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Autore: Keep_Running    13/07/2015    3 recensioni
Angie Evans: un metro e settanta di puro sarcasmo, pericolosa scaltrezza, e un innato talento nel non fare niente ed essere stanca comunque.
Una ragazza strana secondo alcuni, molto strana secondo altri.
A fregarla?
La sua incredibile curiosità.
E anche quella feccia terrestre di Michael Clifford, sì.
Ma voi? Voi lo guardereste il vostro futuro?
Ecco dei grandiosi motivi per non farlo.
Genere: Commedia, Romantico, Sovrannaturale | Stato: in corso
Tipo di coppia: Het | Personaggi: Nuovo personaggio, Un po' tutti
Note: nessuna | Avvertimenti: nessuno
Capitoli:
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Que sera, sera

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When I was just a little girl,
I asked my mother
“What will I be?
Will I be pretty, will I be rich?”
Here's what she said to me
 








Erano le 7.30 del mattino. Anzi no, forse erano le 7.35: la sveglia era suonata da un po’, ma la voglia di alzarsi dal letto era davvero sotto le scarpe quella mattina – o sotto le pantofole, se vogliamo rimanere nell’universo pigiamesco in cui mi sono bloccata.
“Muoviti Angie! Devi andare a scuola!”, sentii gridare mia madre, come se le risatine schernitrici di mio fratello non bastassero.
E sì, lo sapevo che dovevo andare a scuola.
Perché era dodici marzo e il dodici marzo si va’ a scuola.
“Sai, anche io non mi alzavo di letto la mattina. Quando avevo sette anni. E la febbre a quaranta. E fuori c’erano  - 4° e…
“E ho afferrato il concetto, David, grazie
Lui, ad accogliermi la mattina c’era dalle 7.29, tanto per divertirsi a vedermi soffrire prima di scappare nella sua amata facoltà di legge.
Fratello premuroso per alcuni, pressante per altri.
Per me, nonostante la lode alla maturità e una vicina laurea incredibile in legge, rimaneva un pirla fatto e finito.
“Ma non hai un cazzo da fare, tu? – lo schernii, tanto per crearmi l’illusione di poter controllare le sue fastidiose azioni con parole dure – Perché non torni a divertirti con la tua amata Costituzione Americana?”
Ragazzi, il linguaggio!”, si sentì urlare da sotto; ma era una frase plagiata talmente tante volte che ormai non spaventava nessuno.
“Dio benedica l’America, dico io” rise lo stronzo, accompagnando la nobile frase al tipico saluto militare.
“Sei proprio un bastardo”, gli ringhiai contro.
Allora: “Ho detto il linguaggio, razza di maleducati”, urlò più forte.
E ok, forse mentivo quando dicevo che quella stupida frase non faceva più paura a nessuno.
Mio fratello doveva pensarla proprio al mio stesso modo, dato che lasciò la stanza senza aggiungere altro.
Strano.
Davvero strano.
Solitamente la grande frase finale ad effetto la diceva sempre, ed ero sicura che l’avrebbe detta ad ogni costo, anche nel mezzo di un’apocalisse.
Poi, con la sua indole da avvocato presuntuoso, doveva avere sempre l’ultima parol…
“P.s.: con i pigiami di Jessica Fletcher non troverai mai un ragazzo”
E appunto.
Aspettavo solo quella frase – così come aspettavo il mio dito medio alzato, la sua risatina, e la mamma che “muovetevi, checche”, perché proprio non aveva ancora capito cosa volesse dire davvero ‘checca’.
“Mamma, ti ho detto di non chiamarmi checca!”, sentii lamentarsi David dietro la porta.
E con il dolce suono del suo disagio da Maschio Alfa mancato, scelsi il mio outfit scolastico.
Non che ci fosse molto da scegliere, alla fine: tralasciando che metà del mio armadio era occupato da coperte invernali delle Superchicche, non ero una tipa che faceva molto caso al proprio abbigliamento.
E neanche il resto del mondo, ci faceva caso – diciamo che ero una di quelle ragazze anonime ma non troppo che non avevano ancora dato un senso alla propria vita.
E cosa potrebbe indossare una ragazza del genere?
Jeans, maglietta dei The Cure fin troppo scolorita, e delle scarpe talmente vecchie da avere la suola sfondata.
Ma ehi, era il periodo in cui la roba trasandata andava di moda, no?
Beh, la risposta era no. Ma mi piaceva credere che se i ragazzi fighi giravano per i corridoi della scuola sfoggiando con orgoglio i loro pantaloni strappati, potevo ottenere un effetto analogo con le mie scarpe sfondate.
Detto in altri termini, non avevo voglia di comprarmi delle scarpe nuove.
Che poi, era il dodici marzo – che importanza poteva avere il mio abbigliamento?
“An! Se non ti muovi ci vai a piedi, a scuola!”, cercò di minacciarmi l’Evans maschio.
Certo, casa nostra da scuola distava di circa cinque minuti a piedi ma ehi, la pigrizia è un fattore fondamentale nelle scelte della vita.
Così sbuffai, feci una smorfia davanti allo specchio, e presi il mio zaino degli Avengers.
Ora, non fraintendete: lo zaino degli Avengers era una soluzione provvisoria all’improvvisa assenza del mio vero zaino – proprio così, zaino, niente Pinko Bag  per Angie Evans.
L’inutilizzabilità del mio fidato compagno era infatti causata dal vomito verde di quella strana creatura bavosa e pelosa chiamata comunemente cane – o ‘migliore amico dell’uomo’ secondo gli stolti che popolavano il nostro pianeta.
“Tesoro fai in fretta, non puoi arrivare in ritardo a scuola”, fece apprensiva mia madre, quando la raggiunsi in cucina.
Chiaramente lei non sapeva che arrivavo sempre cinque minuti in ritardo in classe per evitare le cheerleader fastidiose, ma questa è un’altra storia.
In quel momento ero troppo occupata a fissare con astio il malvagio artefice del mio disastro sociale (ergo, lo zaino da seienne con i genitori divorziati): Kyle, il cane di David.
“La finisci di guardarlo in quel modo?”, mi riprese quest’ultimo, che proprio non aveva mai sopportato quest’odio reciproco che legava la sua amata sorellina al suo diabolico cane.
“Questo bastardo…” sussurrai, senza abbandonare la mia famosa espressione corrucciata da ‘vorrei che sparissi dal mondo’.
L’avevo dedicata a pochi esseri viventi, nella mia vita: a quel cane, al vecchio postino che frugava i miei pacchi di Amazon, e a Michael Clifford.
“Un’altra brutta parola e ti caccio da casa mia”, fece minacciosa mia madre.
E quando mi girai verso di lei con una faccia da cucciolo – altro che Kyle – persi ogni traccia di nervosismo mattutino.
L’unica e sola causa? I pancake.
Che cosa aveva regalato Dio agli uomini a parte la vita, il mondo, e gli animali fastidiosi?
