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Autore: Gaia Bessie    11/07/2015    2 recensioni
La ninfa dei boschi piange linfa.
Sulla biforcazione di quel singolo albero nella casa di famiglia, un vecchio salice piegato su sé stesso come se fosse stato pugnalato a morte, le fronde sfilacciate di vento e pioggia per coprire lo scempio perpetrato sulla corteccia mutilata dall’attacco rabbioso di sua sorella Asteria – la quale s’accaniva contro un albero per combattere contro i suoi fantasmi, senza criterio, privi di volti o forma che non fosse fumo rosato – e il vento che sibilava canti silvestri fra le fronde.
Un salice piangente: una mattina, Daphne è salita alla base dell’albero, circondata da una corona di fronde fragili come sabbia vetrificata, ed ha pianto anche lei.
[Draco/Daphne]
Seconda classificata al contest "Scorci di vite sospese" indetto da Mary Black sul forum di Efp.
Genere: Angst, Introspettivo | Stato: completa
Tipo di coppia: Het | Personaggi: Daphne Greengrass, Draco Malfoy
Note: OOC, What if? | Avvertimenti: nessuno | Contesto: Da Epilogo alternativo
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Avvertenze (prima di ajdhsjhdkhdsjhds consultare il medico):
  • Sull’ambientazione: Il What if consiste nell’ipotizzare che Asteria, contrariamente a quanto scritto nell’epilogo del settimo libro, non sia viva e vegeta e sposata con Draco, esattamente come Blaise Zabini. E Lucius, contrariamente alla realtà dei fatti, è tornato ad Azkaban.
  • OOC: Come al solito, non so cosa dire in merito. Penso di aver sforato con la caratterizzazione di Draco, per forza di cose.
  • Titolo: Il titolo e le citazioni provengono in massa dal poemetto di T.S.Eliot (ah, mica si nota che ho finito da quattro giorni con la maturità… potevo mettere qualche formula di fisica random, già che c’ero), The Waste Land  e le sue cinque sezioni.
  • Citazioni: La 1 è liberamente riadattata da un passo del libro Lolita.
 


 
La ninfa dei boschi piange linfa.
Siede, Daphne, sulla base biforcata del salice dove giacciono rami che barcollano fra i loro confratelli, siede con un libro che non legge e con una bocca che non usa. Nella pioggia torrenziale di luce naturale, i suoi capelli non sono che una macchia sfocata di sole, un biondo sbiadito, impolverato, di tramonti morenti: nella porzione di buio fra le costole, fra le ossa che bucano la pelle per vomitare sangue, Daphne non è che l’ombreggiatura di sé stessa, il delirio profetico di una Cassandra poco pagana.
Ha visto, Daphne, e sentito anche.
Il giorno in cui è scesa dall’albero ed è tornata fra i vivi, lei, anticipando epiloghi, anticipando una sofferenza presofferta da tutti.

Camminando fra quei morti che stavano più in basso, calpestando talvolta un braccio o un brandello di cuore, Daphne aveva compreso ogni cosa. Sulla biforcazione di quel singolo albero nella casa di famiglia, un vecchio salice piegato su sé stesso come se fosse stato pugnalato a morte, le fronde sfilacciate di vento e pioggia per coprire lo scempio perpetrato sulla corteccia mutilata dall’attacco rabbioso di sua sorella Asteria – la quale s’accaniva contro un albero per combattere contro i suoi fantasmi, senza criterio, privi di volti o forma che non fosse fumo rosato – e il vento che sibilava canti silvestri fra le fronde.
Un salice piangente: una mattina, Daphne è salita alla base dell’albero, circondata da una corona di fronde fragili come sabbia vetrificata, ed ha pianto anche lei.
 
 
La terra desolata
 
 
Aprile è il mese più crudele – genera
lillà dal suolo morto, mescola
memoria e desiderio, smuove
pigre radici con piogge primaverili
 
T.S.Eliot, La sepoltura dei morti

 
 
