Chapter 9: You Give Love A Bad Name
Sommario:
Siamo
troppo giovani per essere così tristi.
“Jean,
tesoro, è il tuo telefono che continua a suonare?”
Alzo
lo sguardo dagli appunti di filosofia sparsi a casaccio sul mio petto e
provo a
spostare i piedi dal bracciolo del divano con nonchalance quando mamma
appare
sulla porta del salotto, con le mani sui fianchi. A giudicare dalla sua
espressione, non credo che sia contenta dei miei calzini pulitissimi
sui mobili. Il rumore della mia suoneria dei messaggi
si ripresenta, piuttosto attutito, dal punto del divano in cui
l’ho seppellito
sotto una pila di cuscini. È la trentasettesima volta,
cazzo. Sicuramente fra poco
perderò il conto.
“Non
rispondi?” mi interroga mia madre, spostando lo sguardo dalla
montagna di
cuscini su di me, e poi di nuovo sui cuscini.
“No,”
rispondo, incredulo. Che Connie voglia ricordarlo o no, abbiamo un
esame
domani. Anche se è di filosofia, e la odiamo entrambi con la
passione di mille
soli incandescenti.
Voglio
passare lo stesso quest’esame. Connie, a quanto pare,
preferisce mandarmi
messaggi senza sosta per la bellezza di tre ore, da che sono tornato a
casa.
I
primi SMS non erano un problema. Ho risposto, l’ho
accontentato. Non è poi così
sorprendente, dato che il mio umore
era alle stelle dopo aver lasciato il campus qualche ora fa e, ehi, il
suo
entusiasmo per la festa era veramente
contagioso.
Trentasette
messaggi dopo, diciamo che l’entusiasmo inizia a calare
leggermente.
“È
soltanto Connie,” spiego brevemente a mia madre, poggiando la
testa
all’indietro sul bracciolo del divano per guardarla
sottosopra. “Che spreca la
sua tariffa telefonica.”
“Soltanto
Connie,” ripete mia mamma, un po’ distrattamente.
Probabilmente si starà
chiedendo perché mai dovrei ignorare un amico
così affascinante. “Oh! A
proposito!” inizia a cianciare, sedendosi sulla strisciolina
di divano ancora
visibile tra il mio corpo e il bordo. Mi sposto un po’, per
lasciarle più
spazio, ma principalmente per non soffocare sotto al suo peso quando si
siede
praticamente su di me. “Mi ha chiamata la nonna stamattina.
Dato che tuo padre
è fuori città la settimana prossima, pensavo di
prenotare un volo per andare a
trovarla. Vorresti venire con me, tesoro?”
A
giudicare dall’aria d’attesa che trasuda dalla sua
espressione, spera in un sì.
Rimarrà delusa. Son un bastardo egoista.
“Uh,
ho già degli impegni, mamma,” affermo.
È una mezza bugia. Non ho impegni, non
ancora, ma mi piacerebbe molto organizzare
qualcosa se c’è la possibilità di avere
casa libera per qualche giorno. La sua
espressione si rabbuia leggermente, ma non sembra troppo affranta.
Credo di
poter continuare a vivere senza che il senso di colpa diventi un
fardello troppo pesante sul mio
cuore. “Scusami.”
“No,
no, tesoro, non c’è problema,” mi
rassicura, con delle pacche affettuose sul
braccio. “Sei un ragazzo di diciannove anni. È
ovvio che hai i tuoi impegni.
Vorrai passare l’estate con i tuoi amici.”
“Già.”
E sicuramente non rinchiuso in quella baracca
del cazzo nel bel mezzo del nulla che è la casa
di mia nonna. Niente
internet. Niente segnale telefonico. Niente aria condizionata. Tutti
parlano
francese per tutto il tempo. È praticamente
l’inferno. “Tu, uh…sei sicura che
vada bene, mamma? Prendere l’aereo fin lì da sola
e tutto…?”
“Starò
bene,” mi dice, con un sorriso che le tira le labbra rosse.
“Tuo padre non
dovrebbe essere l’unico a poter scappare ogni
tanto.”
Alzo
lo sguardo su di lei, colmo di curiosità, e di prudenza,
praticamente confuso. Il modo in
cui ha articolato
quella frase mi fa pensare che lei sappia.
Che abbia capito che alcuni di quei viaggi di lavoro non
c’entrano
effettivamente nulla con il lavoro.
“Jean?”
domanda lei; l’ho fissata attentamente in viso per un
po’ troppo tempo. Chino
nuovamente il capo sugli appunti di filosofia che stavo ripassando, e
non alzo
un polverone per nulla. Spero veramente che sappia,
cazzo.
“Niente,”
mormoro, sfogliando qualche pagina dei miei appunti disordinati su
Bertrand
Russell. “Sembra una buona idea. Proverò a
mantenere la casa tutta intera
finché starai via.”
Ride
tirandomi un altro schiaffetto sul braccio, e mi informa del fatto che
sono un
figlio fin troppo monotono per
darle
qualsivoglia preoccupazione. Dice che la cosa che la preoccupa di
più è che la
mia dieta potrebbe consistere unicamente in caramelle gommose alla
frutta.
Accidenti, grazie. (Comunque, le caramelle gommose sono
buone.)
Ovviamente
papà non torna a casa per cena, quindi siamo solo noi due e
i libri di
filosofia sul tavolo quella sera. A mamma non dà fastidio;
di solito fa storie
per il telefono, ma finché sono libri va tutto bene.
Tuttavia, non li guardo
più di tanto. La torta è troppo buona per pensare
ai libri.
“Quindi
per che ora devo aspettarti a casa domani?” mi chiede, mentre
porta via il mio
piatto vuoto. La seguo in cucina, portandole entrambi i bicchieri e
posandoli
sullo scolapiatti, mentre lei carica la lavastoviglie.
“Immagino tu abbia già
dei programmi?”
“Nah,
in realtà no,” ammetto, facendo spallucce.
“Oh?
Non si usa, tra voi giovani, uscire e ubriacarsi tantissimo dopo la
fine degli
esami?” Metto in dubbio il suo utilizzo dei termini
“si usa” e “giovani” con
un’espressione seria. Per favore, non parlare mai
più in quel modo, mamma.
“Mamma mia, Jean! Cos’hai che non va? Sei sicuro di
essere un adolescente
normale? A volte temo che in realtà ci sia un cinquantenne
intrappolato nel tuo
corpo.”
“Dovresti
esserne felice, lo sai,” metto il broncio, incrociando le
braccia davanti al
petto. “Potrei essere un drogato, o in prigione, o
chissà cosa.” Potrei essere
come papà.
“Tornerò a casa subito
dopo pranzo, probabilmente. Devo stare con Marco.”
“Ah,
Marco,” sorride mia madre. Oh no.
Sta
iniziando a imparare da Sasha. Non mi piace quello sguardo.
“Chi avrebbe mai
pensato che stessi assumendo un amico per
te, invece di assumere un inserviente per la nostra
piscina?” Si scosta i
capelli biondo cenere dalla spalla e sfoggia un sorriso
dall’aspetto
decisamente malizioso. Per tutta risposta, mi acciglio.
“Cristo
santo, ma sei completamente
spudorata?”
Lascio
mamma
a godersi una replica di Desperate
Housewives e mi ritiro al piano di sopra, nella sicurezza
della mia stanza.
(Dove ci sono meno probabilità di
dover sopportare la noiosissima TV, nonché meno
probabilità di venire assillato
per le mie scelte di vita.)
È
intorno
alle otto e mezzo che decido di premiarmi con un rapido sguardo alle
ultime
novità; accendo il portatile, e mi aspetto un’infinità di piccole notifiche
rosse nell’angolo in alto a destra
della mia homepage di Facebook, sicuramente da parte di Connie.
Fortunatamente,
sono meno numerose di quanto temevo.
Sfoglio
le
solite cose: Sasha Braus ti ha mandato un
poke, ad Armin Artlet e altre tre persone piace il tuo post, Historia
Reiss ha
commentato una tua foto. L’ultima notifica della
lista è quella su cui
clicco alla fine: Connie Springer ti ha
invitato al suo evento: ** FEEEESSSTAAAAAAAAA PER LA FINE DEGLI ESAMI**
Oh
cielo. Il
numero di lettere della parola festa
è già abbastanza odioso. Credo di essermi pentito
di aver cliccato su quella
notifica.
Analizzo
rapidamente la pagina dell’evento, gettando uno sguardo sugli
invitati (e su
quelli che hanno già confermato la partecipazione senza
neanche sapere la
data). Scrivo un nuovo commento sotto alle informazioni sparse di
Connie e a
quella cazzo di immagine di copertina atroce
che ha scelto di piazzare in cima alla pagina.
Jean
Kirschtein:
>> la casa è libera
il prossimo
weekend. venite per le 8. portate l’alcol o vi caccio
Praticamente
subito dopo aver cliccato invio, ottengo un “Mi
piace” immediato da Connie e
Sasha. È accompagnato da un commento di Sasha che contiene
fin troppi punti
esclamativi. A quanto pare è entusiasta.
Torno
a
guardare la lista degli invitati e, notando l’assenza di
Reiner e Bert, mi
sbrigo ad aggiungerli dalla lista dei miei amici. Siamo arrivati a
dieci. Be’,
undici, se portano quella ragazza inquietante, la loro vicina.
E
poi, ultimo ma non per importanza…
Sono
passati
due mesi, una manciata di crisi esistenziali, e un’esperienza
ai confini della
morte (o almeno secondo la mia opinione) e ancora non ho cliccato il
pulsante
per la richiesta d’amicizia in cima al profilo di Marco. Quel
piccolo pulsante
bianco … Credo di averlo evitato più che
volutamente, nell’ultimo periodo. Non
che Marco l’abbia mai menzionato. Probabilmente non
è molto avvezzo al buon
vecchio stalking su Facebook.
…
Non come
me.
Ma
per
poterlo aggiungere alla lista degli invitati, devo fare questo salto
metaforico. Quasi non riesco a guardare lo schermo del mio portatile
mentre clicco
il mousepad con aria esitante. Richiesta
d’amicizia inviata.
Hnnng.
Per
favore, potrei smettere di sentire il cuore in gola?, perché
un gesto simile non sarebbe dovuto
risultare così
snervante, cazzo! Un pulsante, Jean. Hai
solo premuto un pulsante. Cristo santo!
Il
bing di una notifica mi fa venire un
infarto. Pensavo di aver abbassato il volume, cazzo. Posiziono il
puntatore
sull’icona del globo in alto a destra sullo schermo.
Marco
Bodt ha accettato la tua richiesta d’amicizia.
Be’…è
stato veloce. Qui qualcuno
è entusiasta. (O
magari è solo online,
Jean.)
Ho
approssimativamente un millisecondo per processare gli ultimi sviluppi,
prima
che Marco compaia nella finestra di una nuova chat.
Marco
Bodt:
>> Ehi! :D
Fisso
quella
discreta faccina sorridente per veramente molto tempo, cercando di
decidere il
suo valore soggettivo. Perché sembra mostrare una certa
impazienza. Tuttavia,
non me ne sto lamentando. In effetti, forse
sto arrossendo fino a tingermi di un rosso piuttosto scuro, a giudicare
dal mio
riflesso nello schermo del computer, cazzo. Alzo di proposito la
luminosità,
così da non riuscire più a specchiarmi.