La pizza, chiaramente. Ma subito dopo c’erano i pancake, quindi avevano comunque un’ottima posizione nella classifica delle cose belle del mondo.
“MAMMA!”, urlai con una gioia indescrivibile, che neanche il vincitore di American Idol.
“Figlia, continua a dire parolacce e i pancake te li metto nel…”
“Mamma!”, urlò quella volta David, con una faccia più sconvolta che altro.
Mamma sbuffò infastidita, ci lanciò uno sguardo di ghiaccio e “Basta! Voi figli siete esasperanti”, disse, uscendo di casa senza aggiungere altro.
Episodio strano, in casa nostra. Ma come ogni problema potenzialmente problematico, decidemmo tacitamente di ignorarlo.
“Pasfafmi ifl fsufcco”, mi disse il fratellone, con la bocca piena e senza nessun rimorso.
Poi si chiedeva perché fosse ancora single.
“Fai più schifo del tuo cane”, dissi disgustata, passandogli comunque il suo amato succo all’arancia.
Io ero una fan di quello alla mela, quindi la nostra unione fraterna poteva andare avanti senza particolari drammi.
Lui deglutì in fretta, strappandomi quasi la bottiglia di plastica dalle mani: “Il mio cane non fa schifo”, lo difese.
Gli lanciai un’occhiata eloquente, facendogli segno di osservare le sporche azioni del suo beniamino: lo scherzo della natura stava cercando di mangiarsi la coda, continuando a girare in tondo.
Che patetico essere.
“E’ stupido”, dissi ovvia.
“Non è stupido. Solo delle volte ha dei momenti di confusione”
“Perché ha un nome da persona”, continuai.
“Perché è un cane speciale”
“E’ l’incrocio di tipo ventitré razze diverse”
“Ha avuto un passato difficile. Lo vuoi forse condannare per questo?”
“Sei proprio un…”
E prima che potessi dire la parola con la s, così come diceva mamma, suonarono al campanello.
Per un attimo temetti che fosse proprio la mia genitrice, pronta a riprendermi per una brutta parola che non avevo neanche fatto in tempo a dire.
Ma in casa Evans, a fare la sua trionfale entrata, non fu altro che Raven.
Semplicemente Raven.
Ed in effetti ce lo dovevamo aspettare dato che le offrivamo un passaggio a scuola tutte le mattine.
“Uh, pancake”, mi salutò così, quando le aprii la porta.
Un’amicizia platonica, insomma.
Tuttavia non toccò cibo: per tenersi in forma si sottoponeva ad una vomitevole dieta di sole cose sane che mi faceva accapponare la pelle ogni volta.
“Ciao Raven”, la salutai, scuotendo la testa ormai rassegnata: quella furia esplosiva di entusiasmo e felicità non sarebbe mai cambiata.
“Ehilà, Angie!”, mi salutò allegra.
A scuola eravamo un po’ come la strana coppia: lei era l’amica felice, bella e brava a scuola; io ero l’amica.
Non che me ne fregasse qualcosa: vivevo la mia vita comunque, e stare all’ombra della mia amica mi proteggeva dal sole, suvvia.
Poi ci conoscevamo da una vita: vicine di casa fin dall’infanzia, genitori amici di famiglia… era inevitabile.
“Ciao Raven”, la salutò pure il preservativo rotto, con un sorriso.
Lei ricambiò con un sorriso, per poi gettarsi verso il cane.
Ebbene sì, ero l’unica haterdi Kyle. Avrei creato un profilo twitter per insultarlo in anonimo.
“Allora, andiamo?”, chiese poi.
“E va bene”, si arrese mio fratello, dirigendosi verso il bagno.
Io lo seguii a ruota.
Un altro particolare?
Beh, potevo considerarmi l’unica ragazza fortunata del mondo ad avere un fratello maggiore e una migliore amica che non avevano mai avuto una cotta reciproca.
Un successone, ragazzi.
Certo, ad alimentare il fuoco di questo disastro di clichè giocava anche il fattore estetico: non eravamo esattamente una bella famiglia.
Ma eravamo intelligenti, almeno: l’avevamo capito fin dalla prima infanzia, quando i nostri parenti al posto di farci i complimenti per i vestitini nuovi ci fissavano con un sorrisino tirato e dicevano ‘Siete simpatici, nipotini!’.
Ed eravamo veramente simpatici, solo che nessuno ci credeva davvero.
“Passami il dentifricio”, interruppe i miei pensieri il ragazzo.
“Ma prenditelo da solo”, ero nel pieno della mia pulizia dentale, non avrei interrotto quel momento idilliaco per un suo stupido capriccio.
“Ma tu sei più vicina”
“E’ un bagno di due metri quadri. Tutto è vicino a tutto”
“Sì ma tu di più”
“Ma quanti anni hai?”, mi lamentai scioccata.
“Più di te, sfigata”
“Aggressione verbale, risarcimento psicologico”
“Convivenza forzata, sequestro di persona. Tre anni di prigione”
“Lamentati con mamma, per quello”
“Sei la sorella peggiore del mondo. Vuoi davvero sfidare un avvocato?”
“Grande avvocato, vuole per caso ricordarmi quanto ci ha impiegato ad imparare a pisciare nel water?”
“Sei femmina, non puoi capire i disagi di prendere bene la mira”, si lamentò, sofferente.
“EVANS! MUOVETEVI!”, ci spronò l’intrusa della casa, più nervosa del solito.
Quella ragazza era più lunatica di una donna incinta.
“E va bene!”, mi lamentai.
Lanciai distrattamente il famoso dentifricio a mio fratello, per poi raggiungere la mia amica bionda.
Ed era nervosa davvero, Raven.
Tanto nervosa da farmi sospettare una possibile ragione particolare.
“Ti devo parlare”, ne ebbi la conferma.
Che mi volesse lasciare?
No, impossibile. Passava metà della sua vita a mandarmi video di gattini che giocavano a palla, non avrebbe più avuto niente da fare nella sua vita ipotizzando una mia imminente assenza.
“Spara”, dissi più tranquilla a causa della recente consapevolezza.
No, non mi poteva rimpiazzare.
“Sto arrivando!”, nessuno calcolò David.
“Ecco… io…”, giocava con il suo braccialetto rosa.
E quando giocava con il suo braccialetto rosa significava che aveva fatto qualcosa di sbagliato.
Non che quel particolare nascondesse rivelazioni shock: per lei era una vergogna anche mettere le calze di colore diverso – quasi piangeva la volta che me l’aveva confessato, nei bagni della scuola.
“Sono arrivato!”, continuammo ad ignorarlo.
“Io… oddio, è difficile da dire”
“Dillo e basta”
Insensibile? Forse, ma lei lo sapeva, eppure continuava ad essermi amica.
“Io esisto”
“Zitto David”, dicemmo insieme, senza neanche guardarlo.
“Stupide ragazze”
E proprio mentre stavo per rivendicare la mia anima femminista con qualche citazione coraggiosa, l’uomo di casa ci trascinò fuori con la forza.
Che poi, forza; non era chissà quale sollevatore di pesi massimi.
Aveva le braccia più inutili di due stuzzicadenti, degli addominali che ogni tanto mandavano delle cartoline dalle Hawaii e i quadricipiti che avevano lasciato la casa per divergenze artistiche.
Ma io e Raven eravamo persino peggio di lui.
“Maiale”
“Manesco”
“Non si trattano così le donne”