Il parco del Manor è una distesa di terra polverosa e malerba, l’unica forma vitale sopravvissuta alla totale incuria, alla degenerazione scavata nel terreno livellato. Il cadavere di un albero steso a guardare il cielo, le radici crudelmente esposte alla luce filtrata di nubi, come dei minuscoli frammenti di ossa che squarciano la tenue resistenza della carne viva: Draco Malfoy si è seduto, quella mattina, con la testa racchiusa nella prigione delle mani. I capelli filati in oro chiarissimo, sbiancato, come reliquie incastrate in quella condanna ancorata all’anulare.
La fede nuziale non è che un cerchio continuo di promesse, un memoriale, che sua moglie gli ha inciso sotto la pelle, con inchiostro velenoso. Sono passati esattamente ventiquattro mesi e dodici giorni dal loro matrimonio, quando la sua sposa cadavere s’è imbattuta in una distesa di lillà sbiaditi nella terra secca di sole, e sospirando ha accolto ogni sua promessa.
Daphne Greengrass si è sposata sotto un sole insolito, un vestito sfumato in un azzurro così chiaro che, agli occhi dei presenti s’è palesato sotto la realtà fenomenica di un bianco sporco: l’ha presa per mano, Draco Malfoy, e l’ha rapita per sempre.
Aprile è stato un mese crudele, per sposarsi, nemmeno un due dopo la fine della guerra. ancora si scavava fra relitti polverosi della battaglia di Hogwarts, e si cercava un senso per quelle morti, per quei cari sepolti sotto campi di lillà generati dalle loro stesse ceneri.
Daphne Greengrass annegava di parole non dette, cercando una boccata d’aria pura, cercando una mano che l’aiutasse a non affogare. Lei, che era stata l’astro nascente nella fortuna della sua famiglia, s’era trovata a piangere sangue sulle spoglie di Blaise Zabini.
La stella di Daphne era sorta e tramontata in sette anni ad Hogwarts, sorta e tramontata nella distanza che si era cristallizzata fra un bacio e il morso doloroso della morte dai canini affilati.
Blaise non aveva mai creduto nelle guerre delle donne e, lasciandola in un angolo della Testa di Porco, con una carezza sul capo e un sorriso candido di mille speranze, era andato via.
Che avesse combattuto per l’Ordine non se n’era fatto mistero, anzi, nel disprezzo velato della cricca di Malfoy, era stato chiarito in maniera più che esauriente.
Asteria non c’era.
Se Daphne fosse stata più attenta, meno persa nella cadenza di quell’ultimo canto del cigno che si cantava da sola, persa nelle sue premonizioni, forse allora se ne sarebbe accorta: sua sorella, uno scricciolo con un fermaglio lilla perso nella chioma biondo grano, era sparita.
Seduta sul cadavere di albero nel Manor, Draco Malfoy che le tiene la mano fredda nelle sue, che paiono scolpite nel ghiaccio, senza una parola, Daphne continua a rifletterci. È la crudeltà degli assoluti, le ha spiegato quella madre priva di tenerezza, è la crudeltà di un destino non nostro, che la sepoltura dei morti debba essere così dolorosa.
Con i capelli intrecciati foglie secche, un rametto che cerca di fondersi con la sua scatola cranica, Daphne sospira del respiro delle piante che gonfiano i polmoni delle fronde. Un salice piangente si strugge di nostalgia, tagliato a metà, così che le radici divorano l’acqua primaverile, esposte.
Aprile, mese crudele, l’ha presa per mano e le ha spiegato com’è che si seppellisce un morto: come prenderlo per mano, e trovarsi vermi fra le dita, per portarlo in un altro mondo. Daphne, l’ultimo giorno di aprile di pochi anni fa, ha preso per mano la piccola Asteria, l’altro arto un prolungamento di quello di Draco, e l’ha accompagnata a casa sua.
Solchi sanguinolenti, sul salice, una A e una D grondavano linfa come ferite aperte, incise a colpi di bacchetta, e preghiere e poesie nascoste sottoterra.
Un bambino piange sua madre, da qualche parte, gli occhi grigi ciechi di lacrime, attendendo una nonna scolpita in vetro, angoli fatti per ferire, che non lo giustificherà mai di nulla: si è consumata, la tenerezza di Narcisa Malfoy si è consumata sul viso cereo del figlio e poi è sparita per sempre. Nulla è rimasto, se non una terra desolata di sabbia e malerba, per Scorpius Malfoy. Né di sua nonna né dei suoi genitori, non sua madre che si strugge di nostalgia ancorata a un vecchio tronco che sembra voler diventare polvere e sangue, sangue e polvere.
Non suo padre, con gli occhi asciutti, non Draco Malfoy scampato al processo da una settimana, illeso, senza colpe. Mani tremanti su quelle di Daphne, sia così la volontà di un cosmo che non parla, che pugnala soltanto.
Daphne è inquieta, capelli che coprono il viso, mani che tremano come la proiezione di un’ombra sul salice, come una ninfa ballerina che sfugge da un Dio troppo dissoluto per lei.
I fiori velenosi, il lillà, un relitto di Aprile, raccolti in grembo e avvolti nel tessuto della gonna come per un sudario, un feticcio inumano che donerebbe, insieme alla sua stessa vita, a chiunque fosse in grado di ridarle sua sorella.
E Draco, che dell’opportunismo ha fatto la sua arte, la guarda e sospira, sospira e la guarda. Si bea di una somiglianza che Daphne cerca di cancellare, che vede solamente lui. Sobbalza degli scatti di Daphne, quando si alza in piedi e lo guarda con occhi che sembrano essersi velati di una premonizione d’oltretomba.
«Dove stai andando?».
Le foglie degli alberi non crescono più, le ninfe sono andate vie, il salice è morto di troppe lacrime. Daphne, occhi arrossati per un viso reso aspro dal tempo, bocca come ritagliata sul viso scarno, sorride e scuote il capo con una grazia che non usa quasi più. Ha smesso di servirle.
«Io non ti servo, Draco» risponde dolcemente. «Io non ti servo».
 