Jean
Kirschtein:
>> ehi
>> sei stato veloce
>> ad accettare la richiesta
intendo
>> lol
Non
sto
ridendo sul serio. Diciamo che, più che altro, sto fissando
attentamente i
puntini di sospensione che appaiono affianco al nome di Marco, a
indicare che
sta scrivendo qualcosa.
Marco
Bodt:
>> Haha già! Mi stavo
chiedendo se
fosse il caso di aggiungerti … ma a quanto pare mi hai
battuto sul tempo! :D
Posso
immaginarlo
mentre si gratta la nuca, o si mordicchia il labbro inferiore; di
solito lo fa
quando è piuttosto agitato.
Jean
Kirschtein:
>> quindi stavi facendo lo
stalker
sul mio profilo facebook eh?
>> non provare a mentirmi marco
Marco
Bodt:
>> Se dici
“stalker” la fai
sembrare una cosa inquietante! D:
Evito
di
fare un commento in proposito, ma non mi dimentico di… gioire dell’idea che abbia
sbirciato tra i miei post e le mie foto
su Facebook (come ho fatto io sul suo profilo molte più volte di
quanto mi
piaccia ammettere). Lancio uno sguardo rapido ai miei appunti di
filosofia,
dove un post-it tiene il segno
del punto
in cui ho interrotto la mia revisione. Diamine. So per certo
cos’è più
interessante. Spero di non pentirmene in seguito.
Un
altro
messaggio di Marco compare nel bel mezzo della mia riflessione sulla
possibilità di mandare a quel paese
lo
studio.
Marco
Bodt:
>> Quindi cosa ti ha spinto ad
aggiungermi? :D
>> … Non stai
procrastinando lo
studio, no?
Che
bastardo
insolente. A volte, mi rendo conto, ci prende fin troppo gusto a porre
domande
leggermente imbarazzanti come questa. Ma in effetti così mi
ricorda di
aggiungerlo alla lista degli invitati all’evento di Connie.
Jean
Kirschtein:
>> era per invitarti a una festa
>> ma se continui a fare la
faccia
tosta potrei ritirare la mia offerta
Digito
il
nome di Marco nella barra di ricerca, clicco sulla sua icona, ed ecco
fatto.
Marco
Bodt:
>> Oh, l’ho visto
proprio adesso!
>> Vuoi davvero che venga? Non
vorrei… inibirti di fronte ai tuoi amici o qualcosa del
genere!
Jean
Kirschtein:
>> dimmi che non
l’hai scritto
davvero
>> comunque si
>> devi esserci
>> sarebbe troppo noioso senza
di
te
>> non lasciarmi a sopportare
reiner da solo ti prego
O
Connie. O
Sasha. O tutte le storie che ho sentito su Ymir da ubriaca. Non avete
la minima
idea di come diventino quando sono ubriachi. Ho bisogno
del suo supporto morale.
Jean
Kirschtein:
>> poi sarai già a
casa mia
>> xke è sabato
>> quindi puoi rimanere
direttamente
>> ti prego devi venire per
forza
La
mia
supplica di aiuto trova risposta quando il numero di persone che hanno
scelto
di “partecipare” a quest’evento aumenta
di uno. Non posso che sorridere,
rigirandomi la lingua contro una guancia.
Jean
Kirschtein:
>> sapevo che non potevi
resister(mi)
Marco
Bodt:
>> Potrei cambiare idea
altrettanto
facilmente! :P
>> Ti va se ci sentiamo su
Skype,
magari?
Sbatto
le
mani sulla tastiera per la sorpresa. (E altrettanto rapidamente
cancello le
assurdità intellegibili che ho appena creato.) S-Skype? Cioè, con videochiamata e tutto?
Mi
guardo
alle spalle per un’occhiata rapida alla mia stanza. Sembra
che una piccola
bomba sia appena scoppiata qui dentro. Ci sono libri e fogli di carta
accatastati ai piedi del letto, davanti all’armadio,
praticamente in ogni punto
della stanza dove non ci sono vestiti sporchi gettati sul pavimento. Mi
chiedo
quanto di tutto ciò sia visibile con la webcam.
La
mia
camera è un porcile. Ma gli dico comunque di sì.
Jean
Kirschtein:
>> certo
>> aggiungimi
Gli
mando il
mio nickname e dal desktop apro il collegamento di Skype, che si avvia
con quel
rumore stranissimo. È da un po’ che non uso questa
roba, e mi ci vuole qualche
minuto di click a caso per riuscire a capire di nuovo come funziona.
C’è un
avviso arancione su un lato dello schermo che mi ricorda che ho una
nuova chat.
Da
Robodt. È semplicemente
fantastico. Non
mi aspettavo niente di meno.
Lo
informo
immediatamente delle mie opinioni sul suo nome utente.
Robodt:
>> Non che il tuo nickname sia
meglio!
KirschFINE:
>> ehi è stato un
lampo di genio
ok?
>> e poi dai robodt ma che roba
è
>> hai cinque anni per caso
Robodt:
>> E se ce li avessi? :P
>> Sei così gentile
con me, Jean.
Ci
sono
alcuni minuti di silenzio in cui fisso lo schermo, nessuno di noi
scrive nulla,
quando il mio portatile inizia a fare rumore. Non mi rendo neanche
conto che è
il suono di una nuova chiamata di Skype finché non mi
ritrovo davanti il
pulsante verde a forma di telefono, e continuo a fissarlo per circa
mezzo
minuto. Dietro la finestra della chiamata, vedo che Marco ha scritto
qualcos’altro.
Robodt:
>> Perché non
rispondi? D:
La
sua
faccina accigliata mi sprona a cliccare il pulsante per accettare la
chiamata,
scacciando ogni pensiero sullo stato della mia stanza, o sullo stato
dei miei
capelli (sono stato steso sul divano per tipo tre ore, quindi
chissà cos’ho
intesta), o sullo stato della mia
faccia.
Mi
rimangio
tutto. Sto decisamente pensando allo stato della mia faccia.
Perché dev’essere
di un rosso bello acceso, cazzo, quando Marco compare
nell’inquadratura della
webcam. C’è molta
pelle in vista.
KirschFINE:
>> ma non hai una cazzo di
maglietta ?!
Mi
rendo
conto, quando premo invio, che avrei potuto semplicemente dirglielo ad
alta
voce. Per tutta risposta, ride – il suono solitamente
così musicale è piuttosto
rovinato dalla qualità granulosa dei miei altoparlanti.
“Fa
troppo
caldo,” ridacchia e, già, ecco che si porta la
mano dietro la nuca, mentre
distoglie timidamente lo sguardo dalla webcam con aria imbarazzata.
“E qui non
abbiamo l’aria condizionata.”
“Neanch’io
ho l’aria condizionata nella mia stanza,” mi
acciglio, appoggiandomi allo
schienale della sedia da scrivania. La sua webcam non è un
granché; la stanza
intorno a lui è troppo scura perché possa
distinguere qualcosa a parte lui,
quello che credo sia un tavolo da pranzo, e forse una porta; e la
qualità è
troppo bassa per poter vedere la maggior parte delle lentiggini che a
quanto
ricordo ha sulle spalle … aspetta.
No. Non ci pensare.
“Giuro
che
non sono un esibizionista,” dice in un sorriso. So che
dovrebbero esserci delle
rughe di espressione agli angoli dei suoi occhi… ma non
riesco a distinguerle.
“Però non dirlo a tua madre, okay?”
“Tranquillo,
sei salvo. È impegnata a guardare qualche soap opera di
merda al piano di
sotto,” faccio spallucce, cercando di sfoggiare il sorriso
più malizioso che mi
riesca. Marco alza gli occhi al cielo e appoggia la testa nel palmo
della mano,
con un sorriso seriamente assonnato.
“Allora,
come stai?” mi chiede.
“Huh?”
“Come
stai?”
ripete, “Dopo questo pomeriggio.”
“Oh.”
Aspetta
pazientemente che il mio cervello recepisca le sue parole; vedo i suoi
occhi
vagare sul suo schermo, e spero proprio che non stia valutando lo stato
della
mia stanza sullo sfondo del mio video.
“S-sto
bene,” balbetto, disinvolto ed eloquente come sempre, cazzo.
“Scusa
per…sai…averti chiamato così, come uno
sfigato. È stato piuttosto
imbarazzante…”
“Non
era
affatto da sfigato,” mormora lui. Si sbaglia. Sono al cento
per cento uno
sfigato che arrossisce in questo
preciso istante. “Ti sei solo comportato da persona normale. Quindi Eren verrà a
questa festa a cui mi stai
costringendo ad andare?”
“Già,”
rispondo. “Ma è tutto okay. Siamo a
posto.”
“Sono
fiero
di te, Jean.”
Ah.
Hmm. Per
favore non dire mai più
una cosa del
genere con un’espressione seria. Potrei prendere fuoco
spontaneamente. E
sarebbe un bel casino.
“Q-quanto
cazzo sei sdolcinato.”
Incrocio
le
braccia al petto, e intimo alle mie orecchie e alla mia faccia di non
arrossire, anche se temo lo abbiano già fatto. Marco si
limita a ridere. Ho
deciso di odiare la sua stupida, fantastica risata. La odio.
“Dovresti
imparare ad accettare i complimenti, Jean. E sono davvero— oh no.”
Sembra
sorpreso, raddrizza improvvisamente la sua postura, e gira la testa per
guardare alle sue spalle in direzione – credo –
della porta della stanza in cui
siede adesso. Vedo la sua mascella contrarsi.
“Marcooooo!”
La
chiamata di
Skype riesce a farmi arrivare finalmente la voce che evidentemente
Marco aveva
già sentito.
“Mina,
sto
al—”
“Ma
mi serve
il tuo aiuuuuuutoooo!”
Ricordo
di
averlo sentito menzionare sua sorella forse una o due volte prima
d’ora; ma
ovviamente questa è la prima volta in cui la vedo. E sembra
proprio il suo
mini-me. È alta e smilza, non proprio come Marco, ma i suoi
capelli sono
lunghi, neri e piuttosto ribelli, e sembra avere la stessa pioggia di
lentiggini su tutte le guance (a meno che non sia solo la grana della
webcam,
non so dirlo con esattezza). Marco ha girato leggermente la sedia per
guardarla
mentre lei gli parla, reggendo in mano un foglio di carta e una matita.
Le sue
sopracciglia sono sollevate verso il centro proprio come fa lui.
Marco
sospira, e credo mi rivolga uno sguardo dispiaciuto, mentre si accinge
a
prendere il foglio.
“Lo
sai,
avresti già dovuto finire i compiti, Mina,”
afferma, anche se, a giudicare
dall’espressione della bambina, non potrebbe importargliene
di meno. “Dovresti
andare a letto fra poco.”
“Ma
mamma
non è ancora tornata, quindi non devo andarci per
forza!”
“Lo
sai che
comando io quando mamma non è in casa.”
Già, buona fortuna, Marco. Potrebbe
uccidere qualcuno, con quell’espressione.
“D’accordo,
dimmi cos’è che non capisci,” sospira.
Sua sorella sguscia al suo fianco e
guarda oltre la sua spalla, puntando un dito ossuto su quello che
deduco sia un
problema.
“Questo
qui,” annuncia. Provo a ricordare la sua
età… aveva detto otto o nove anni?
Qualcosa del genere. I suoi occhi scuri e brillanti incontrano i miei
attraverso la webcam. Mi blocco immediatamente.
“Chi
è
quello?”
“H-huh?”
dice Marco, alzando immediatamente la testa. “O-oh! Mina, lui
è Jean.”