“La delicatezza l’hai venduta su ebay per comprarti lo shampoo anti-forfora?”
“Wow, calmatevi tigri”, ci sgridò bonariamente.
Tuttavia ci diede le spalle, ma solo per nascondere il fiatone: era un pappamolle, niente da fare.
Entrammo in macchina solo per non fargli venire un infarto in vista di un futuro sforzo fisico.
“Stavi dicendo?”, mi rivolsi alla bionda, che ancora non aveva rivelato la sporca verità.
“Di che cosa state parlando?”, chiese curioso l’autista.
Io sbuffai e “Tu fatti i cazzi tuoi”
“Ok, te lo devo proprio dire”
Raven prese un respiro profondo, mentre sia io che David continuavamo a guardarla curiosi.
Fortunatamente il mio fratello genio lanciava anche uno sguardo alla strada, ogni tanto.
Così, giusto per non morire prematuramente.
“Stasera esco con Michael Clifford”
e l’avete presente quando l’unica cosa bella della vostra vita se ne va?
Ecco, io non provai quello.
Ma avevo l’orribile sensazione che quella cosa bella sarebbe stata rovinata.
Ci fu un primo momento di sorpresa.
Subito seguito dalla rabbia, poi dal panico, e infine dalla confusione.
Una domanda sorse spontanea nella mia testa: ‘Che cazzo sta succedendo?’
Poi mi ripresi un attimo, e la rabbia tornò.
“Michael Clifford? Sul serio?”, quasi le urlai contro, dimenticandomi per un momento la fragilità emotiva della mia amica.
“Oh mio Dio! Michael Clifford?!”, mi fece il verso l’Evans stupido.
“Ecco sì, mi ha chiesto di uscire e io…”
“E tu hai deciso di far finta che non abbia una faccia da stupratore?”, chiesi ovvia.
Mio fratello intanto, dai sedili anteriori, continuava a ridacchiare.
“Solo perché ha i capelli blu non significa che è uno stupratore” sussurrò Raven, cercando di farsi più piccola possibile.
Mi temeva, in quel momento.
E per quanto mi sentissi potente al pensiero che qualcuno potesse aver davvero paura di me, era pur sempre la mia migliore amica – e la mia migliore amica non poteva aver paura di me.
Così mi calmai e “I capelli sono l’ultima cosa che lo rendono un possibile stupratore”, dissi una cazzata.
“Lo dici solo perché lo odi”
Certo, lo odiavo.
Ma il mio parere era assolutamente, puramente, completamente oggettivo.
E seh, certo.
“E’ la troia della scuola!” dissi ovvia.
“Ma non è maschio?”, chiese confuso il ragazzo.
“Oh, stai zitto – mi lamentai, nuovamente – rimane la troia della scuola”
“Ma voglio dargli una possibilità”, disse più sicura.
E allora che altro potevo aggiungere, io?
Non erano affari miei, alla fine.
Certo, la mia migliore amica che usciva con i mio peggior nemico non era una rosea prospettiva, ma alla fine cosa potevo farci?
Era una ragazza intelligente: non si sarebbe fatta abbindolare da quel bel faccino, e quel cazzone di Michael Clifford si sarebbe arreso in fretta.
Nessun si sarebbe fatto male, no?
“Va bene”, diedi voce ai miei pensieri.
“Va bene davvero?”, e non capivo il luccichio dei suoi occhi.
Aveva davvero bisogno del mio permesso?
“Certo, basta che stia attenta”, le sorrisi, intenerita dalla sua preoccupazione nei miei confronti.
Lei rise gioiosa, per poi abbracciarmi forte.
Ah, l’amicizia.
“Ora che avete raggiunto il momento top della vostra amicizia, potete uscire di casa il sabato sera ed evitare i pigiama party a casa nostra?”
“No”, risposi secca a mio fratello.
“Veramente, non ho ancora finito”, ci sorprese Raven.
Aveva davvero un’altra bomba?
Non poteva essere peggio della prima.
Eppure, sembrava persino più nervosa di poco prima.
“Eco… io…”
“Oh no, adesso ricomincia”
“Ti vuoi tappare la bocca?!”
Lui mi fece una linguaccia, ma alla fine ubbidì.
Che fratello di merda che avevo.
“Non voglio andare all’appuntamento da sola”, sputò fuori, ancora timorosa.
E ok, non sarò stata una cima di ragazza, ma capii subito cosa intendesse.
Inutile dire che mi si gelò il sangue.
Come potevo mandare a fanculo l’unica persona che mi stava sempre vicino?
Non volevo morire accompagnata solo dalle lacrime di mio fratello: sarebbe stato imbarazzante.
Sicuramente, poi, l’avrebbe fatto lui il discorso sulla me defunta: quante cazzate avrebbe detto?
No, non potevo perdere la mia unica amica.
Ma Michael Clifford ne valeva davvero la pena?
“No”, risposi a voce alta.
“No cosa?”, chiese l’homo erectus della situazione.
“Ti prego”, mi supplicò la bionda, quasi con le lacrime agli occhi.
Ma non mi faceva pena, non quella volta.
Quando si trattava di Michael Clifford non guardavo in faccia nessuno.
“Lasciami elencare le cose brutte del mondo…”, cominciai.
“Oh no, ancora…”
“Ancora cosa?”, mi rivolsi infastidita a David.
“Ti metti ad elencare le cose brutte del mondo ogni tre secondi”, si lamentò lui.
“E ogni volta dici cose diverse”, gli diede man forte Raven.
E fu nel momento in cui si allearono contro di me che mi sentii pienamente tradita.
Cosa stava succedendo al mondo?
“Allora sarete ben lieti di sentire la classifica ufficiale”
I loro sbuffi mi fecero credere che non ne erano affatto entusiasti, ma non mi fermarono di certo.
“Al primo posto troviamo Kyle”
“Stronzetta”
“Zitto. Al secondo posto troviamo Michael Clifford”
“Prevedibile”
“Zitta pure tu. E al terzo posto cosa troviamo?”
“Illuminaci”, mi derise il sangue del mio sangue.
“Gli appuntamenti a quattro”, dissi secca.
Ormai la macchina era ferma davanti alla scuola, ed eravamo pure in orario.
Ma nessuno si azzardava ad uscire.
“Ma andiamo!”, si lamentò lei.
“No”
“Mi vergogno ad andarci da sola”, continuò disperata.
Mi stava quasi per convincere, lo ammetto: se c’era una cosa che odiavo, era infatti vedere la mia migliore amica in quelle condizioni.
Ma… Michael Clifford, insomma.
“Previsioni della serata: io picchio Michael, lui picchia me, tu piangi. Assolutamente no”
“Michael non alzerebbe mai le mani su una ragazza”, lo difese lei, calmandosi per un secondo.
Con un gesto rapido della mano di asciugò una lacrima.
Tutto quel casino per un coglione tinto.
“Rettifico: Io picchio Michael, lui muore, tu piangi. Preferisci?”
“Sei un mostro”, sputò fuori lei.
Lo ammetto: non mi fece nessun effetto. Sapevo che non lo pensava assolutamente, era troppo buona e mi voleva troppo bene.
Ed io ero troppo menefreghista.
Così, corsi via dalla macchina, cercando di evitare quella pazza ragazza.
La prima ed ultima volta nella mia intera vita in cui corsi per raggiungere la scuola.
Com’è strana la vita, eh?
E prima di allontanarmi definitivamente, un ultimo sussurro confuso:
“Ma chi cazzo è Michael Clifford?”
 
