi almeno farglielo consegnare da un corriere professionista, non da quella specie di fattorino del fioraio”.
“Si da il caso che il fattorino del fioraio fosse l'unico disponibile la notte di Natale”, argomentai.
“Era disponibile o terrorizzato?”, ribatté Manuel, ma avevo smesso di ascoltarlo.
Ero ansioso di vederlo uscire, in base agli accordi avrebbe dovuto chiedere alla portineria di consegnare personalmente il pacco a Dorotea Manhof, primo violino della Filarmonica di Berlino. Sicuramente prima lo avrebbero aperto, con l'allarme terrorismo degli ultimi anni era inevitabile, ma si sarebbero resi conto che si trattava di un semplice strumento e lo avrebbero fatto passare, ne ero certo.
Lo aspettammo per un quarto d'ora sul retro del teatro ma ero così agitato che il tempo sembrava raddoppiare la sua durata.
“Non serve a niente consumare le suole delle scarpe”, disse Manuel.
“Lo so, non posso farci niente”, gli risposi.
Trascorsero ancora una decina di minuti ma finalmente il ragazzo arrivò.
Si avvicinò lentamente, con circospezione, come se dietro ai nostri bei vestiti e alle nostre maniere affinate dal tempo riuscisse a fiutare il pericolo, a sentire sotto la pelle quel brivido eccitante e allo stesso modo terrorizzante della vittima che non sa, a livello cosciente, di esserlo.
Ma non era lui che volevamo, quella sera, non rientrava nemmeno nella nostra solita tipologia di vittima, per dirla tutta.
“Allora? Com'è andata?”, chiesi subito, andandogli incontro. Un'auto passò nella strada e le luci dei fanali si rifletterono negli occhi di Manuel e probabilmente nei miei, con un effetto del tutto simile a quello che accadeva con gli occhi dei gatti.
Il ragazzo sbiancò e fece un passo indietro, e Manuel mi frenò afferrandomi un braccio. “Gregor”, sibilò, “Cerca di stare calmo. Da svenuto non ci serve a niente”.
Aveva ragione, per cui tentai di sorridergli nella maniera più rassicurante possibile sperando che nessun'altra auto decidesse di passare di lì.  “Ho qui i soldi che ti ho promesso”, dissi. “Vedi?”
Tirai fuori dalla tasca una banconota da cinquanta euro e glie la sventolai davanti. “Voglio solo sapere cos'è successo”.
Il ragazzo si schiarì la voce. “Sono entrato”, iniziò tremolante, “e l'usciere voleva sbattermi fuori. Allora ho cercato di convincerlo che non mi volevo intrufolare e nascondermi per rubare i portafogli agli ospiti durante lo spettacolo. Poi ha visto il pacco e ha minacciato di chiamare la polizia perché temeva che avessi nascosto una bomba, poi...”
“Vogliamo arrivare al punto per favore?!”, esclamai spazientito. “Lo hai consegnato, si o no?”
Di nuovo il ragazzo cercò di ritrarsi, e di nuovo sentii Manuel brontolare alle mie spalle. Poi afferrò i soldi e li porse al ragazzo.
“Ecco, prendi. Non ti vogliamo fregare, ma datti una mossa, per favore, non abbiamo tutta la notte”, disse.
Lui allungò il braccio e gli strappò la banconota di mano. Temevo che a quel punto decidesse che la cosa migliore sarebbe stata scappare ma mi smentì e riprese a parlare. “Alla fine ha chiamato una guardia, hanno controllato, e quando hanno visto che nella custodia c'era davvero solo un violino mi hanno accompagnato dalla signora.”
“Lo hai consegnato direttamente nelle sue mani?”, gli domandai ansioso.
“Certo, come mi aveva detto. La signora lo ha preso e lo ha guardato bene, per molto tempo, poi mi ha chiesto chi me lo avesse dato. Ho detto che non sapevo nulla, che un uomo mi aveva promesso dei soldi per lasciarlo a lei e che avrei dovuto dirle di guardare l'incisione all'interno della cassa. Che Greta sarebbe stata orgogliosa di affidarlo alle sue cure”.
Sospirai, finalmente più calmo. Il violino di mia sorella era arrivato nelle mani di colei che, dopo generazioni e generazioni, aveva davvero dimostrato di meritarlo.
“Puoi andare adesso”, disse Manuel, e il ragazzo corse via come un fulmine.
“E' finita finalmente? Hai fatto il tuo regalo di Natale?”
Lo guardai divertito. “Hai aspettato quasi duecento anni, cos'è tutta questa fretta?”
“Nessuna fretta. Ho voglia di cambiare aria, però, la Germania mi ha stufato”.
“Davvero?”, domandai perplesso. “E dove vorresti andare? In Transilvania? Ti sentiresti più a tuo agio?”
“Naa... perché non a Sidney? O a Miami?”
Pessime idee. “Perché c'è troppo sole, per la nostra carnagione non c'è filtro che tenga”.
“Hai ragione”, annuì Manuel, pensieroso. “Che ne dici del Canada, allora? Possiamo andare a mordicchiare un po' di malviventi canadesi!”
“Il Canada può andare”, assentii.
Era strano, a volte, come dopo tanti decenni, in alcune circostanze, avessimo imparato a sorridere della nostra condanna. Eravamo noi, e cercavamo di fare il minor male possibile. Doveva bastarci.
“Andiamo allora, dobbiamo guardare gli orari dei voli su internet, fare le valigie e cercare di vendere la macchina”.
“La macchina che hai appena comprato?”
“Si, e mi si spezza il cuore, te lo giuro. Ma in Canada ci servirà una slitta!”
Scossi il capo e mi domandai per la milionesima volta in due secoli come facessi a sopportarlo, poi lo guardai, la sua espressione mi parve quasi dolce e ricordai immediatamente il perché anche i successivi due secoli ci avrebbero visti comunque insieme.
“Cerca di essere felice”.
Era stata l'ultima cosa che Greta mi aveva detto, o forse solo un suo pensiero, talmente intenso da superare la barriera delle parole.
Non era passato attimo, da quel giorno, che non avessi pensato a lei, e nulla sarebbe cambiato, ma ora sapevo che il suo spirito, tutto quello che quel violino aveva significato, era nelle mani della persona giusta.
Greta riviveva il Dorotea, e la sua musica sarebbe sopravvissuta per sempre.
Pensai che, in fondo, tutto quello che avevo fatto e che avrei continuato a fare sarebbe stato cercare di essere felice.


  
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