“E-ehi,”
la
saluto nervosamente, con un gesto irrequieto della mano. Non sembra per
nulla
colpita, e contorce il volto in un cipiglio mentre guarda tra me e
Marco. A
quel punto, punta il dito verso lo schermo.
“È
il tuo
fidanzato?”
Avete
mai
vissuto quei momenti in cui avete un’illuminazione su quale
canzone dovrebbe
diventare la colonna sonora della vostra vita per
quell’esatto istante? Questo
è uno di quei momenti. Nella mia testa, posso sentire
intonare i primi versi di
You Give Love A Bad Name dei Bon
Jovi.
Shot
to the heart
[Colpito al cuore] probabilmente
è un eufemismo.
Non
c’è
tempo per un assolo di chitarra mentale, a causa dell’ondata
di imbarazzo che
mi si sta riversando addosso in questo preciso istante. Odio
le situazioni come questa.
“I-io,
uh—”
Marco
probabilmente è incoerente quanto me, ma almeno riesce a
formulare una frase,
nonostante la tonalità di rosso che sfoggia in questo
momento. La sua voce
sembra comunque quella di un gatto che annega. (Non che io sia meglio.)
“N-no!
Mina!
Non stiamo— Non è… non è il
mio fidanzato!”
Lei
non si
scompone.
“Bene.
Perché ha dei capelli verameeeente strani.”
Ecco,
adesso
sappiamo tutti perché odio tanto i bambini. Mi passo una
mano tra i capelli
arruffati, indignato.
“Ehi!
Non
sono strani, sono molto carini!” si intromette Marco, dando
un colpetto sul
naso di sua sorella con l’estremità della matita
che stringe in mano. La mia
faccia sta andando a fuoco. Potrei essere letteralmente in fiamme. Marcoooooooo, mi lamento nella mia
testa. Non riesco neanche a soffermarmi sul fatto che trovi carini i
miei
capelli. (Be’, mi ci soffermo, ma solo per circa cinque
secondi, giuro.)
“Adesso, per favore, potresti farmi il piacere di tornare a
fare quello che
stavi facendo prima, Mina?”
Le
restituisce il foglio di carta e si fanno la linguaccia a vicenda.
Normalmente
mi metterei a ridere, ma sto ancora cavalcando l’onda
dell’umiliazione qui.
“Fai
schifo,
Marco,” proclama lei, tirandogli un colpo in testa con il
foglio dei problemi.
Marco mormora qualcosa di incomprensibile e le fa un cenno del capo per
indicarle di andare lontano da lui.
Quando
è nuovamente
fuori dalla stanza, Marco crolla sulla scrivania con un lamento,
affondando il
volto nelle braccia.
“Difficile
la vita tra fratelli, eh?” dico con una risata debole, con la
voce leggermente
più stridula di quanto mi piacerebbe ammettere. Marco
sbircia nella mia
direzione dal basso delle sue braccia, con una smorfia imbarazzata.
“Scusami,
Jean. Un tempo era carina, ora è diventata soltanto
sarcastica e irritante. Non
so proprio come sia potuto succedere.”
“Ehi!
Ti ho
sentito, Marco! Non parlare di me alle mie spalle!” la voce
di Mina arriva da
qualche parte dall’altro lato della porta. Marco sussulta di
nuovo.
“Hmm,
sarcastica e irritante,” rifletto. “Mi ricorda il
sottoscritto.”
“Tu
non sei
irritante,” mi dice in un sorriso, accompagnato da un sospiro
liberatorio.
“Be’, almeno la maggior
parte del
tempo. Le sorelle di nove anni, invece…”
Il
silenzio
che segue le sue affermazioni è pesante, e piuttosto
imbarazzante, mentre
entrambi ci stiamo ovviamente spremendo le meningi per dire qualcosa
che
risollevi la conversazione. Io ci arrivo per primo… il che
probabilmente non
era la soluzione più auspicabile. Ma, ehi, è
meglio prendere il toro per le corna,
o finirà per attanagliarmi dalla curiosità fino a
quando diventerà troppo
imbarazzante per risollevare l’argomento.
“Quindi,
uh,
tua sorella ha detto… uh, ecco, ha chiesto se fossi il tuo fidanzato.” Le bandiere rosse
iniziano a erigersi nella mia testa,
e c’è decisamente una parte più che
significativa del mio monologo interiore
che mi intima di fermarmi immediatamente.
“Cosa, uh… cosa intendeva?”
“Oh,
uh, mi…
mi piacciono gli uomini.” Quando non rispondo immediatamente,
si sbriga ad
aggiungere: “Sono gay,
Jean.”
“Oh.”
Sembra
ci
sia rimasto piuttosto male. Merda.
“O-oh?”
Non
mi
sembra di aver detto nulla di male. È che non ho detto
niente, e basta. E
adesso mi limito a guardare senza dire una parola l’immagine
sfuocata della
webcam di Marco, che sembra decisamente più a disagio di
quanto vorrei che
fosse.
“B-be’,
uh…
credo… credo che questo spieghi perché fai
così schifo a capire quando le
casalinghe ci provano con te…”
Marco
emette
una risata delicata e sembra, fortunatamente, un po’
più sollevato.
“Già,
probabilmente è per quello,” concorda mestamente.
“Quindi… per te non è un
problema che… uh, che te l’abbia
detto…?”
“Un
problema?” Mi prende alla sprovvista, non capisco
perché pensa che io possa
avere qualche problema con il fatto
che lui… sia gay.
Cioè, l’ha mai
conosciuta Ymir? (Be’, in effetti no, ma avete capito il
senso.) È l’omosessuale
più scatenata che esista su questo pianeta. Ma è
anche mia amica. Come Historia, e
Reiner, e Bert. Diamine. Forse c’è qualcosa
nell’acqua da queste parti. “Ovvio che non
è un problema! Perché mai dovrebbe
esserlo?”
Il
suo
sguardo sembra girare un po’ intorno alla stanza prima di
guardarmi direttamente.
“N-non
so,”
dice. “È solo che… a volte,
soprattutto, hai capito, le persone sono un po’… e
pensavo—”
Credo
di
aver capito le sue ragioni. La gente che abita nel mio quartiere
è notoriamente
conservatrice. Mio padre
è
notoriamente dalla parte dei conservatori. Non vanno molto
d’accordo con
l’apertura mentale. Probabilmente questo pensiero deve aver
attraversato la
testa di Marco… ma spero che mi consideri una persona
migliore di così. Non
sono come il mio vecchio. Nemmeno fra un milione di anni.
“Io
non sono
così,” gli dico apertamente, puntandogli un dito
contro attraverso lo schermo.
“Dai, Marco, mi conosci meglio di così. Se
preferisci il cazzo invece delle
ragazze, fai pure. Non c’è alcun
problema.”
“Quindi
non
sei a disagio con—”
“Certo
che
no.”
“Oh.
Oh. Bene.”
La sua voce sembra aumentare di diverse ottave quando lo dice, e io mi
chiedo:
perché è così spaventato? Sono solo io.
Sospira
rumorosamente; abbastanza rumorosamente perché il microfono
riesca a
registrarlo, e perché io riesca a discernere il suono.
Sembra come se lo stesse
trattenendo da un bel po’. Decido di saggiare il terreno.
“Pensavi
che
avrei dato di matto o qualcosa del genere?”
“N-no,”
risponde rapidamente, praticamente interrompendomi. La sua espressione
a quel
punto diventa un po’ più remissiva.
“C-cioè, forse…? Io, uh, l’ho
detto solo
alla mia f-famiglia, e si stanno ancora abituando all’idea,
quindi ero un po’…
be’, hai capito.”
“Tua
sorella
sembra averla presa alla grande,”
sorrido. “Pensa già a trovarti il
fidanzato.” Risolvere le situazioni imbarazzanti
con l’umorismo. È l’unico metodo che
conosco. A quanto pare funziona abbastanza
bene, perché una specie di sorriso riluttante ma tranquillo
appare sul suo
volto lentigginoso.
“Già,
l’ha
presa pericolosamente
bene,”
concorda, scuotendo la testa. “È fin troppo
interessata alla mia vita
sentimentale. E ha soltanto nove anni. Credo… che
dovrò vivere costantemente
preoccupato quando diventerà un’adolescente.
Sembra
di
nuovo il solito Marco. Questo pensiero trascina un sorriso idiota sul
mio
volto, e mi rilasso nuovamente nella sedia (a quanto pare mi ero
avvicinato
sempre di più allo schermo del computer
all’aumentare della tensione dei miei
nervi/dell’imbarazzo/qualsiasi cosa fosse).
“…
E tu,
Jean?”
“Huh?
Io
cosa?”
“E-ecco,
intendo… ti piacciono le ragazze … o i r-ragazzi,
o…?”
Non
credo
che un ragazzo possa sentirsi andare a fuoco tante volte nella stessa
serata.
Ma non so esattamente perché sono di nuovo in fiamme
perché, ehi, è una domanda
piuttosto normale, vero?
A
essere
brutalmente onesto, questo genere di domande mi ha sempre imbarazzato.
Non solo
con Marco. Connie e Sasha sono soliti riempirmi
di questi dubbi, e non fatemi neanche iniziare a parlare di Ymir e del
suo
strano interesse per il mio orientamento sessuale (anche se giuro che
non so
cosa ci sia da insinuare, Mikasa è stata la mia unica e sola
cotta sin dalla
prima media…).
Sono
in
imbarazzo perché ho, come dire, zero
esperienza con… be’, con chiunque. E non mi piace
ammetterlo.
Nel
secondo
anno di superiori c’è stato qualcosa con una
ragazza di nome Hitch – e per
“qualcosa” intendo veramente qualcosa,
e non una vera e propria relazione, niente di che; giusto qualche
pomiciata
veloce dietro al parcheggio delle bici, semplicemente perché
a me piaceva
qualcun altro, a lei piaceva qualcun altro, ed eravamo entrambi molto,
molto
frustrati e arrabbiati e arrapati.
Tuttavia,
Hitch era spaventosa. Mi sgridava sempre, e si arrabbiava per le cose
più
stupide, e in realtà le piaceva semplicemente umiliarmi ogni
volta che ne
avesse l’occasione. In fin dei conti, ecco, la nostra storia
non si incentrava
sui baci (e sulle altre cose), ma più che altro sul farmi
sentire assolutamente
una merda.
Ma
in realtà
non mi aspettavo niente di diverso, perché era solo una
strategia affinché
Mikasa pensasse ehi, Jean è un
ragazzo
desiderabile, e per farla ingelosire, e tutte quelle robe
lì …
Ma,
effettivamente, quand’è stata l’ultima
volta in
cui hai visto Mikasa sotto la stessa luce in
cui la vedevi un tempo?
Marco
inclina la testa da un lato e mi guarda; forse il mio monologo
interiore è
evidente.
E
non farmi nemmeno iniziare a parlare di quando ti
vengono erezioni guardando l’inserviente della piscina mezzo
nudo.
Wow,
questo
è decisamente il momento migliore per far riaffiorare quel
ricordo. Pensavo di
averlo eliminato completamente dalla memoria per il resto della mia
vita?
Apro
la
bocca per dire… cosa,
esattamente? Ma
– grazie a Dio, o Gesù, o Buddha, o chiunque altro
– vengo salvato da una
situazione potenzialmente imbarazzante.
Mina,
ragazzina, rimangio tutto quello che ho sempre
pensato sul mio odio nei confronti dei bambini. Sei grandiosa. Grazie.