***
 
 
Era la pausa pranzo, ma era anche giovedì.
E il giovedì, come ogni settimana, Raven si fermava con i suoi ‘colleghi’ – come li chiamava lei – del club di canto corale. ‘Se non pranzo con loro, durante i concerti mi metteranno dietro il pianoforte!’, continuava a dire.
Inutile dire che le sue preoccupazioni fossero tutte infondate: era l’unica gnocca in un branco di sfigati cessi, la sfoggiavano al centro del coro solo per distrarre il pubblico dalle loro brutte facce.
Ingegnoso, lo devo ammettere.
Tuttavia, per quanto mangiare in solitudine fosse vista come la peste sociale per i miei coetanei, a me non dispiaceva più di tanto – ci volevano dei momenti romantici, solo io e il cibo spazzatura che spacciavo per pranzo.
Poi ammettiamolo: delle volte quella ragazza, con i suoi drammi da teenager ossessiva, era proprio una rottura. Il silenzio, in quella giornata, era stata una meta piuttosto agognata.
Silenzio, patatine fritte (pranzo ragazzi, pranzo), e nessuna conversazione imbarazzante su Michael Clifford.
Cosa potevo desiderare di più?
Che il fato non mi prendesse per il culo, per esempio.
Perché proprio in quel momento una testa esageratamente blu mi si parò davanti.
Michael Clifford non si era mai seduto a mensa insieme a me, e mai l’avrebbe fatto.
La prima domanda che mi posi, ancora con la bocca spalancata, fu qualcosa come ‘Che cazzo sta succedendo?’. La seconda volta in una sola giornata, che bingo.
Già, ero sempre stata una ragazza piuttosto confusa.
Chiusi la bocca, e protessi il mio cibo con il braccio sinistro.
Successivamente assottigliai lo sguardo, ricambiando senza esitazione quello ghiacciato di lui.
Era incazzato, e anche molto.
Ma ehi, era pur sempre un tizio con i capelli fottutamente blu, chi sarebbe riuscito a prenderlo sul serio?
Evans” grugnì infastidito, come se poi fossi andata io nel suo tavolo.
“Ehilà, Angie”, disse invece allegro l’amico biondo al suo fianco.
Luke Hemmings prese subito posto davanti a me, senza abbandonare il suo sorriso.
Ero talmente impegnata a tentare di bruciare con la forza del pensiero gli orribili capelli di Clifford che non mi accorsi neanche del suo arrivo.
Ma quando lo feci, non riuscii a fare a meno di ricambiare il suo sorriso gentile.
“Ciao Luke”, gli feci un cenno della mano.
Come poteva un angelo come Luke Hemmings essere amico di una schifezza vivente come Michael Clifford, proprio non lo capivo. L’amicizia che li legava, tuttavia, era un po’ quella di cui gli scrittori solitari amavano parlare nell’intimità dei loro libri: c’erano sempre l’uno per l’altro, passavano la metà del loro tempo a ridere, amici fin dalla prima infanzia e con una lista di cazzate fatte insieme più lunga della lista della spesa che preparavano, insieme.
Ero gelosa? No, io avevo Raven.
Ma Ok, forse solo un pochino.
“Non so, volete del thè per chiacchierare meglio voi due?” sputò velenosa la piattola.
Dire che Clifford odiasse la mia amicizia con il biondo era un eufemismo.
Dire che io invece crogiolassi nella gioia ogni qualvolta scherzassi col biondo in sua presenza, era un eufemismo persino peggiore.
“Rilassati, amico”
Luke mise un braccio sulle spalle di Michael, come a volerlo consolare.
Lui, allora, riprese a fissarmi con odio puro.
Non che fosse una novità, ma quella volta non aggiunse nessuna battutina derisoria.
Il suo silenzio gelido mi fece uno strano effetto, lo ammetto: mai, e dico mai, mi ero sentita a disagio di fronte a quegli occhi chiari.
Eppure, quella volta, per poco non abbassai lo sguardo.
Che l’avessi combinata davvero grossa.
“Ancora quello zaino di merda, Evans?”
Feci un sospiro sollevato, dentro di me: non era cambiato niente.
“Ancora quella faccia di merda, Clifford?”, risposi a tono, nuovamente divertita.
“Se continui a mangiare patatine, ingrasserai”
“E sarei comunque più bella di te”, sorrisi bastarda.
Lui ricambiò e “Aspetta che lo chiedo al tuo ex ragazzo… ops, non esiste”
E proprio quando stavo per spruzzargli una generosa dose di Ketchup nei suoi stupidi occhi, la voce di Luke attirò la nostra attenzione.
Con la calma che da sempre lo caratterizzava, parlò: “Angie, Mike ti deve chiedere una cosa”
Michael annuì, riprendendo la sua espressione incazzata che con la voce del biondo si era allontanata.
“Tu uscirai con noi stasera” decretò.
E cosa fare quando Michael Clifford cercava di vestire le parti di un cattivo ragazzo?
Ridere, chiaramente.
E fu esattamente ciò che feci, talmente forte da attirare l’attenzione anche di qualche studente dei tavoli vicini.
“Sul serio – dissi dopo poco, tra le risate – non è riuscita a convincermi Raven, e pensi che con i tuoi modi del cazzo otterrai qualcosa. Ma vattene, per favore”
Pronunciai le ultime parole con una secchezza nella voce di cui mi sorprendo ancora.
Tutti, assolutamente tutte le persone in questa terra, a quel punto se ne sarebbero andate.
Tutti, tranne Michael Clifford, che poteva essere uno stronzo, un puttaniere, un rompipalle, e tante altre cose; ma rimaneva sempre il solo ed unico che mi tenesse testa.
Era anche la mia unica grande costante, nella vita: potevo non sapere cosa mangiare a colazione, di cosa avrei parlato con Raven, potevo addirittura non sapere che materia avessi alla prima ora.
Ma la mattina, appena mi svegliavo, di una cosa ero certa: che avrei insultato Michael Clifford, e che lui avrebbe insultato me.
E persino in quelle condizioni, lui non si arrese.
“Non me ne frega niente dei tentativi altrui, sai che tanto se io dico così, tu stasera ci vieni al Luna park”
E lì sì, sì cazzo, mi incazzai sul serio.
“Ma chi diavolo ti credi di essere, eh? E poi il Luna Park, Clifford, seriamente?
Assunse uno sguardo piccato e “Cos’hai contro i Luna Park?”, fece stizzito.
Gli insulti verso la sua scelta stilistica lo stuzzicavano più di ogni altra cosa.
“Non so, è solo il più grande clichè di tutti i tempi – feci indifferente, perdendo gran parte della rabbia – non ti facevo un bravo ragazzo, sai?”
Toccai il famoso tasto dolente, o tallone d’Achille, se vogliamo essere più poetici.
“E non lo sono!”, trillò, con una voce da ragazzina.
Gli lanciai un’occhiata eloquente, prendendo una patatine e mangiandola sotto il suo sguardo infuocato.
“Senti Evans, ti dico come si svolgeranno le cose – prese un grande respiro, intrappolando in un angolo remoto del suo corpo ogni emozione: faceva quasi paura – Andremo al Luna Park tutti insieme, io uscirò con Raven e tu con Ashton Irwin. Io mi farò i cazzi miei e tu i tuoi. Domani, sarà tutto come prima. Chiaro?”
Ashton Irwin.
Mi focalizzai solo su quelle due parole.
Ashton Irwin.
Ashton Irwin, davvero?
Sarebbe stato lui il mio appuntamento?
Feci mente locale, cercando di associare il nome ad un volto noto.
Cercai disperatamente nei meandri della mia mente, ma niente, niente.
Di Ashton Irwin, ce n’era solo uno.
E diavolo, non poteva essere lui il mio appuntamento.
“Ashton Irwin, quello sfigato?!”, sbottai incredula, lasciando definitivamente perdere le mie patatine.
“Non parlare del tuo fidanzatino così” ghignò felice della mia reazione infastidita, conquistando nuovamente il suo dannato sorrisetto bastardo.
“Quello là ancora piange per la rottura con Heaven. E si sono lasciati da tre fottuti anni!” mi lamentai, ancora incredula dalla sporca rivelazione.
“Ha bisogno di distrazioni”, lo giustificò, con una scrollata di spalle.
“Non me ne frega niente!”
“Chiodo schiaccia chiodo, no?”
“La segue a casa sua tutti i pomeriggi, dopo scuola – cercai di farlo ragionare, ancora scioccata – quel ragazzo è uno stalker, Clifford!”, ci mancava poco che urlassi a squarciagola.
“Non è poi così male”
“C’è una denuncia per molestie nel futuro di Ashton Irwin, te lo dico io”, sbottai.
Quella volta non mi trattenni ancora: mi alzai di scatto, facendo quasi cadere la sedia.
Le mie amate patatine erano finite nel dimenticatoio da un pezzo, insieme al loro collega biondo Luke Hemmings.
C’eravamo solo io e la stupidità di Michael Clifford.
“Non me ne frega niente”, digrignò i denti lui, imitando la mia posa.
“A me sì”
“Ma che peccato, oggi non sei tu a decidere”
“E sarai tu a decidere per me? Ma ritirati, Clifford”
I nostri volti erano più vicini di quanto non lo fossero mai stati in quei quattro anni di liceo.
I nostri occhi non si azzardavano a cambiare direzione, e sentivo chiaramente il suo respiro irregolare sul mio naso.
Anche io respiravo in modo irregolare, quasi come se avessi fatto una corsa ad ostacoli.
Le cause, però, erano del tutto differenti: perché la sua vicinanza di faceva quell’effetto?
Da quella distanza riuscivo pure a sentire il suo profumo, fresco, muschio bianco probabilmente.
Quattro anni di insulti e mai, mai, avevo sentito il suo profumo.
Né tantomeno avevo scorto così tante sfumature di verde nei suoi occhi.
Era possibile avere degli occhi del genere?
Occhi che, per quanto belli potessero essere, avevano sempre un velo di vuoto e stronzaggine.
O almeno, quando guardavano me.
E fu esattamente quello a ricordarmi che il ragazzo di fronte a me rimaneva sempre Michael Clifford.
La viscida persona che era Michael Clifford.
“Sarò più chiaro, questa volta – parlò finalmente lui, sussurrando. Riuscii a sentire pure il suo alito, a quel punto. Menta? Sì, decisamente menta – Ti metterai uno straccetto decente, qualcosa meglio delle solite merdate in pratica. Alle otto in punto tu sarai pronta e io busserò alla porta. Uscirai subito: non mi farai aspettare. Poi entrerai nella mia macchina e non fiaterai, capito. Non fiaterai
E no, non fiatai sul serio.
Ma le mie ghiandole salivarie mi stavano supplicando di sputargli in un occhio.
Nessuno aveva mai osato rivolgersi a me in quel modo, nessuno aveva mai osato avvicinarsi così tanto a me per parlarmi.
“Non sono la tua puttanella del giorno, Clifford. Non osare dire a me queste puttanate. Posso rovinarti la vita e lo sai”, sibilai, presa da un moto di odio puro.
Fu lì che raggiunsi l’apice del mio odio per quel ragazzo.
Ci furono degli attimi di silenzio, rotti solo dai nostri respiri forti.
Eravamo ancora troppo vicini.
“A stasera, Angie”
Si allontanò di scatto, rompendo finalmente il legame dei nostri occhi.
Non disse altro, così come me.
“Scusalo – sussurrò d’un tratto Luke Hemmings, con uno sguardo davvero mortificato – E’ che ci tiene sul serio. Se non ti fidi di lui, fidati di me. Vai stasera, ti prego”, implorò quasi.
Non risposi.
Mi allontanai nella direzione opposta.