 
***
 
Figlio dell’uomo,
tu non puoi dire, né immaginare, perché conosci soltanto
un cumulo d'immagini infrante
 
T.S.Eliot, La sepoltura dei morti
 
 
Harry Potter aveva imparato l’arte della clemenza solamente per usarla in maniera eccessiva, senza misura: il processo di Draco Malfoy era stata una tale farsa, senza senso, senza accuse che reggessero, che non avrebbero potuto condannarlo, a meno che non si fosse alzato per accoltellare Potter nel bel mezzo della sentenza. L’immagine che avevano rimandato del povero Malfoy pareva la parafrasi di una mezza tragedia, dove il biondo Serpeverde non era che la vittima di un fato avverso, il principe azzurro tinto di nero.
L’ultimo ad essere giudicato, aveva giocato bene le sue carte, immaginando una storia e proponendone un’altra, per commuovere.
Narcissa Malfoy, algida nelle sue vesti nere, in quel marito che mai avrebbe rivisto, aveva testimoniato con grazia lunare, brillante nella penombra, per quel figlio manovrato da altri.
Ma, un anno dopo l’ultima battaglia, era stata la moglie di Malfoy a cambiare le carte in tavola.
Daphne, ninfa silvestre che aveva camminato in punta di piedi sugli stagni, facendo sbocciare lillà da terre inaridite, si era presentata al processo con passo pesante, oscillante, come se tutta la sua grazia fosse stata risucchiata da quel figlio che le nuotava nel grembo arrotondato.
Daphne Greengrass-Malfoy, vestita di nero sbiadito, con una corona di lillà nei capelli biondi, radi, era apparsa come un fantasma, la pelle tesa sugli zigomi affilati, senza sorridere.
Aveva scrutato ogni singola persona presente in quella stanza, dal marito, alla suocera, ad Harry Potter che la guardava come se fosse stata un’apparizione divina. La mano sul ventre prominente, la mano della fede, della promessa, aveva scosso il capo.
Si erano sposati un anno prima e nessuno aveva presenziato alla cerimonia, su esplicita richiesta dello sposo, che, barba incolta e occhi tristi, attendeva di essere l’ultimo di una sfilza di condannati.
Harry Potter, sorriso clemente di chi ha visto troppo, le aveva fatto cenno di sedersi accanto al marito, sebbene non fosse la solita prassi: la verità era che Daphne Greengrass, occhi allucinati come diluiti dal tempo, che qualcuno sosteneva essere verde foresta sbiadito in un grigio acquoso, incuteva quel timore reverenziale di una persona che non si riesce a comprendere.
E lei si era seduta, mano nella mano con Malfoy, e aveva puntato quel suo sguardo alienato su Harry Potter, senza un sorriso, un cenno. L’aveva guardato, senza muovere un fiato, con il petto che nemmeno pareva gonfiarsi e sgonfiarsi del suo respiro. Aveva stretto le mani fra loro, come in preghiera, sul vestito in tessuto costruito in rammendi, e aveva sospirato.
Suo marito, il braccio attorno alla vita slargata di Daphne, seguiva il ritmo delle sue parole, in un discorso talmente lungo che se ne perse il conto. Ma Harry Potter lo comprese poco, nel vedere quella minuscola fiammella accesa nel viso della donna, nel momento in cui Malfoy l’aveva accolta nella gabbia fra le sue braccia, senza accenni a ordini o imposizioni.
Non le fecero più di una domanda, che meritò una singola lacrima incastrata fra le ciglia.
«Non potete capire né immaginare».
Harry Potter, guardando Malfoy negli occhi, dichiarò che era esattamente come aveva detto Daphne: non si poteva capire né immaginare.
 