“Marco!
Non
riesco ancora a risolvere questo qui! Aiutamiiiii!”
Marco
sospira e si gira per accontentare nuovamente sua sorella, mentre lei
gli
lascia i compiti sulle ginocchia con un’aria decisamente
determinata.
“Okay,
okay,
prendi una sedia, Mina,” dice lui, prima di posare lo sguardo
su di me. “Non ti
dà fastidio, no, Jean?”
“N-no,
non
c’è problema,” rispondo, con un gesto
noncurante della mano. Sono contento che
abbiano cambiato argomento. “Che materia
è?”
“Matematica,”
si lamenta Mina ad alta voce, sovrastando lo stridio della sedia
aggiuntiva che
trascina fino alla porzione di stanza visibile dalla webcam.
“Fa schifo. La
odio.”
“A
chi lo
dici,” ribatto, sentendomi più che solidale nei
confronti della sua brutta
situazione. “Sono d’accordo con te,
piccoletta.”
“Non
sono
piccola,” aggrotta le sopracciglia in
un’espressione arrabbiata. “Guarda che ho
nove anni e tre quarti. Quasi dieci!”
“Dieci,
eh?”
controbatto in tono sarcastico. (Che c’è?
È più forte di me.) “Wow, errore mio.
Sei proprio grande!”
“Jean,”
mi
ammonisce Marco, con un sopracciglio inarcato, come se mi stesse
chiedendo cosa
diamine abbia appena fatto. Mina, tuttavia, sembra soddisfatta delle
mie scuse
tanto servili. “Dai, Mina. Siediti e sbrighiamoci a finire
prima che mamma
torni a casa.”
Guardo
in
silenzio mentre Marco spiega qualche problema di matematica a sua
sorella, toccandole
scherzosamente il naso con la matita ogni volta che si lamenta di non
aver
capito. Sento una specie di calore irradiare nel mio petto mentre li
guardo
prendersi in giro a vicenda, e mentre guardo il modo in cui gli occhi
di Marco
sembrano illuminarsi. (Sono certo che non sia uno scherzo dato dalla
cattiva
qualità della webcam.)
“Adesso
hai
capito?” Marco sorride, mentre Mina esamina i problemi con
un’espressione
accigliata.
“Ho
capito,”
risponde lei, riluttante, “… Grazie,
Marco.”
Marco
le
arruffa i capelli con affetto, nonostante
suoi tentativi di evitare le mani del caro fratello
maggiore, e poi la
invita, essenzialmente, a togliersi dalle palle.
“Mamma
tornerà presto,” afferma. “Quindi
assicurati almeno di essere a letto per
quando accadrà. Non devi per forza dormire…
Voglio essere generoso.”
Mina
sembra
reputarlo un accordo accettabile.
“’Notte,
Marco,” gli dice, scendendo dalla sedia, “A
domattina! Il tuo regalo ti piacerà
un sacco!”
Marco
si
gira nella sedia e torna a rivolgersi a me, con uno stupido sorriso da
principe
Disney, meno dispiaciuto di prima.
“Dov’eravamo
rimasti?” chiede con un ampio sorriso.
“Parlavamo
per il tuo amore per il cazzo,” sorrido beffardo, e Marco
sembra soffocare. Si
colpisce diverse volte alla base della gola con un pugno, strabuzzando
gli
occhi e deglutendo rumorosamente.
“J-Jean!”
“Che
c’è?”
ridacchio io, “è la verità.”
“Per favore, parla piano! Mia sorella
potrebbe sentirti!”
“Scommetto
che non sa nemmeno cosa significhi
la
parola ‘cazzo’, Marco.”
“Ma
potrebbe
chiedere.”
C’è del vero e proprio
terrore nel suo tono di voce al solo pensiero di quella conseguenza.
Rido
sotto i baffi, mentre Marco scuote la testa,
mortificato, ma senza alcun dubbio riesco a vedere il sorriso che sta
provando
a reprimere con tutte le sue forze, per non darmi la soddisfazione di
essere
riuscito a farlo ridere nonostante tutto. Missione compiuta.
“Ehi,
Marco.”
“Sì?”
“Ti
auguro di succhiare tanti cazzi quest’anno.”
La
volgarità della mia affermazione è ripagata anche
solo dalla sua espressione. Credo che potrebbe avere un aneurisma.
“J-Jean!
C-che razza di augurio di compleanno
sarebbe?!”
Getto
la testa all’indietro in una risata, tenendomi
disperatamente lo stomaco con le mani, e provando con tutte le mie
forze a non
cadere dalla sedia. Marco si regge la testa fra le mani, e sta fissando
la
tastiera con aria incredula.
“Sei
terribile,” mormora. Mi sporgo nuovamente in
avanti, verso la webcam.
“Lo
so,” sorrido sfacciatamente. So che non può farci
nulla; il suo viso è diventato di un bel rosso acceso,
ormai. L’ho scioccato.
“Mi
sono già pentito di avertelo detto,” afferma
debolmente.
“Fai bene a
pentirtene.”
Lo
prendo in giro per un po’ – guardarlo mentre
diventa sempre più agitato mi dà un senso
crescente di soddisfazione – ma
finiamo anche per scivolare in una conversazione normale. Gli chiedo
che cosa
spera di ricevere per il compleanno (ovviamente, mi dice che non vuole
niente
in particolare, e non si aspetta più di tanto), e poi inizia
a indagare quando
mi lascio scappare qualche informazione sul suo regalo. Lancio uno
sguardo
furtivo al CD che gli ho masterizzato, al suo posto sulla scrivania
fuori dalla
portata della webcam. Gli dico che non vedo l’ora di
darglielo e, a
quell’affermazione, si morde il labbro e distoglie lo sguardo
dallo schermo. Mi
fa arrossire di nuovo come un idiota. Siamo due
idioti con le guance rosse.
Intorno
alle undici e mezzo, si sentono dei rumori di
fondo a casa sua.
“Cos’è
stato?” domando, mentre lui si gira per
guardare verso una porta da qualche parte dietro di lui. I muscoli
della sua
schiena si tendono quando ruota il torso.
“Pare
che mamma sia tornata a casa,” risponde.
Diamine, è tardi. Mi chiedo se sia stata a lavoro.
Dev’essere dura per Marco e
sua sorella se lavora fino a quest’ora ogni giorno. (E non ho
mai visto né
sentito notizie del padre?) “Aspetta, torno subito, Jean.
Vado a vedere se è
tutto a posto.”
Si
alza in piedi, e ottengo un’imbarazzante, per
quanto piuttosto gradita, vista del suo petto quando spinge la sedia
lontano
dalla scrivania, e infine della sua schiena e della miriade di
lentiggini
proprio sopra la cintura dei suoi pantaloncini quando esce dalla
visuale.
Riesco
a stento a distinguerlo nello sfondo mentre
apre la porta e si affaccia all’esterno della stanza, mentre
parla ovviamente
con qualcuno là fuori. A un certo punto indica la stanza
alle sue spalle, gesticolando
ovviamente verso il computer.
Lo
guardo mentre muove un passo per spostarsi dalla
porta, e una donna bassa, dall’aspetto morbido e un
po’ stropicciato, entra
nella stanza. Dev’essere sua madre. Si avvicinano entrambi al
computer e Marco
scivola nuovamente sulla sedia, rivolgendomi un sorriso, nonostante sia
piuttosto nervoso, a quanto vedo.
“Jean,
lei è mia madre,” afferma, indicando con un
dito la donna che si sporge verso la webcam, con una mano sulla spalla
del
figlio. Non somiglia per niente alla mia,
di madre; ha il viso a cuore sgombro di ogni sorta di trucco, i capelli
scuri e
ricci sono raccolti in una coda e indossa una blusa e un cardigan
largo, molto da mamma. Ha molte
forme tondeggianti.
Dà un’idea di accoglienza,
se non è
una cosa troppo strana da dire. Ricorda molto Marco.
“P-piacere
di conoscerla, signora Bodt,” la saluto,
sedendomi un po’ più dritto sulla mia sedia,
passandomi una mano tra i capelli
per cercare di appiattirli. Prende gli occhiali dalla
sommità del capo, li posa
sul naso e assottiglia lo sguardo guardando lo schermo, continuando a
tenere
l’altra mano sulla spalla di Marco. Abbassa lo sguardo su suo
figlio.
“È
lui Jean?”
Marco
annuisce affermativamente. (E mi passa per la
testa il pensiero che abbia parlato a sua mamma di…
be’, di me.) Sua madre
sorride, e il suo volto
si illumina come fa ogni tanto quello di Marco. È un sorriso
veramente intenso,
e non posso far altro che ricambiarlo.
“Anche
per me è un piacere conoscerti, Jean,” mi dice.
Si gira nuovamente verso Marco. “Si sta facendo tardi,
tesoro. Non devi
lavorare presto domattina? E poi Mina vuole darti il suo regalo prima
che tu
esca da casa.”
Marco
dà uno sguardo all’angolo in basso del suo
schermo, dove immagino stia guardando l’orario. Le sue
sopracciglia si sollevano
leggermente. Stiamo parlando già da tre ore. Non sembra
proprio che sia passato
tanto tempo. Decido di intromettermi prima che Marco venga persuaso a
chiudere
la chiamata.
“Uh,
in realtà, vorrei aspettare la mezzanotte con
Marco,” affermo; sia Marco che la signora Bodt si girano a
guardarmi sullo
schermo del loro computer, con un’aria sorpresa.
“U-uh, ecco, per dargli gli
auguri di buon compleanno e quelle cose lì.”
Per essere il primo a
dargli
gli auguri, a dire la verità.
“Terrò
il volume basso, tranquilla, mamma,” aggiunge
Marco con entusiasmo. “E non preoccuparti per me,
è tutto a posto.”
La
signora Bodt esprime il suo accordo con una specie
di sospiro senza pretese, e stampa un bacio fra i capelli di Marco
prima di
augurare la buona notte a entrambi. Aspettiamo tutti e due in silenzio
per
qualche istante prima di assicurarci che abbia lasciato la stanza.
“Tua
madre sembra simpatica,” inizio per rompere il
silenzio. “Come una vera mamma.”
“Anche
la tua è una vera mamma, Jean,” ribatte lui.
“Hai
capito cosa intendo. Una mamma mammosa,”
approfondisco, tamburellando
con le dita sulla base di plastica del mio portatile. “Non
una schiava di
mariti di merda e tacchi alti e Zumba.”
“Quelle
cose non la rendono meno mamma delle altre.”
Lo so già. Mia madre è grandiosa. Ma una mamma
come quella di Marco sembra quel
tipo di mamma che non esiterebbe a stringerti in un forte abbraccio in
ogni
occasione. Questa è una cosa che gli invidio.
“…
Sì, lo so.”
Parliamo
ancora un po’ di cose abbastanza banali; principalmente di
quanto io debba
ancora guardare il finale della quarta stagione di Game
of Thrones, nonostante le proteste di Marco per quanto, cito
testualmente, quel programma sia “rozzo”.
È solo che non ha ancora visto la
luce. O i draghi.
Quando
l’orologio
del mio portatile segna le undici e cinquantanove, gli dico che deve
fare
silenzio, perché devo concentrarmi a beccare la mezzanotte
esattamente in
punto.
“Jean—”
“No,
Marco,
shh! Voglio farlo per bene!”
“Ma
sei—”
“Sssh!”