 
***
 
 


“Guarda guarda! Ora partorisce”, trillò David, proprio come un bambino.
Gli lanciai un’occhiata di sbieco senza dire niente, continuando a mangiare i pop-corn che avevo preparato.
“Oddio che bello! Sono tantissimi!”, continuò gioioso.
Se c’era un canale di cui la famiglia Evans non poteva fare a meno, quello era National Geographic.
Ergo, il canale più irritante e schifoso di tutti i tempi.
Certo, era una fonte inestimabile di sapere e saggezza, ma la riproduzione delle mosche non era una di quelle cose di cui mi piaceva parlare.
Né tantomeno guardare.
“Disgustoso”, espressi i miei pensieri.
Il ragazzo al mio fianco sbuffò, rubandomi il cibo, infastidito.
“Non capisci niente”
“Sei talmente sessualmente represso che ti diverti a vedere le mosche copulare”, lo accusai.
“Tu sei talmente sessualmente repressa da accusare gli altri di essere sessualmente repressi per nascondere il fatto che tu sia sessualmente repressa”, rispose.
I nostri sguardi la dissero tutta: la battaglia era appena cominciata.
“E tu sei talmente sessualmente represso da accusare gli altri di essere sessualmente repressi per nascondere il fatto che il fatto che tu sia sessualmente represso ti spinge a guardare documentari di mosche che copulano!”, gridai, alzandomi dal divano vittoriosa.
Lui mi imitò, pronto a combattere, mettendosi esattamente di fronte a me.
Evans maschio contro Evans femmina: uno scontro fra titani.
“E tu sei talmente sessualmente repressa che ti metti a dire cavolate sul fatto che io sia sessualmente represso perché sei gelosa che il fatto che io sia sess… - ah basta, sei stupida!”, urlò allora.
“E tu sei fastidioso!”
“La metti così? Beh, allora tu sei grassa”
“Se io sono grassa tu sei molto grasso”
“Wow, non troppo cattiva”
“Mi vuoi vedere cattiva eh? Beh allora…”
La minaccia che non avevo ancora progettato venne interrotta dal campanello.
Drinn-drinn!
Sì, eravamo una di quelle famiglie col suono del campanello felice: così anni novanta.
Drinn-drinn, drinn-drinn!, ancora.
La mamma non poteva essere: aveva il turno di notte, come ogni giovedì, e non si sarebbe mossa dalla caserma per niente al mondo.
Una tetra consapevolezza si impossessò del mio corpo: Michael Clifford.
Non posso mentire: sapevo che sarebbe passato.
Non ne dubitai neanche per un secondo; eppure, durante quella serata, sperai più volte che non venisse a bussare alla mia porta. Anche una sua morte imminente poteva andare bene, bastava che io potessi rimanere del dolce tepore della mia casetta.
Ma il fato aveva altri progetti per me.
“Aspetti qualcuno?”, mi chiese David confuso.
Era anche un po’ irritato: odiava quando interrompevano un nostro litigio.
‘E’ l’unico modo che ho per scaricare la rabbia repressa in aula!’, diceva sempre.
E ogni volta mi convincevo sempre più che fosse uno sfigato completo.
“Allora? Sai chi è alla porta?”, mi ridestò dai pensieri.
Io sbuffai e “Sì. Sì, lo so”, risposi seccata.
“Allora vai ad aprire, no?”
Fosse stato così semplice…
“No… non credo lo farò”, dissi vaga.
“Chi è alla porta, Angie?”
Era curioso, David, con quei suoi occhietti vispi e il sorrisetto furbo.
Proprio come me.
“E’ Michael Clifford”, sospirai allora.
Lui mi fissò per un momento, cercando di ricordare dove avesse già sentito quel nome.
Dopo interminabili secondi in cui fissò il vuoto come in catalessi, fece un grosso sospiro illuminato: aveva capito.
Così scoppiò a ridere, senza ritegno.
E le sue risate non fecero altro che stuzzicare il mio animo nervoso: ripeto, che merda di fratello.
“Stai dicendo che il tizio che odi è qui fuori?”
“Esatto”, confermai.
“Wow, Raven questa volta ha tirato gli artigli”, ridacchiò.
Certo, lui non lo sapeva: lui non sapeva che Raven non centrava proprio niente, che era tutta opera di quel ficcanaso di Clifford, che tutti i mali del mondo erano causati da lui – l’ultima affermazioni ha origini non documentate, lo consideravo un dogma.
“Nessun commento”
“EVANS, EVANS APRI!”, urlò Clifford da dietro la porta, ignorando le buone maniere da quiete pubblica.
E cavolo, che polmoni. Da dove avesse tirato tutta quella voce, non lo sapevo proprio.
“Sembra urgente”, mi fece David, fissandomi sorridente.
Era chiaro: voleva che gli lasciassi casa libera, ma mai nella vita.
“Non mi importa”, dissi secca.
Improvvisamente la riproduzione della mosca divenne davvero interessante.
“CAZZO EVANS! APRI QUESTA FOTTUTA PORTA”
“Non demorde, eh?”, rise ancora.
“Guarda, la madre sta f…”
“EVANS! GIURO CHE DO’ A FUOCO IL TUO STUPIDO CANE SE NON TI MUOVI!”
Ma fai pure, gli avrei tanto voluto dire.
“Sapevi che le mosche sono alla posizione numero c…”
“Cinque nelle cose che odi di più al mondo? Sì, Angie, lo sapevo”
L’essere prevedibile mi fece abbassare a testa, sconfitta.
“EVANS ORA SFONDO LA PORTA E TI UCCIDO”
“Arrivo!”
Successe tutto nel giro di pochi secondi: prima che mi potessi anche solo accorgere di un suo movimento, David si catapultò verso la porta d’ingresso, spalancandola immediatamente.
“No!” urlai teatrale, facendo cadere tutti i pop-corn per terra dallo spavento – una slow-motion ci sarebbe stata davvero bene.
Michael Clifford, con un paio di jeans finalmente intatti e una giacca quasi decente, mi fissò con astio.
Prima guardò confuso l’Evans maschio, poi mi fissò con astio.
“Quindi tu sei Michael Clifford! – fece allegro mio fratello – sai che mia sorella ti odia?”, continuò, lasciandosi andare all’ennesima risata.
Clifford abbandonò un attimo la mai figura, fissandosi su quella di David: lo guardò curioso “Sì, lo sospettavo”, ridacchiò anche lui.
Il terribile presentimento che quei due potessero fare amicizia mi colpì in pieno, come un treno in corsa.