 
***
 
 
Penso che siamo nel vicolo dei topi
Dove i morti hanno perso le ossa.
 
T.S.Eliot, Una partita a scacchi
 
 
«Daphne…».
I sussurri suonano come scampanellii nell’acchiappasogni: Draco non riesce a dormire, come sempre, e sua moglie fissa i vetri delle finestre come per leggervi risposte.
L’aria nel Manor è soffocante, di ricordi, di pianti, e li tiene svegli per notti intere, seguendo l’andamento dei pianti del piccolo Scorpius.
«Perché continui a rimanere qui, con me?» domanda, e se lo chiede anche lei. «Tu non mi servi più».
«No, infatti» conviene lei. «Io non ti servo. Ma a me serve qualcuno che mi guardi dormire e mi svegli quando diventa così soffocante. Mi serve qualcuno che mi difenda, se ne ho bisogno».
Se non fosse buio e lui non fosse distratto dal soffio del vento, giurerebbe di averla sentita piangere.
«Mi serve Blaise, Draco» ha la voce rotta, spezzata, frantumata. «Voglio uscire di qui».
Draco la guarda e c’è condiscendenza dipinta sul suo viso, con pennellate virgolettate per donargli l’impressione. Daphne, in tempi che entrambi hanno sepolto insieme ai morti, era stata la sua unica amica oltre a Pansy. Da bambini si erano rotolati sullo stesso prato, sotto lo stesso cielo.
Da adolescenti, avevano passato mesi insieme, Draco a inseguire la piccola Asteria, mentre Daphne e Blaise ridevano di mille storie narrate dagli alberi.
«Cosa pensi di poter fare, Daphne?» mormora lui, esausto. «Stai con me per sentirti protetta. Se io ti lasciassi andare, cosa faresti? Ci pensi mai?».
La risata di Daphne è quella che risuona in ogni angolo, in ogni corridoio dell’oltretomba: chi si volta è perso per sempre.
«Penso che siamo in trappola, Draco: io con te e tu con me, senza che si possa uscirne, in qualche modo, o andar via» risponde Daphne. «Penso che ci hanno chiusi qui, nel vicolo dei topi, da soli, senza nessuno, con le ossa a farci compagnia. Per quello che ne so io, Draco, è come se fossimo già morti».
 
 
***
 
 
Ricordo
Quelle sono le perle che furono i suoi occhi.
"Sei vivo, o no? Non hai niente nella testa?"
 
T.S.Eliot, Una partita a scacchi
 
 
Una foto impolverata governa il tavolo, cornice di argento annerito senza che qualcuno la incanti per farla rimanere intonsa, Asteria Greengrass che volteggia in un campo di lillà.
Qualche volta, ed è quando Daphne fissa Draco e continua a mormorare nenie alienanti su amore e morte, a Draco piace immaginare che quella non sia Asteria, ma Daphne. Ricorda ancora com’era, quando c’era lei, la piccola Greengrass alta un metro e cinquantatré con un calzino solo1, e Daphne vagava fra le fronde del suo salice, mano nella mano con Blaise Zabini.
Ma sono tempi che non importano più a nessuno, così sia, sostiene Daphne appollaiata sul suo albero morto e crollato nella polvere: così sia. Ma, guardando Draco negli occhi, intravede il bagliore di un ricordo, ed è questo che la tormenta in maniere inumane.
Perché, quando la luce scivola via dal volto dei coniugi Malfoy, non rimane che un riverbero dell’antico scintillio, sul viso di Draco, pallido di cento lune, il viso di sua madre.
Narcissa gioca a scacchi con il quadro di Lucius, Scorpius sulle ginocchia, e ride anche. Lo batte ogni volta, o forse è lui che la lascia vincere, finché non è ora di andare a dormire in un letto troppo vuoto. Ed è così che una domanda risuona in ogni parete, in ogni brandello di muro che s’interseca con il suo vicino, creando angoli immersi d’oscurità. Ricordi?
Draco, sguardo vacuo di perle incastrate nella cavità oculare, sorride al buio, così che Daphne non riesce a vederlo, ma solamente a sentirlo: per quel che conta è come se fossimo già morti, Draco.
E lui, in silenzio, si lamenta di quella vita senza senso, senza logica.
«Se fossimo morti, Daphne, non saremmo ridotti così. Siamo vivi oppure no, siamo ancora qui a respirare o siamo semplicemente impazziti? Cos’hai pensato, ancora?».
Ma Daphne non risponde. Lo guarda, ma senza vederlo realmente, e sospira pesantemente, come se non riuscisse a farlo ragionare. E la verità, quella triste e poco poetica, è che Daphne l’ha lasciato già da tempo: se non fosse per la protezione fisica, e mentale, sarebbe già voltata via, una ninfa che corre fra i salici.
 