La
scritta
00:00 compare nell’angolo più in basso del mio
schermo. Sedici giugno.
“Marco?”
“Sì?”
“Buon
compleanno!”
Non
rimaniamo svegli ancora per molto dopo tutto ciò; Marco
sbadiglia di continuo,
facendo sbadigliare sempre anche me, perché
quegli sbadigli di merda sono contagiosi. Mi ricorda anche
del mio esame
di domani mattina. Oh, già.
“Tsk,
va
bene,” dico, ammettendo la mia sconfitta. Muovo le spalle e
faccio schioccare
il collo con un soddisfacente crack.
“Dovremmo chiuderla qui.”
“Probabilmente
è l’idea più saggia,” Marco
sorride con aria d’intesa. “Ci vediamo domani
– uh,
cioè, oggi. Più tardi.”
“Spero
tu
voglia vedere il tuo regalo,” gli dico in un sorriso.
“Penso che ti piacerà.
Oppure lo userai per picchiarmi. Non ho ancora deciso.”
“Hmm,
è una
bella idea,” ridacchia, e io faccio una smorfia indignata,
beffardamente. “No,
non vedo l’ora di vederlo. Davvero. Buona notte,
Jean.”
“’Notte.”
La
sua webcam si disconnette e
il mio schermo torna a mostrare la chat. Marco scrive
un’ultima faccina
sorridente come saluto, e poi la spunta verde del suo contatto lascia
il posto
all’icona che lo indica come offline. Mi disconnetto
anch’io, ma la sua buona notte
mi risuona ancora nelle
orecchie.
Non
lo
nascondo, mi sono quasi pentito di essere rimasto sveglio fino a tardi
nel
momento in cui ho sentito la sveglia suonare con la violenza di un
fottutissimo
trapano alle sette e mezza di questa mattina. Con un lamento/grido di
dolore,
rotolo su un fianco e sbatto una mano sulla sveglia alla cieca,
mancandola un
paio di volte, finché non riesco finalmente a zittire quel
trillo.
Il
sole si
infiltra nella stanza da una fessura tra le tende, illuminando il
centro del
mio letto con un raggio di luce gialla e abbagliante che mi colpisce
dritto in
faccia. Faccio una smorfia e mi copro gli occhi con i palmi delle mani.
Inizio
già a sentire caldo. Grandioso.
Decido
di
rinunciare al mare di magliette e jeans già indossati che
giacciono sul
pavimento della mia stanza, saltellando invece da uno spazio libero
all’altro,
fino a raggiungere l’armadio. Oggi mi sforzerò di
vestirmi meglio. (Lo faccio
per Lentiggini, ovviamente.) Prendo un paio di pantaloni chino beige,
che
cadono un po’ a vita bassa sui miei fianchi fin troppo
ossuti, insieme a una
cintura da abbinarci. Prendo una camicia di jeans: per una volta nella
vita
potrebbe giovarmi il fatto di uscire di casa con qualcosa che non sia
una
maglietta sudicia con il logo di una band musicale.
Mi
sento
come se mi fossi messo piuttosto in tiro,
e quel pensiero mi fa provare quella sorta di eccitazione che
normalmente non
mi aspetterei di sentire subito prima di un esame (soprattutto di un
esame di
una materia che odio sinceramente
con
tutto me stesso).
Do
uno
sguardo alla mia collezione di berretti sul fondo del mio armadio
… e prendo
quello nero. Quello rosso, il mio preferito, sembra un po’
più malconcio
(inoltre, non si abbina granché con l’outfit di
oggi). Lo indosso e passo
qualche minuto a pavoneggiarmi davanti allo specchio.
Bene
… occhiali da sole, chiavi dell’auto, libri per
un ripasso veloce all’ultimo minuto, c’è
tutto,
penso,
annotando gli oggetti nella mia lista immaginaria. Regalo
di Marco pronto per dopo… ecco qui. Il CD
troneggia sul mio
portatile con aria fiera, in una vecchia custodia che ho rimediato e
scarabocchiato a dovere (Immagino che a Marco non dispiacciano i miei
disegnini).
Il
tragitto
verso il campus fila liscio; ho tutti i finestrini della Jaguar
abbassati, e
riesco a stento a trattenermi dal tirare fuori la testa come un cane
che si
gode il vento sulla tangenziale. Quando entro nel parcheggio, sono
sorpreso di
vedere il furgone merdoso di Ymir parcheggiato qualche metro
più avanti.
La
gay
lentigginosa numero due (è stata surclassata automaticamente
dopo ieri sera,
okay?) solleva la testa dal bagagliaio quando mi avvicino a lei con la
mia
andatura rilassata; non c’era molto traffico, quindi posso
ammazzare il tempo
che mi resta parlando con lei.
“Ehi,”
la
saluto sollevando una mano. “Pensavo avessi finito
ieri.”
Mi
guarda da
capo a piedi e inarca un sopracciglio sottile, apparentemente divertita
da qualcosa.
“Wow,
sembra
che per una volta i pantaloni non ti stiano bloccando la circolazione
lì dove
non batte il sole, Jean. Qual è la grande occasione per
questo cambio di
stile?” sorride beffarda, con le mani sui fianchi. Alle sue
spalle, nel
bagagliaio, ci sono un paio di tele enormi, coperte da quelle che
definirei
pennellate di colori a caso. (Okay, diciamo che l’arte
moderna non è il mio
forte. Ma non oso insultarla davanti a Ymir. Mi taglierebbe le palle
senza
pensarci un attimo. Sul serio.)
“Accidenti,
grazie,” borbotto,
grattandomi la nuca
nel punto dove i miei capelli escono da sotto al berretto.
“Non hai risposto
alla mia domanda.”
Ride
tra sé
e sé e si gira su se stessa, chiudendo con forza la portiera
del furgone.
Strofina energicamente le mani completamente nere e impolverate sui
pantaloncini dall’aspetto malconcio. Quel furgone avrebbe
proprio bisogno di un
bel lavaggio.
“Sono
venuta
a prendere qualche dipinto che ho fatto durante
l’anno,” spiega. “Se non li
porto a casa, finiranno per appenderli qui o qualcosa di
simile.”
“E
tu non
vuoi?”
“Nah,”
fa
spallucce, mentre il suo sorriso prende una nota piuttosto compiaciuta.
“Un
tizio che lavora in non so quale galleria in centro ha detto che li
vorrebbe
esporre. E ha intenzione di pagarmi. Col cazzo che li lascio al
dipartimento di
arte dell’università.”
Mi
accorgo
di provare un’intensa invidia per lei.
Ymir
ha
scelto arte come corso principale (e uno secondario stranissimo di
storia
norrena, o qualcosa di altrettanto inutile), ma non le servirebbe
nemmeno
venire al college. Ci sono già molti professionisti
interessati ai suoi lavori,
persone che possiedono gallerie, esibizioni e tutta quella roba
lì, cazzo.
Ammassa un po’ di colore su una tela e la vende per almeno
cento dollari. Fa
esattamente quello che vorrei fare io.
“Ci
inviterai alla mostra, allora?” le chiedo in modo burbero,
mentre lei gira e
rigira le chiavi del furgone con il mignolo.
“Forse?
Se
vi va di venire, certo,” risponde.
“Cioè, Historia è già sulla
lista degli
invitati, ma se vuoi venire anche tu fammi un fischio e aggiungo anche
te.” La
sua espressione si illumina, come se avesse ricordato qualcosa di
fondamentale.
Non è per niente fondamentale. Mi fa arrossire fino alla
punta delle orecchie.
“Oh, ehi! Ho capito perché ti sei messo in tiro;
è il compleanno del ragazzo
della piscina per cui sicuramente non fai pensieri sconci, giusto? Ora
ricordo!
Ti senti fortunato oggi, eh?”
“Fanculo,”
dico in un sibilo. “Sul serio, perché perdo tempo
a parlarti?”
Ymir
si mette a ridacchiare,
quindi le mostro il dito medio e annuncio burberamente che ho un esame
da fare,
e che spero di non rivederla mai
più.
Incontro
Connie poco prima di entrare nell’aula di filosofia. Sembra
essersi ripreso
dall’esaurimento post-matematica, e non la smette di parlare
di quanto si
ubriacherà stasera con Sasha, Historia e Ymir. Prova ancora
una volta a
convincermi a unirmi a loro, quindi gli intimo di riportare la mente a
Russell.
L’esame
in
sé è … un po’ uno schifo. Le
domande sono poste in modo veramente strano, quindi
ci metto un po’ a capire cosa diamine stiano chiedendo
effettivamente; alla
fine, non scrivo quanto mi sarebbe piaciuto, ma non penso nemmeno che
sia un totale disastro.
Inoltre,
ormai non me ne importa più nulla. L’estate adesso
è così vicina che riesco a gustarla.
Quando il sorvegliante passa
per ritirare il mio foglio, riesco praticamente a sentire
l’agitazione di
Connie a tre file di distanza. Mi scocca un sorriso estatico e io alzo
gli
occhi al cielo, ma non posso che sentirmi tremendamente sollevato. Sono
contento che l’anno si sia concluso.
Connie
sta
praticamente saltellando quando lo allontano dalla folla dei nostri
compagni
del corso di filosofia, e ci dirigiamo entrambi verso il parcheggio. Il
furgone
di Ymir ormai non c’è più, e scorgo il
pick-up di Connie qualche posto più in
là rispetto a dove ho incontrato Ymir prima. Ci separiamo
quando raggiungo la
mia Jaguar.
“Sei
sicuro di non voler venire con noi
più
tardi?” prova un’ultima volta, poggiandosi sullo
sportello dell’auto mentre
prendo posto dietro allo sterzo. Abbasso il finestrino e chiudo la
portiera,
sottraendola alla sua presa.
“Sto
cercando di preservare il fegato,” rispondo con un sorriso
esasperato. “Per il
prossimo fine settimana.”
Connie
la
ritiene una scusa accettabile e sposta il peso sui talloni, infilando
le mani
nelle tasche dei pantaloncini.
“Cazzo
se non vedo l’ora. Sarà
una cosa da pazzi!”
Non
potrei
uscire dall’auto più rapidamente quando parcheggio
davanti al garage di casa
mia. La coupé di mia madre non c’è,
quindi presumo sia uscita a fare la spesa,
o per qualche lezione di fitness, o qualsiasi cosa; non me ne frega
niente, a
essere onesti, perché sto pensando soltanto a una cosa.
Getto
lo
zaino sulla fine della ringhiera delle scale nel preciso istante in cui
varco
il portone principale, e scalcio via le scarpe con così
tanta forza che
atterrano sul primo gradino. Scivolo in cucina, puntando il frigo, e do
uno
sguardo fuori dalla finestra della cucina.
Non vedo la polo blu che mi
aspettavo (e che non
vedevo l’ora) di vedere.
Be’,
non è
esattamente la verità. È
la stessa
polo. È blu fiordaliso, con un nome ricamato sulla parte
sinistra del petto.
Ma
sono più
che certo che non sia Marco a indossarla.
Mi
blocco e
mi sporgo verso la finestra, schermandomi gli occhi dal sole con una
mano. Il
tizio che indossa la polo blu è basso; ha tipo la statura di
un ragazzino delle
medie, ma sembra veramente arrabbiato con quel cazzo di retino che
tiene in
mano. Non ho molto tempo per chiedermi perché, dato che a
quel punto noto l’altro
tizio sul bordo piscina, intento a togliere il filtro
dall’acqua.