David gli avrebbe potuto dire tante di quelle cose imbarazzanti sul mio conto che avrei dovuto cambiare città, come minimo. Anche paese, forse. Ecco, cambiando mondo sarebbe stato perfetto.
E la terrificante immagine di un Michael Clifford nuovamente a casa mia – magari anche invitato a cena da mia madre, come spesso faceva con gli amici di David – mi fece muovere.
Strattonai il ragazzo per un braccio, fuori da casa mia, per poi chiudere con forza la porta: Michael Clifford non sarebbe entrato mai più a casa mia.
“Ah, ti sei decisa vedo”, fece lui, con uno sguardo di sfida.
E dopo un documentario sulle mosche io, di sfidarlo, non ne avevo proprio voglia.
“Senti piattola, andiamo e basta”
Diede una veloce occhiata al mio abbigliamento e “Certo che sei proprio cessa”, sbottò velenoso.
“Fortuna che devi uscire con Raven e non con me, allora”
“Già, fortuna”, disse. Mi lanciò uno sguardo indecifrabile, ma decisi di non farci caso.
Avevo sempre pensato che il Michael Clifford criptico non valesse la pena di essere scoperto.
“Entra in macchina”, mi ordinò poi.
Era più pulita e splendente degli altri giorni – aveva davvero fatto tutto quello per la mia amica?
Ubbidii, senza polemizzare oltre: tra urla, battibecchi e risate fastidiose eravamo in ritardo di mezz’ora.
“Ce ne hai messo di tempo”
Ashton, al mio fianco, si rivolse a Michael. Non mi salutò, non mi parlò, non mi guardò neanche.
Mi presi un po’ di tempo per osservarlo da vicino, ed ebbi la conferma di ogni voce di corridoio circolata su di lui: era davvero un depresso cronico.
Un’aria triste e disperata aleggiava nei suoi occhi, e la sua espressione da cane bastonato perenne rendeva le sue emozioni ancora più palesi.
Ma chi cazzo mi ritrovavo a fianco.
“E’ colpa sua”, mi accusò lui.
Non dissi niente: era troppo stupido persino per litigarci, in quel momento.
“Ciao An”, fece invece timorosa Raven. Indossava il suo abito preferito, lei, quello azzurro con il corpetto stretto, che metteva in risalto i suoi occhi.
Decisi di non risponderle, e Michael partì.
 


“Allora… dove andiamo di bello?”
Il sorriso di Raven cercava disperatamente di alleggerire l’aria pesante in quell’auto.
Dopo solo dieci minuti di viaggio, eravamo davvero in una situazione di merda.
Io non facevo altro che fissare il paesaggio dal finestrino, Ashton continuava a guardare la foto di Heaven che conservava nel portafoglio, e lei cercava di farci sembrare un gruppo di amici normale.
Lo stronzo, invece, non faceva altro che sorridere vittorioso.
“E’ una sorpresa”, disse, con tono dolce.
E il tono dolce usato da Michael Clifford non faceva che renderlo ancora più patetico.
“Al Luna Park”, svelai, tanto per prendermi una piccola rivincita.
“Lurida stronz…”
“Fantastico! Adoro il Luna Park”, lo interruppe lei.
“Heaven amava i Luna Park”, sussurrò invece Ashton.
Lo guardai infastidita, cercando di trovare una persona al mondo più patetica di lui.
Non ci riuscii.
“Cosa c’è al Luna Park?”, chiese facendo la finta ingenua la mia amica, schiarendosi la voce a disagio: persino lei non apprezzava Ashton, lo sapevo.
Ma che domanda stupida.
Eppure, Clifford le sorrise calorosamente.
“Ci sono le montagne russe, la macchinetta per lo zucchero filato, il tiro a bersaglio… e c’è pure Calum Hood”
“Chi è Calum Hood?”, disse curiosa lei, trepidante.
Come se un tizio in un Luna Park potesse essere davvero interessante.
“Heaven adorava lo zucchero filato”
Ebbi la malsana voglia di picchiarlo.
Ma le parole di Michael attirarono anche la mia attenzione: “E’ un sensitivo: ti fa vedere il tuo futuro”
E Madonna che minchiata, mi dissi.
Non mi presi neanche la briga di ridere: quelle cavolate non valevano un solo mio sospiro.
“Davvero?!”, fece sorpresa lei.
Perché quella sera stavo odiando la mia migliore amica?
“E’ un sensitivo maschio?”, chiesi invece io, confusa.
Certo, non che fosse quella la parte interessante della cosa, ma andiamo: un sensitivo maschio.
Pensavo che solo le ragazze con le tette grandi potessero fare affari nel mondo dell’imbroglio.
Il mondo stava andando ufficialmente a puttane.
“Sì”, confermò lui, lanciandomi una strana occhiata.
L’ennesima della serata, per la precisione. Quel ragazzo non me la raccontava giusta.
“Heaven adorava le sensitive”, sbuffai, ma decisi di ignorare il mio pseudo-accompagnatore ancora una volta; alla faccia del ‘chiodo schiaccia chiodo’.
“E funziona davvero?”, era incantata dalle parole del ragazzo, come una bambina.
“Non lo so, non ci ho mai provato”, rise lui.
“Heaven l’avrebbe fatto di sicuro. Adorava provare cose nuove”
Mi girai di scatto verso quell’aborto di uomo di un Ashton Irwin, lanciandogli un’occhiata d’odio.
“Heaven adorava un sacco di cose, eh?” cominciai.
Lui annuì, “Sai che cosa non adorava?”
Quella volta scosse la testa.
Te. Non adorava te. Questo perché sei l’essere più scassapalle che abbia mai solcato questo pianeta!”, urlai, al limite della pazienza.
Le amebe come lui mi facevano uscire fuori di testa, non ci potevo fare niente.
“Sono cambiato per lei! Ora sono un uomo migliore, quando lo vedrà…”
Gli diedi un cazzotto forte sul braccio “Ma quale uomo migliore”
“Sei manesca!”, mi accusò, quasi con le lacrime agli occhi.
“E scommetto che Heaven non era manesca, eh?”
Lui annuì, “Dovresti imparare da lei”, continuò.
“E ritrovarmi uno psicopatico che mi segue come te? No grazie”
“Io non sono un…”
“Sì sì, dicono tutti così”, lo liquidai in fretta, con un gesto della mano.
Ero stizzita: da quella situazione del cavolo, dall’ingenuità della mia amica, dai sorrisi di Michael Clifford e da… tutto di Ashton Irwin.
Nessuno osò parlare per il resto del viaggio, ma lo vedevo che Michael cercava di non ridere.
E io, intanto, pensavo all’ennesimo sfigato che avrei incontrato nel mio cammino:
Calum Hood, il primo sensitivo maschio della storia.