 
***
 
 
Le ninfe son partite.
E i loro amici, credi bighelloni di direttori di banca della City;
Partiti, e non hanno lasciato indirizzo.
Presso le acque dei Lemano mi sedetti e piansi...
 
T.S.Eliot, Il sermone del fuoco
 
 
Giornate in cui Daphne corre via, avvolta in un mantello verde smeraldo, e ogni volta Draco si convince che non tornerà mai più, così che si stende sul letto, ancora vestito, le scarpe che grondano polvere e fiori appassiti di lillà: le ninfe son già partite, dice, e ride della sua stessa battuta.
Le ninfe son partite.
Accasciata sulla sponda di un rado fiumiciattolo, materializzata in chissà che campagna scozzese, paesaggi aspri come gli uomini, e anche più dolorosi: Daphne sparisce con cadenza bisettimanale, e almeno una volta ogni tre, Draco si convince che sarà per sempre. Un giorno partirà, Daphne, sparirà e non tornerà mai più. Un giorno prenderà il bordo della gonna fra le dita, scoprendo i piedi nudi, e correrà verso la brughiera, perdendosi fra gli alberi.
La ritroveranno anche, un giorno, un corpo sfregiato di intemperie che gioca a nascondersi sui rami degli alberi, le gambe penzoloni, il viso troppo vicino a ramoscelli affilati come cocci di vetro.
Acque fangose che l’avvolgono come una tomba, oppure, e le rubano i respiri per donarli alle ninfe marine, o alle alghe.
Non è nemmeno un momento così lontano, pensa Daphne ogni volta che si ferma davanti a un torrente o un fiume, lasciando che l’acqua le lambisca le caviglie, e sospirando affranta. È che il tempo che l’ha rovinata, smussata e resa opaca con ogni secondo che è passata. È stato il tempo.
Precipitando in una dimensione senza spazio, illogica, si è persa per sempre nel suo dolore annientante, in quell’indifferenza pericolosa provata per Draco: si dice che l’indifferenza sia la base, se non dell’amore, dell’odio puro, senza riserve.
Perché Blaise è morto e Draco no? Cos’aveva lui di così speciale per far sì che la passasse liscia anche questa volta, lui che meritava di sopravvivere molto meno del mio Blaise?
È logorante l’assenza di una risposta, il momento in cui Daphne si è resa conto che il suo dubbio cosmico non ha nulla di risolvibile. E fugge, così, per non bagnarsi di rassegnazione fin dentro le ossa, avvelenandone il midollo.
Perché Asteria è morta e io sono ancora qui? Perché, se Blaise è dovuto morire, non sono potuta andare anche io, che forse questa vita l’avrei voluta mille volte meno di mia sorella? E perché mi è stato portato Draco, che sacrificherei su una croce per poter riavere Blaise? Perché devo odiarlo?
Il rumore dell’acqua è assordante: le ninfe son partite.
 
 
***
 
 
E io Tiresia ho presofferto tutto
Ciò che si compie su questo stesso divano o questo letto;
lo che sedei presso Tebe sotto le mura
E camminai fra i morti che più stanno in basso
 