Ogni
singolo
stereotipo che mi ero prefissato sugli inservienti delle piscine trova
conferma
in un unico sguardo al culo di quel tipo. Rende giustizia persino agli
slip da
bagno. Passami la candeggina.
È
alto.
Abbronzato. Biondo. E ha degli addominali che fanno sembrare Marco come
un
quarantenne flaccido in confronto a lui.
Stanno
pulendo la piscina o filmano un cazzo di film
porno là fuori?!
Il
tizio più
basso inizia a parlare con il collega super-muscoloso che, per tutta
risposta,
sembra semplicemente ridere. Il primo pensiero che mi passa per la
testa è: mamma, dove sei?
Quanto se la
spasserebbe a guardare quegli addominali d’acciaio.
Non
è questo
il punto. Dov’è Marco? Ha detto che ci saremmo
visti oggi.
Prendo
il
telefono dalla tasca dei pantaloni, ma non ci sono messaggi non letti
né
chiamate perse. Stringo la bocca in una linea sottile.
Gli
mando un
messaggio che va dritto al punto.
A:
Marco-Polo
Ehi dove sei?
Prendo
una
Coca-Cola dal frigo, superando una cassa intera di Dr. Peppers, senza
scollare
gli occhi dallo schermo del mio Samsung. Marco di solito è
piuttosto rapido a
rispondere … ma non questa volta, a quanto pare. Tiro la
linguetta e bevo un
lungo sorso, pulendomi la bocca con il dorso della mano.
Potrei
chiedere a loro.
Apro
la
porta sul retro e metto piede nel patio, cautamente. Il tizio basso ha
un’aria
intimidatoria, nonostante sia circa mezzo metro più basso di
me. E il tizio più
alto … be’, basta dire che mi sto sforzando
terribilmente per cercare di
guardare qualsiasi cosa che non sia il suo culo. È
praticamente un faro nel buio. Un
culo-faro. Grandioso.
Perfetto. Letteralmente.
Non
mi
avvicino troppo alla piscina; il ragazzo più basso mi lancia
uno sguardo mentre
mi avvicino, e poi mi ignora apertamente, pensando che filtrare la
sporcizia
inesistente sia molto
più
interessante. Ma sono abbastanza vicino da riuscire a leggere il nome
ricamato
sulla sua maglietta: Levi. Come i
jeans, immagino. Il nome mi sembra familiare, ma non riesco a ricordare
perché.
“Uh,
ciao,”
saluto, in imbarazzo, reggendo la Coca-Cola vicino al petto. Il
biondino allora
si accorge della mia presenza, girando la testa per guardarmi quando mi
sente
parlare.
E
per
aggiungere la ciliegina sulla torta, anche il suo viso è
bellissimo. Cioè, ha
un viso da modello. Mi chiedo perché pulisca piscine per
vivere, con una faccia
e un corpo del genere. Io sicuramente non lo farei.
“Ehi,”
sorride, porgendomi una mano. Spero che non noti il modo in cui
strofino
furtivamente la mia mano sulla
coscia, perché il mio palmo è schifosamente
sudato. La mia stretta è quasi
inerme, mentre non ho idea di cosa dovrei guardare in questo istante.
Non
il suo pacco, questo è poco ma sicuro. Mantieni lo
sguardo in alto a tutti i costi!
“Io
sono
Erwin,” continua. Anche il suo nome mi ricorda qualcosa.
“Sei tu il
proprietario di casa?”
Ovvio
che non sono io il proprietario, cazzo,
medito
brevemente. Quanti anni dimostro?
Ma
ovviamente sta domandando solo per questioni di soldi.
“No,”
rispondo.
“Ma mia madre mi ha lasciato i soldi, quindi non
c’è problema.”
Erwin
distende il viso in un sorriso abbagliante, ma probabilmente finto, e
fa per
tornare a lavorare. Ma io non ho finito.
“Q-quindi,
uh, cos’è successo a Marco?”
“Marco?”
È
il tipo più basso, Levi, a parlare con
un’espressione accigliata. Sposta il
peso sul retino e inclina leggermente i fianchi. “Si
è preso qualche giorno
libero. Ci ha lasciati a coprire i suoi turni, quella merda. Giusto per
raddoppiare il lavoro e il numero di piscine sudice da
pulire.”
“Qualche
giorno libero?” ripeto in tono robotico. Marco non me ne ha
parlato, ieri sera.
“Quando ha—”
“Nel
bel
mezzo del suo stramaledetto primo appuntamento di
stamattina,” Levi risponde
ancora prima che abbia finito di formulare la mia domanda.
“Ha
spiegato
perché—”
“No.”
“Levi,”
lo ammonisce Erwin.
Gli rivolge uno
sguardo d’intesa e solleva le sopracciglia folte con
un’aria d’attesa. Levi
aggrotta la fronte, facendo cadere lo sguardo sull’acqua.
Ovviamente
ho capito che sanno qualcosa. E che
questo Levi proprio non vuole raccontare dei dettagli privati al primo
adolescente che trova, che si presume abbia poco a che fare con il loro
collega
lentigginoso. E il fatto che la pensi così, tanto per
cominciare, mi
infastidisce.
“Ma
stava bene
o sembrava—”
“Senti,
ragazzino,” dice Levi, agitando il retino fuori
dall’acqua e utilizzandolo per
gesticolare nella mia direzione. “Sono fatti suoi, non miei.
E probabilmente
neanche tuoi.” Ovvio che sono fatti
miei,
testa di cazzo. Sono suo amico. L’amico a cui Marco aveva
promesso di venire
oggi.
“Ma…
Marco
ha detto che sarebbe stato qui. Oggi.” È
il suo compleanno, aggiungo dentro di me.
“Mi
spiace,”
dice Erwin, con un po’ più di comprensione.
“Pare che tu ci debba sopportare, almeno
per oggi. Ci toglieremo dai piedi appena possibile.”
Non
è questo
il problema.
Arranco
di
nuovo fino alla cucina e bevo il resto della mia Coca-Cola in un unico
sorso.
Accartoccio la lattina tra le dita e la getto in direzione della
spazzatura.
Colpisce il bordo e non riesce a fare canestro, sferragliando sulle
mattonelle
del pavimento della cucina. Sono costretto a percorrere la camminata
della
vergogna per andare a gettarla con le mie mani.
Controllo
di
nuovo il telefono, ma non ha ancora risposto. Quindi gli mando un altro
messaggio.
A:
Marco-Polo
ehi oggi vieni? il signor palo-nel-culo e superman biondo stanno
pulendo la
piscina quindi che devi fare? hanno detto che ti sei preso qualche
giorno.
fammi sapere
Il
compleanno di Marco trascorre senza che Marco stesso si faccia sentire.
C’è una
distinta sensazione di vuoto nel mio petto quando considero diverse
possibilità… tipo che non voglia passare il
compleanno con me, costretto a
pulire la mia piscina. O che forse abbia raggiunto il limite della sua
sopportazione per assecondarmi vista la mia situazione. O che abbia
trovato
qualcosa di meglio da fare piuttosto che stare con me.
Non gliene farei una colpa.
Devo
letteralmente scuotere la testa per scacciare quei pensieri. No. Basta.
No. Non
è come prima. La gente non ti
dà buca
così semplicemente, Jean. Succede solo nella tua testa. Non
nella realtà.
Marco
non è
così.
Così
sorge
la domanda principale: cos’altro
può
essere successo?
Gli
mando
qualche altro messaggio durante il giorno e, appena prima che mia madre
torni a
casa, mi arrendo e provo con una telefonata, ma si attacca subito la
segreteria
telefonica.
“Ciao,
questo è il numero di Marco Bodt. Sapete come
si lascia un messaggio. Richiamerò appena mi sarà
possibile!”
Riaggancio
prima che il segnale acustico dei messaggi mi risuoni
nell’orecchio.
Forse
la sua
famiglia gli ha organizzato una festa. Forse qualcuno dei suoi amici ha
deciso
di portarlo da qualche parte per il suo compleanno. Forse… forse. Ci sono troppi forse. (Provo a non
rimuginare sul fatto che
una festa non richiede più di un giorno libero, e che il
gran numero dei suoi
amici ammonta a me, Reiner e Bert.)
Dai,
Marco, potresti anche rispondere. Hai lanciato il
telefono nell’oceano Pacifico o cosa?
Tutto
ciò mi
mette decisamente di cattivo umore. Non dovrebbe, eppure è
così, perché sono Jean,
ed è così che fa
Jean. Si arrabbia tantissimo, senza un motivo in particolare.
Per
peggiorare le cose, mio padre si presenta a cena. Mi fa piacere vedere
che sta
ancora cercando di adempiere ai suoi doveri di padre, venendo a
controllare
com’è andato l’esame. Ho il telefono
sulle gambe, sotto al tavolo, quando
comincia l’interrogatorio.
“Allora?
Tua
madre mi ha detto che pensi che matematica sia andata bene, no? E
chimica?” Non
nomina nemmeno le altre tre materie; non gliene frega proprio nulla.
“Tutto
a
posto,” rispondo, sbirciando lo schermo del telefono, tenendo
le posate sospese
sul piatto. Il mio sguardo non si avvicina neanche lontanamente a mio
padre che
siede all’altra estremità del tavolo. Non elaboro
il discorso, non provo a
innescare l’inevitabile bomba che scoppierebbe se gli dicessi
che era un esame
particolarmente difficile e che non mi aspetto molto. Non gli dico
niente e
basta.
“A
posto?”
dice mio padre in una risata secca (ma in
realtà non è divertito).
“È tutto quello che riesci a dirmi, Jean? Dicci
che domande c’erano.”
Mi
chiedo a
cosa possa servire, perché qualsiasi parola sulla chimica
non sfiorerebbe
nemmeno l’interesse di mia madre, e posso garantire che, non
appena aprirò
bocca e inizierò a parlare, verrei interrotto in ogni caso.
Do un altro sguardo
al telefono.
“Non
c’è
altro da dire,” ribatto nel tono più burbero che
riesco a osare. “Ormai l’ho
fatto, e in ogni caso non ho intenzione di riprendere chimica il
prossimo
anno.”
Merda.
Non
volevo dirlo.
“Non
ne
abbiamo mai discusso,” risponde mio padre, camuffando
l’affermazione in un tono
interrogativo. Sembra come se stesse cercando di non lasciar trapelare
i suoi
veri sentimenti, fallendo piuttosto miseramente. “La scelta
è fra chimica e
matematica, Jean. Devi sceglierne una di queste due come indirizzo
principale
per il prossimo anno. E preferibilmente mantenere l’altra
come materia
secondaria.” Il resto della frase nella sua testa
probabilmente continua con
qualcosa del tipo: francese, storia e
filosofia sono più che inutili, per quanto mi riguarda.
Riesco
a
vedere Ymir e il suo furgone di merda pieno di dipinti nella mia testa,
e devo
scacciare quell’immagine. Spingerla più indietro
possibile, sotterrarla sotto
equazioni, numeri e statistiche. Non va via così facilmente.
Sbircio
un’altra volta il telefono sotto al tavolo, ma stavolta mia
madre se ne
accorge.
“Cosa stai guardando, Jean?” mi
accusa,
sporgendosi verso di me. “Cosa ti ho detto riguardo al
telefono durante i
pasti?” Artiglia il mio cellulare tra le unghie e lo posa sul
tavolo di vetro
con un sospiro.
“Mamma,”
insisto, allungando un braccio per prenderlo e alzandomi dalla sedia.