 
***
 
 
I piccioncini si erano allontanati da soli, lasciando la triste coppia che eravamo io ed Ashton da soli.
Erano andati sulla ruota panoramica – come se poi ci fosse un panorama da vedere, in quella città del cavolo.
Inutile dire che era stata la serata più brutta di tutti i tempi.
Metà della serata l’avevo passata con le lamentele di Ashton, perché Clifford cerava di recitare al meglio la parte da ragazzino innamorato; l’altra metà, invece, l’avevamo passata ad insultarci come sempre.
E ahimè, dovevo ammettere che i momenti migliori li avevo passati quando dicevo una battuta particolarmente offensiva, e quando lui mi guardava sbigottito.
“Conosci Brittany?”, mi chiese Ashton.
Lui non ci voleva andare, sulla ruota panoramica: diceva che era troppo romantico e andandoci insieme a me avrebbe tradito Heaven.
Beh, meglio così.
“No, non la conosco”
E io conoscevo un centinaio di Brittany, ma non volevo affatto intraprendere una conversazione con lui.
“Brittany era la migliore amica di Heaven. Mi adorava”
“Ma non mi dire”
Annuì felice “Sai che ti dico? Ora la chiamo e cerco di convincerla a darmi il numero di Heaven!”
Non so se fu per il suo tono, o direttamente per le parole usate, ma in quel momento mi sembrò a dir poco inquietante.
Ne ero certa: stavo uscendo con un fottuto stalker.
Mi vennero i brividi.
“Vai pure”, feci una sorta di sorriso che in teoria doveva convincerlo ad allontanarsi da me, ma che in pratica lo spaventò ulteriormente.
In un modo o nell’altro ero rimasta sola, e la cosa mi appagava più del lecito.
Non che vagare come un’anima in pena in un Luna Park trasandato fosse nei miei piani, ma era meglio del resto della serata.
Non avevo abbastanza soldi per prendermi lo zucchero filato, ma ne avrei rubato un po’a Raven, appena scesa dalla ruota.
Lei, non mi aveva ancora rivolto la parola.
Il senso di colpa che nutriva nei miei confronti era davvero palese, e la mia brutta faccia ogni qualvolta incrociassi per sbaglio il suo sguardo la diceva lunga sui miei sentimenti.
Se devo essere sincera, non mi pentivo del mio atteggiamento.
Mi aveva costretta – anche se alla fin fine era stata tutta colpa di Michael Clifford – a partecipare ad una stupida serata con della stupida gente.
Poi Ashton Irwin era persino peggio di quello che si diceva in giro.
Forse era per il fatto che i miei occhi privi di ogni pena vedessero in lui solo pateticità e ossessione compulsiva, ma quel ragazzo che era stato ‘crudelmente lasciato dalla ragazza che amava con tutto sé stesso’ non riaccendeva nessun sentimento da crocerossina in me.
“Serata solitaria?”, una voce mi distrasse dai miei pensieri.
Mi ero talmente abituata alla solitudine che quasi sobbalzai alla vista di un altro essere umano.
Era un ragazzo, giovane, e stava fumando.
Si era posizionato davanti ad un piccolo bazar in legno con qualche cianfrusaglia sopra, l’unico stand vuoto.
Aveva la pelle ambrata, le labbra carnose, e o sguardo penetrante.
Lo devo ammettere: quel ragazzo aveva il suo charm.
Nella sua semplicità, sapeva attirare l’attenzione.
O più probabilmente ero io, con la mia irrimediabile solitudine, a trovare interessante ogni essere vivente che avesse il coraggio di rivolgermi la parola.
“Qualcosa del genere”, risposi, anche se in ritardo.
Che idiota.
“Sai chi sono io?”
Quel suo profilo da cattivo ragazzo, iperbolizzato dallo sguardo troppo assottigliato e dalla posizione troppo ricurva, si sfracellò davanti ai miei occhi.
Erano bastati dieci secondi per rovinare tutto nuovamente.
“No, non lo so”, sbuffai.
Non era altro che l’ennesimo sbruffone che, per qualche trucco di magia, si credeva Dio sceso in terra.
“Io sono Calum Hood”
Pronunciò quelle due parole molto stile un nome, una leggenda.
Calum Hood, signore e signori. Quasi ci speravo di incontrarlo.
Per poco non gli scoppiai a ridere in faccia.
Ma insomma, mi ritrovavo davanti al mitico Calum Hood, non potevo sfigurare.
“Calum Hood? Il sensitivo maschio?”, chiesi conferma, quasi come se mi trovassi davanti una leggenda.
E in fondo un po’ lo era: un sensitivo maschio, cavolo.
“Sul serio?! – sbottò, quasi come se gli avessi sfatato un mito – un sensitivo maschio?”
“Cosa preferisci? Piccolo maghetto?”
Mi lanciò un’occhiata d’odio, lasciando cadere per terra la sua sigaretta ancora accesa.
“Attento, il tuo bazar è di legno: potrebbe prendere fuoco”
“Fanculo il bazar!”
Lì sì che sembrò un vero cattivo ragazzo.
“Io non sono un sensitivo”, si lamentò, sedendosi dietro il bancone.
Era a metà tra l’infastidito e lo sconsolato; non so perché, davvero non lo so, ma lo raggiunsi.
Ci trovammo faccia a faccia, isolati.
Entrambi due anime solitarie, entrambi due sfigati.
Com’era strano, quel momento.
“Significa che non mi guarderai la mano e non mi dirai quanti figli avrò?”, misi un finto broncio, che non fece altro che infastidirlo ulteriormente.
Mi stavo divertendo, c’era poco da fare.
“No. Lo vedrai tu stessa”
“E come?”, ridacchiai.
“Sono uno stregone. Io non ti dico il futuro. Io te lo faccio vivere
Lo guardai per un attimo, ma non riuscii a trattenermi: gli risi in faccia.
“E hai tipo una bolla di cristallo o cosa?”
“Ma mi ascolti quando parlo? Ho detto che lo vivrai, il futuro”
“Grazie al cazzo lo vivrò – risi – è il mio futuro”
“Tu non mi stai prendendo sul serio”, fece, passandosi la lingua sulle labbra serrate, pensieroso.
Cosa gli stava passando per la testa?
Al tempo, non lo immaginavo neanche.
Adesso, invece, ho una mezza idea.
“Cosa te lo fa credere, Gandalf?” feci la finta sorpresa.
Ero davvero una pessima attrice.
“Non chiamarmi Gandalf!”
“Oh, mi dispiace, ma con la storia dello stregone ti sei scavato la fossa da solo, amico”, risi ancora.
Mi piaceva, quel Calum Hood.
Mi piaceva la sua convinzione e mi piaceva pure come mi servisse le battute orribili su un piatto d’argento.
Era un nuovo passatempo, più divertente di Michael Clifford.
E poi lui, per lo meno, non mi insultava.
“Tra tutti gli scettici che ho incontrato, tu sei il peggiore”, sibilò.
E ok, forse un pochettino mi insultava, ma non era niente di che.
“Ne sono lusingata”
“Non dovresti”
“Bah, solo una delle cose che mi riescono male. Vuoi aggiungere altro?”
“Sì. Fai battute schifose”, mi sembrò di trovarmi davanti Clifford.
Fu un’immagine orrenda.
“Siete voi che non capite il mio umorismo”, cercai di giustificarmi.
“Noi chi?” fece confuso.
“Voi persone”, lo liquidai in fretta.
Dalla stizza mi portai velocemente una ciocca dietro l’orecchio, poggiando meglio i gomiti sul bancone.
Eravamo faccia a faccia. Nonostante le brutte parole, eravamo ancora faccia a faccia.
E lui continuava a guardarmi pensieroso.
Poi, d’un tratto la domanda “Tu guarderesti il tuo futuro?”
“No”, risposi subito.
Insomma, chi si vorrebbe spoilerare la propria vita?
Me l’ero fatta tante volte, quella domanda. Ed ogni volta rispondevo di no.
Ma lo volevo davvero?
“Sei sicura?”, fece, cercando un minimo di indecisione nel mio sguardo.
“Insomma – espressi i miei pensieri – ho paura di diventare una fallita di merda”, non ero proprio una ragazza di classe, ma il concetto l’avevo espresso al meglio.
“E?”, mi incitò lui.
“E vorrei vedere cosa diventerò, così se vedo che le cose mi vanno male mi do una svegliata. O qualcosa del genere, insomma”, tentai.
Mi rendevo conto del discorso contorto che stavo affrontando con uno sconosciuto, ma ero troppo incuriosita dal ragazzo per mettermi limiti di qualsiasi tipo.
Anche se una bela censura sarebbe stata gradita.
“Ma parliamo delle cose serie: se sei un sensitivo, perché non hai un turbante?”
Tutto l’interesse che avevo trovato nei suoi occhi per le mie parole se ne andò in un batter d’occhio.
“Ma sei seria?!”, sbottò.
“Dai, almeno il bastone…”, riprovai.
“Ho 19 anni, non ho bisogno di un fottuto bastone!”
“E le magie? Come le fai?”, infierii ulteriormente.
Mi trovavo davanti a un mago, dovevo sfoderare tutte le battute che avevo.
“Con queste”, disse trionfante.
Armeggiò per qualche secondo con un qualcosa dietro il bancone, senza neanche guardare, ma con attenzione.
Poi, tirò fuori una sacchetta contenente della polverina colorata.
Una volta constatato che non fosse crack, risi – quel ragazzo mi piaceva sempre di più.
“Polvere di fata?”
“Qualcosa del genere”
“Quindi non ti arrabbi se dico ‘le fate non esistono’?”
“La vuoi finire”
“Le fate non esistono!”, risi, facendolo infervorare ulteriormente.
Dio, quanto mi divertiva infastidire la gente strana.
“Vorresti vivere un giorno da ragazza di dieci anni più vecchia?”, chiese, arrabbiato.
“Cosa c’entra?”, feci invece io, improvvisamente confusa.
“Tutta la conversazione si basa su questo. Allora, lo faresti?”
Certo, che l’avrei fatto.
Perché ero una povera deficiente, perché ero sola, e perché Ashton era un fottuto stalker.
E anche perché avevo più paura del futuro di tutti i miei coetanei messi assieme.
“Sì”, risposi allora.
E per un attimo persi addirittura tutto il mio divertimento.
Poi lui prese una mancata di polvere tra le mani, borbottò qualcosa di incomprensibile, e me la lanciò addosso.
Il tutto con una serietà disarmante.
Vedendolo in quello stato, non feci a meno di ridere, ancora.
Mi scrollai la polvere di dosso, ancora ridendo.
“Tutto qui?”
“Tutto qui”, confermò, con un sorrisetto bastardo.
“Ma te la devo pagare questa cosa? – dissi ancora, divertita – Perché non ho soldi”
Lui si sporse verso di me, incatenando il mio sguardo nuovamente “Facciamo una cosa: se vedi che funziona, torni e mi paghi”
Mi piaceva il suo modo di fare, mi piaceva eccome.
Così strinsi con forza la mano che mi aveva porso, ricambiando il sorrisetto malizioso.
“Angie! Muoviti, smettila di provarci col primo che passa!”
Si sentì una voce in lontananza. E a chi poteva appartenere se non a Michael Clifford.
Sbuffai sconsolata, con la consapevolezza che non avrei mai più rivisto quello strano personaggio che mi aveva incuriosito così tanto.
Gli sorrisi, sinceramente quella volta, e lo salutai con una mano “Addio, Calum Hood”
Lui mi prese la mano, con fare da cavaliere, e mi baciò il dorso sorridendo.
Da quando mi aveva lanciato quella polvere addosso, sembrava molto più sicuro di sé.
Risi, e lui insieme a me.
“Volevi dire a presto, Angie”
“No. Volevo dire esattamente addio, Calum”
Mi allontanai velocemente dal ragazzo che continuava a fissarmi, raggiungendo la statua di ghiaccio che era diventata Michael Clifford.
Quando fummo ad un palmo di distanza, non si premurò di dirmi niente; semplicemente, mi fulminò con lo sguardo.
Per cosa poi, non lo capirò mai.
Prima di allontanarmi mi girai un secondo verso il leggendario Calum Hood.
Non lo vidi.