T.S.Eliot, Il sermone del fuoco
 
 
E Draco che si rende conto di averlo sempre saputo, in fondo, che Daphne sarebbe scappata in ogni caso, in mille modi diversi, senza volerlo nemmeno, o forse sì: la verità è che l’unico modo per sopravvivere è guardarsi le spalle a vicenda e, se lui può ancora girare per Londra impunemente è grazie a sua moglie. Daphne vestita di nero che ha messo a tacere schiere di maghi e streghe con poche parole, con uno sguardo e quel ventre che si tendeva, indecente, sotto la curva della stoffa.
Draco, sua moglie, non l’ha dovuta difendere da nulla: non ci riesce, a mandare via i suoi fantasmi, quando la vede camminare a piedi nudi sulla terra arida, chinandosi per estirpare un solitario fiore di lillà, non ci riesce.
Ha qualcosa che non va, Daphne, se n’è reso conto, ultimamente, quando l’ha vista sparire ogni singolo giorno, e ogni singolo giorno è stato sicuro che fosse l’ultimo. L’ha vista dondolare i piedi, seduta sul suo vecchio tronco, salmodiando preghiere antiche come l’universo stesso.
Narcissa, con grazia glaciale, ha scosso il capo, infinitamente rassegnata: lasciala perdere, Draco, risolverà anche questa. Non è mai stata una donna particolarmente equilibrata.
E Draco, scambiando le fughe di Daphne per gradita rassegnazione, ha silenziosamente ucciso quel barlume di coscienza che lo spingeva a correrle dietro.
Daphne, seduta sulla riva di un torrente fangoso, piange lacrime da ninfa: lei, che ha presofferto tutto ciò che si era compiuto in ogni angolo della sua vita, prevedendo una cattiveria di stampo cosmico, si era lasciata schiacciare da quel famoso peso sul petto, di quelli che comprendi solo nel momento in cui riescono a soffocarti.
Camminando nella boscaglia, Daphne si è calmata, dopo quindici giorni di fuga, rendendosi conto che è solamente lo stesso tempo che si ripete all’infinito, lo stesso spazio che si dilata senza che si possa reagire, lo stesso mondo che, sebbene tu vorresti che la smettesse, continua a girare.
Camminando vicino agli alberi, pensando ai suoi morti, Daphne si è accostata a un vecchio salice e ha deciso che sarebbe stata l’ultima volta.
 
 
***
 
 
Una corrente sottomarina
Gli spolpò l'ossa in sussurri. Come affiorava e affondava
Passò attraverso gli stadi della maturità e della giovinezza
Procedendo del vortice.
 
T.S.Eliot, La morte per acqua
 
 
Il mare gorgoglia incantesimi: c’è un’onda solitaria che si appiglia alla pelle di Daphne, facendola brillare di sale. Non torna a casa da due giorni, Draco non le ha mandato nemmeno una lettera, Narcissa avrà gioito della sua assenza, coccolando il nipote adorato.
Daphne sospira. Nei suoi occhi diluiti di stanchezza, si vede il mare.
La pancia, appena arrotondata, fa già capolino dalle piaghe del vestito. Ma, questa volta, Daphne dice di no e, per sua volontà, per questa sua presa di posizione, un bambino le soffocherà dentro.
L’acqua le lambisce la gola, mescolandosi alle sue lacrime.
Draco, ignaro, beve Burrobirra sulla poltrona dello studio, Scorpius chiama “mamma” sua nonna.
E Daphne sorride per l’ultima volta, nell’acqua salata, pensando a Blaise, al salice piangente, ad Asteria.
Le ninfe son già partite, si dice, muovendo qualche altro passo.
La sabbia manca sotto i piedi – e, per una volta, Daphne si è dimostrata contenta di non aver mai imparato a nuotare, lei, una ninfa silvestre – e la sua chioma zuppa aderisce alla schiena.
 
 
Colui che era vivo ora è morto
Noi che eravamo vivi ora stiamo morendo
Con un po' di pazienza
 
T.S.Eliot, Cosa disse il tuono
 
 
Un salice piangente: una mattina di quindici anni dopo, Scorpius Malfoy è salito alla base dell’albero, circondato da una corona di fronde fragili come sabbia vetrificata, ed ha pianto anche lui.
Gli hanno parlato di sua madre, quel giorni, e di come ne hanno trovato il corpo bianco e freddo, sporco di sale, gli occhi tornati del verde originale, il ventre gonfio di sua sorella, una bambina.
Gliel’hanno spiegato, e lui ha capito di averlo sempre saputo: c’è qualcosa che vaga nel giardino ricostruito del Manor, un campo di lillà con un salice piangente, ed è una figura vestita di bianco sporco, o forse è azzurro, che corre fra i fiori. Si ferma sempre fra le fronde del salice, con un libro che non legge e una bocca che non lascia scivolare parole.
Scorpius la guarda, silenzioso, e non riesce a non meravigliarsi.
La ninfa dei boschi piange linfa.
 


 
   
 
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