Lei lo fa
scivolare sul tavolo, lontano dalla mia portata. “Mi serve,
dai.”
“Sai
che non
dovresti mandare messaggi mentre sei a tavola,” mi dice.
“E
soprattutto non mentre sto provando a fare una conversazione importante
con
te,” aggiunge mio padre. “È un discorso
serio, Jean. Vorrei che lo capissi,
almeno per una volta.”
Questo
mi
manda fuori dai gangheri nel modo peggiore in assoluto. Digrigno i
denti e mi
faccio strada a spintoni tra i pensieri che ho in testa.
“Dai,
mamma.
Mi serve,” ripeto, ignorando deliberatamente ciò
che mio padre ha appena detto.
“Non sto mandando messaggi a nessuno.”
Prego
tutte
le divinità perché non faccia la mogliettina
svampita in questo preciso
istante. Spero che capisca cosa sto cercando di dirle, senza che nomini
quella
cosa che sicuramente affonderebbe entrambi. Dai, mamma. Fai due
più due. Ridammi il telefono.
“Sei
incredibilmente maleducato con tua
madre,” mi stronca mio padre. “Adesso siediti e
finisci la cena, Jean.
Sono
maleducato. Io sono maleducato? E
tu
ovviamente no, eh? Tu non sei maleducato con mamma? A volte non riesco
proprio
a credere a quante cazzate spari da quella bocca.
“Mamma,
per favore.”
Mi
sembra
titubante, combattuta tra due opzioni: mettere il mio Samsung nella
tasca e
restare una brava casalinga fedele allo stronzo del secolo, oppure
realizzare
che sono davvero, sinceramente serio
in questo preciso istante.
“P-però
non
mandare più messaggi da sotto al tavolo,” mi
raccomanda. “Puoi aspettare fino
alla fine della cena, okay?”
“Céline,”
insiste mio padre. Che c’è, papà, che
c’è?
Lascia
cadere nuovamente il telefono nella mia mano tesa, e le mie dita si
avvolgono
saldamente intorno a esso. Incontra il mio sguardo per un brevissimo
istante, e
spero che riesca a vedere la mia gratitudine.
L’atmosfera
dopo quell’avvenimento è terribile.
Ma almeno papà non insiste con le domande sul mio
maledettissimo futuro,
limitandosi a ficcarsi carote in bocca in grandi cucchiaiate.
Dopo
tutto
ciò, non potrei uscire da quella stanza più
rapidamente di così, volando via
dalla mia sedia non appena mio padre abbandona finalmente le posate per
ultimo,
e corro verso la lavastoviglie, gettandovici dentro il mio piatto. Il
vassoio
bianco risuona sui cardini appena lo infilo nella macchina, e sono
così irritato, cazzo.
“Jean.”
Mia
madre è in piedi davanti alla porta della cucina, con in
mano il suo piatto e
quello di mio padre. Non si smuove. “Cos’era
tutta quella scenata, Jean?”
“Niente,”
borbotto, con l’intenzione di superarla senza degnarla di uno
sguardo, per
andare a fare l’eremita nella mia stanza con il mio
sketchbook per il resto
della serata. Il modo migliore per iniziare le vacanze estive.
Angosciandomi.
Ma
mia mamma
– solitamente debole di volontà, praticamente
ridotta a uno zerbino – allunga
un braccio per fermarmi.
“Jean,
guardami. Sono tua madre. So quando c’è qualcosa
che non va, piccolo mio.”
Rabbrividisco nel sentire quell’appellativo, ma mi ritrovo
incollato al
pavimento. “È ovvio che sia successo qualcosa se
stai così attaccato al
telefono, soprattutto di fronte a
tuo
padre.”
È
questo il
punto, mamma. Non so se sia effettivamente
successo qualcosa. E questo rende tutta questa situazione ancora
più ridicola,
perché non dovrei essere così dipendente da un
SMS, giusto? Forse mi aspetto
troppo.
“Oggi
è
venuto Marco?”
“No.”
Sospira
attraverso il naso e lascia cadere il braccio, avanzando nella cucina
per
posare la pila di piatti sul bancone. Le sue spalle sembrano incurvarsi
quando
si gira nuovamente a guardarmi, con quell’espressione da sono-una-mamma-e-ti-conosco-meglio-di-quanto-ti-conosca-tu-stesso
stampata in volto. Non la sfoggia molto spesso.
“Ah,
ecco,”
dice in un tono pieno di sottintesi. Non approfondisce, non mi
ringrazia per
non aver nominato il ragazzo della piscina davanti
all’irascibile papà, si
aspetta semplicemente che capisca cosa voglia dire con quel ah ecco. Non lo capisco.
“Senti,
mamma, non è successo niente.” Sembro praticamente
una ragazzina di tredici
anni che si agita perché il ragazzo che le piace non
l’ha ancora richiamata
come aveva promesso. È ridicolo, cazzo. Non pensate che non me ne sia reso conto.
È
a quel
punto che me ne vado, perché deduco che non abbia intenzione
di dire altro (e
anche se lo facesse, finirebbe solo per infastidirmi ulteriormente,
oltre a
caricarmi di un senso di frustrazione).
Mando
altri
tre messaggi a Marco e provo ancora una volta a sconfiggere la sua
segreteria
telefonica, mentre fisso il CD sulla mia scrivania, prima di decidere
di darci
un taglio. Ho l’album da disegno sulle gambe per tutto il
tempo, ma non riesco
a disegnare nulla. Ogni volta che prendo in mano la matita mi viene
voglia di
disegnare Marco e, quando voglio disegnare Marco, non riesco a non
pensare al
fatto che mi abbia dato buca senza una cazzo di parola. Alla fine, sono
stanchissimo per via degli esami e mi addormento per ben dodici ore.
Una
delle ultime cose che mi
passa per la testa è: perché
devi diventare
così fottutamente dipendente appena qualcuno ti presta un
minimo di attenzione,
eh?
Ancora
nessuna notizia di Marco giovedì. Mi sveglio intorno
all’ora di pranzo (e, per
un brevissimo istante finché non ricordo tutto
ciò che c’è di sbagliato nella
mia vita, mi sento assolutamente alla grande, cazzo), e mi concedo
approssimativamente dieci secondi di speranza quando vedo dei messaggi
non
letti sul telefono.
Tuttavia,
non sono da parte di Marco; c’è solo una caterva
di messaggi molto ubriachi e
molto incoerenti da parte di Connie
e
Sasha. Almeno loro hanno passato
una
bella serata per festeggiare la fine del semestre. Continuo a scorrere
tra quei
messaggi per divertimento, ma non mi prendo il fastidio di rispondere
in alcun
modo. Probabilmente staranno entrambi dormendo per smaltire la sbornia.
Trascino
il
mio portatile giù dalla scrivania, scostando il CD di Marco
da un lato, e mi
rifugio nuovamente nel letto, allestendo una montagna di coperte su cui
collassare. Tengo il computer in equilibrio sulle ginocchia e mi
connetto
velocemente su Facebook; solo tre notifiche, nessuna di cui
m’importi. Vado sul
profilo di Marco, ma non c’è alcuna
attività.
Controllo
anche su Skype, ma non l’ha riaperto dalla nostra
conversazione dell’altra
sera. Gli mando un messaggio comunque, perché è
destinato a vederlo prima o
poi. Vero?
KirschFINE:
>> yo ma sei scomparso dalla
faccia
della terra
>> xké sembra proprio
così
>> potresti tipo…
rispondermi agli
sms e dirmi che sei vivo o qualcosa del genere
Dovrebbe
bastare, ma sento l’urgenza di scrivere un ultimo rigo.
KirschFINE:
>> mi stai facendo preoccupare.
non
vedevo l’ora di vederti lol
Ecco.
Così dovrebbe andare.
Quel lol bilancia il sottotono
piuttosto gay. Così non è per nulla sospetto.
Venerdì
vado
da Connie per giocare un po’ all’Xbox.
Be’, quella era l’idea, ma riconosco
quella trappola mortale arrugginita della bici di Sasha appoggiata su
una
facciata della casa quando parcheggio la Jaguar su un lato della strada.
Sasha
insiste per giocare con noi, nonostante Connie abbia solo due
controller; loro
due finiscono per giocare a turno, nonostante Sasha abbia assolutamente
zero
esperienza di gioco in Call of Duty,
finendo per farci uccidere entrambi.
“Dai,
Sasha!” mi lamento ad alta voce, lasciando il controller
sulle mie gambe. “Non
sai proprio giocare, Cristo santo!”
“Non
è vero,
sei tu che non sai
giocare!” ribatte
lei in maniera infantile, facendomi la linguaccia.
“Sash,
fai
schifo a questo gioco,” concorda Connie in un sospiro.
“Jean ha ragione.”
“Be’
forse dovreste
calmarvi un po’,” scherza. “È
solo uno stupido gioco.”
Mi
lascio
sfuggire un grugnito e mi stendo sugli sgangherati cuscini del divano
mentre
Connie e Sasha iniziano una specie di discussione sulle
virtù di Call of Duty.
Tiro fuori il telefono
dalla tasca dei jeans come d’abitudine, e sblocco lo schermo.
No, nessun
messaggio. Ancora. Aggrotto le
sopracciglia. Ho perso il conto delle volte in cui si è
ripetuta questa scena
oggi. Non so perché conservo ancora un briciolo di speranza.
Non sento nemmeno
la vibrazione del telefonino in tasca o qualcosa del genere.
“Cos’è
che
continui a guardare?” sottolinea Sasha, “Al
cellulare, intendo.” Alzo
lo sguardo su di lei, e noto che stava
stringendo Connie in una presa di wrestling, ma si è fermata
per indicare il
Samsung che ho in mano con un cenno del capo.
“L’amante che ci stai nascondendo
ti sta punendo con il silenzio?”
“Non
rompere, Sasha.”
Guardo
Connie mentre si divincola, un po’ come un pesce, dalla sua
presa, per poi
spintonarla per la spalla. Sasha restituisce la spinta al suo ragazzo,
con
molta più forza.
“Non
puoi
prendermi in giro, Jean,” sorride beffarda. “Ho un
sesto senso per queste cose,
lo sai!”
“Come no,” diciamo io e Connie
in coro,
impassibili. Sasha si sporge per schiaffeggiarci entrambi sulla testa.
Che
amici premurosi che ho.
“Oh!
A
proposito!” esclama a quel punto Sasha, voltandosi per
trovarsi di fronte a me
dalla sua posizione sul divano. Le cose possono solo peggiorare quando
esordisce così. Faccio già una smorfia.
“Com’è andata mercoledì? Con
il mixtape
sdolcinato?”
Non
voglio
sapere perché la
conversazione
precedente le abbia ricordato tutto
ciò. Non ho molto tempo per pensarci, tuttavia,
perché il brontolio generale
che mi pervade inizia a vorticare nuovamente nel mio stomaco.
“Non è andata.”
“Coooomeee?”
esclama Sasha. “Che intendi? A Marco non è
piaciuto il regalo?”
“Non
lo so,”
rispondo, provando a scrollare le spalle con aria indifferente.
“Non gliel’ho
ancora dato. Non ci siamo visti.”
“Ohhhh,”
sussurra Sasha. “Oh no. E tu stai aspettando che lui ti
chiami? Oh cielo,
Connie, hai sentito? Non è sempre
tutto
rose e fiori.”
“So
che
questa non è casa mia, ma non pensare che non possa cacciarti a calci in culo fuori da qui,
Sash.”