 
 



Que sera, sera
Whatever will be, will be
The future's not ours to see
Que sera, sera
What will be, will be
 









wooowoowowooowoo
Ah, sono finalmente riuscita a pubblicare questo primo capitolo. 
Ok, è lungo e sotto alcuni aspetti pure noioso, ma ehi, abbiate pietà vi prego. Spero comunque ch vi sia piaciuto - la speranza è l'ultima a morire, suvvia.
Questo, è il vero inizio della storia. Abbiamo conosciuto quella gioia di fratello di Angie, Raven la timorata di Dio, Ashton Irwin il depresso cronico che Angie odia (scusa Ash), il Michael Clifford che se vi sta sul cazzo va bene così perchè sarebbe carino. Anche se la Muke forever and ever e anche se Clifford è da prendere a pugni Luke vedrà sempre del bene il lui e insomma... sì, Luke Hemmings qui è davvero un amore.
Inutile dire che il mio bff è Calum Hood a cui ho fatto fare la parte dello strano anche in queSTA STORIA SRRY CALUM BUT I CAN'T.
Adoro quel ragazzo, è così versatile.
CMQ mancano solo due capitoli e poi la storia si concluderà. In realtà stavo pensando ad un possibile sequel perchè sono stupida e al posto di dormire la notte mi metto a pensare scusatemi mondo. 
Mi farebbe davveeeeero piacere se scriveste la vostra opinione su questo capitolo, così mi faccio anche un'idea se fare questo fantomatico sequel.
Anyway, grazie per la lettura, a presto :)





 
  
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