“Oh,
e dai,
Jean, stai sempre incollato al telefono. Non pretendere che io non veda
quei
sorrisetti carinissimi che riesce a strapparti con un semplice
messaggio,”
ridacchia Sasha, e non nego che l’urgenza di picchiarla con
un cuscino del
divano sta aumentando esponenzialmente. “Sembra la storia di
una soap opera, è fantastico.”
“A
quanto
pare non guardiamo le stesse soap opera, allora,” ribatto
bruscamente.
“E
comunque,
ai nostri messaggi non rispondi mai,”
continua a lagnarsi. “Non è vero,
Connie?”
“Ha
ragione,
in effetti. A noi non rispondi
mai.”
Vorrei
ricordare loro che il punto è che Marco non
sta rispondendo ai miei, di messaggi. Sarei piuttosto felice se lo
facesse,
così potrei rispondergli.
“Te
l’immagini?
Lentiggini e capellone, potremmo chiamarvi così,”
dice Sasha con un ampio
sorriso, scompigliandomi i capelli biondi sulla sommità
della mia testa.
Rispondo
alla sua affermazione con un lamento e provo a rotolare
dall’altra parte del
divano. Sasha non demorde.
“Sai,
farebbe troppo ridere se finissi per succhiargli il cazzo dopo tutte
queste
proteste.”
È
la goccia
che fa traboccare il vaso, rotolo su un fianco e affondo il viso nella
spalliera del divano, soffocando un urlo di sconfitta. Huuuurrrrrrgh.
Sono certo che scopare con lui sia l’ultimo
dei miei pensieri … preferirei semplicemente
che mi richiamasse, cazzo.
“Ma
no,
Sash,” la interrompe Connie, che ha deciso di poter dire la
sua sulla mia vita
sessuale. “Andiamo, stai decisamente correndo un
po’ troppo.”
Forse
Connie
ha notato che mi sto praticamente fondendo con il divano.
Perché. Perché deve
succedere sempre a me. Non ho mai chiesto di ricevere questo
trattamento.
“Ve
l’ho
detto, so come vanno queste cose! È sempre il mio sesto
senso,” afferma Sasha
in tono serio.
“Sappiamo
tutti che il tuo gaydar fa cagare, Sash. Non ci hai creduto per tipo
tre mesi
quando ti abbiamo detto che Eren è gay.”
“Non
è gay. È un gesto evasivo con la mano.”
“Sì,
pensala
pure come vuoi. Comunque ho ragione io.”
A
quel punto
torno una volta per tutte nella conversazione, sentendo il bisogno di
prendere
aria tra un lamento e l’altro soffocato nel divano. Sollevo
la testa per
fissare Connie e Sasha nel bel mezzo del dibattito.
“Aspettate,
Eren è gay?”
“Gesto evasivo con la mano,” mi
corregge
Sasha, prima che Connie ci interrompa.
“Uh,
certo. Non hai ancora sentito
parlare del
suo vicino sexy con un complesso di superiorità che abita al
piano di sopra del
suo appartamento? Non parla d’altro.”
“No.”
“Bene.
Ringrazia il cielo di essere stato risparmiato, allora.”
Tuttavia,
a
Sasha non importa un bel niente di Eren. È ancora
interessata al discorso precedente.
“Scommetto
che Jean si scopa il ragazzo della piscina entro la fine
dell’estate,” afferma,
dando un colpetto al braccio di Connie per attirare ancora una volta la
sua
attenzione. Credo che non senta nemmeno la mia sfilza di no,
per favore, smettila. Connie sembra prendere in
considerazione
la proposta per circa due millisecondi. Grazie, amico mio. Sono
contento di
sapere che sei dalla mia parte.
“Vada
per la
scommessa. Dopotutto, mi serviranno dei soldi per sistemare il pick-up
prima di
settembre.”
A
quanto pare il mio relativo
interesse per gli uomini non è più il fulcro
della conversazione.
Da:
Ymir
allora ho sentito che c’è una scommessa in corso
se ti scopi o no il ragazzo
della piscina
A:
Ymir
nn so da dove hai ricevuto quest’informazione ma sono tutte
bugie
A:
Ymir
connie e sasha sono delle merde non credere a una sola parola di quello
che ti
dicono ok. il loro unico scopo nella vita è rendere la mia
vita un inferno
Da:
Ymir
come ti pare. partecipo comunque. mi servono soldi.
A:
Ymir
per cosa esattamente ?! sei tipo l’unica ad avere un lavoro
Da:
Ymir
per la birra. ovvio.
Quando
mi
sveglio sabato mattina (tecnicamente
alle dodici meno un quarto è ancora mattina, okay?), non
c’è nessuno nel
cortile posteriore. Mi precipito giù per le scale per
trovare mamma che sfoglia
una rivista sul bancone della cucina, sorseggiando qualche stupido
caffè che-non-è-veramente-caffè.
Avete capito,
quelle schifezze salutiste di merda.
“C’è,
uh…
dov’è… è già
venuto qualcuno, uh, per pulire la piscina, mamma?”
Alza
lo
sguardo su di me, lasciando cadere la pagina che stringeva tra le dita.
“No,
non
vengono oggi. Hanno chiamato questa mattina per dirmi che sono a corto
di
personale in questo momento, e hanno dovuto rimandare
l’appuntamento a domani. Il
che è un bel problema, in realtà,
perché non sarò a casa per quasi tutto il
giorno, e— tu ci sarai, tesoro?”
Huh.
Grandioso.
“Sì,
sarò in casa.”
Le
ore tra
mezzanotte e le sei del mattino hanno la strana abitudine di farti
sentire come
se potessi toccare il cielo con un dito, oppure come se fossi
schiacciato dal peso
del mondo. Sono un debole. Non
arrivo
neanche alle due del mattino che quel peso si fa sentire.
A:
Marco-Polo
allora senti sono le 2 di mattina quindi probabilmente non sono molto
lucido
A:
Marco-Polo
e so che non ci vediamo solo da una settimana e che abbiamo parlato
martedì
vabbè
A:
Marco-Polo
(lo so sono pessimo)
A:
Marco-Polo
ma X FAVORE puoi rispondermi xké prima ero solo un
po’ arrabbiato ma ora inizio
a essere piuttosto preoccupato x te
Domenica
è
una giornata da sigaretta (e spero seriamente che la mia estate non
trascorra
tutta in questo modo).
Non
sono in
piedi neanche da un’ora e sento già quel
disperato, patetico bisogno di
nicotina, e mi sto arrampicando sul tetto, con in mano un pacchetto di
sigarette e l’accendino.
L’aria
di
Trost è fottutamente immobile oggi; stagnante, calda e
secca. Riesco
praticamente a sentire le mie labbra disidratarsi e seccarsi con un
unico
respiro. Il solito profumo dell’estate, fatto di prato appena
tagliato, di cibo
arrostito sul barbecue, anche di cloro… non riesco a sentire
niente di tutto
ciò. Sembra esser stato rimpiazzato semplicemente dai gas
delle automobili
provenienti dal centro della città. Non è un
odore di fumo sopportabile; è
quella roba densa, nera e putrida, e mi arriva dritto alla testa,
facendola
girare. Ugh.
Incespico
un
po’ per provare a trovare una posizione comoda sulle tegole
grigio-nere (che, a
proposito, sono già bollenti). Il tizio basso –
Levi – si è presentato qui poco
fa, e sta lavorando più diligentemente di come Marco abbia
mai fatto per pulire
la piscina nel cortile che si estende ai miei piedi. È
peggio di mia madre
quando si tratta di vedere sporcizia immaginaria là dentro,
a quanto pare.
È
un peccato
che l’inserviente-superman non sia venuto con lui. A mamma
sarebbe piaciuto e
forse, è solo un’ipotesi, se Marco non dovesse
più farsi vivo, lei avrebbe
degli altri addominali a cui pensare.
Mamma
fa
capolino nel cortile per dare a Levi la busta bianca con la sua paga,
che lui
ritira senza dire molto, a quanto vedo. Mamma gira i tacchi per tornare
in
cucina, ma il suo sguardo si posa sul tetto, e poi su di me.
“Jean!”
grida, portando le mani sui fianchi. “Che
cosa stai facendo esattamente sul tetto?”
Fortunatamente
non ho ancora acceso, quindi nascondo furtivamente il pacchetto sotto
la
coscia. (Anche se dubito che riesca a vedere cos’ho in mano
da una distanza del
genere.)
“Mi
deprimo,”
le grido di rimando. Oggi non mi sta andando di dare spiegazioni.
Credo
che la
mia risposta la sconvolga, ma ha fretta di andare a non so che lezione
di
fitness o appuntamento dal chirurgo plastico, quindi non ha tempo per
indagare
sul mio comportamento. Opta per quel disgustoso tono da mamma che usa
ogni
tanto quando deve farmi una strigliata.
“A
volte non
ti capisco, Jean.”
Siamo
in
due.
Circa
cinque
minuti più tardi sento il rumore del motore della sua
coupé allontanarsi dal
vialetto e immettersi nella strada, quindi accendo una sigaretta.
(Dubito che l’inserviente
abbia intenzione di fare la spia, quindi sono fuori pericolo.)
La
nicotina
mi arriva dritta al cervello, ed è un bene,
perché proprio non voglio
pensare lucidamente in questo momento. Provo a
concentrarmi sul modo in cui il fumo mi graffia i polmoni e la gola; la
sensazione non è bella come sembrava un tempo, ma la
sopporto, perché ne ho bisogno.
Fumo
cinque
sigarette di seguito fin troppo rapidamente (se Marco fosse qui mi
picchierebbe
a sangue), guardando Levi mentre lavora, sovrappensiero. Si muove
rapidamente,
e tutti i movimenti sembrano decisi. Giurerei di averlo sentito
borbottare
qualcosa sullo stato del filtro una o due volte (a
quanto pare non gli piace la sporcizia).
Qualcosa
rumoreggia nel vialetto dall’altra parte della siepe sul
retro, e riesco a
stento a scorgere il tettuccio di una vettura bianca (il tetto di casa
mia non
è abbastanza per avere una vista più chiara della
strada, quella siepe andrebbe
proprio tagliata al più presto). Non ci penso più
di tanto, perché Levi, con i
suoi guanti di gomma tirati fino ai gomiti e una bottiglia di
candeggina in
mano, è accovacciato sulla griglia di scolo, e
apparentemente guardarlo è molto
più interessante di qualsiasi altra cosa. Non sono
sarcastico. Non credo di
aver mai visto nessuno così immerso nella pulizia.
Tuttavia,
alzo lo sguardo quando il cancello sul retro si apre.
Non
realizzo, per un istante, che quello lì è Marco,
che entra come se vivesse qui,
cazzo.
Non indossa gli abiti da lavoro, e sono così abituato a
vederlo vestito di blu
fiordaliso che devo battere rapidamente le palpebre per assicurarmi che
sì, in effetti pare proprio che non
sia
scomparso dalla faccia della terra, dopotutto. Indossa dei
pantaloncini
viola scuro, tagliati poco sopra alle ginocchia, e una maglietta a
righe bianca
e nera, con gli occhiali da sole appesi al collo. Semplice. Ma carino.
Ha dei
bei vestiti. Ma non mi pare proprio che lui
abbia un bell’aspetto.
Stanco,
esausto, si mantiene sveglio solo grazie alla caffeina, direi. Capisco
benissimo come ci si sente.
Attraversa
rapidamente il prato per salutare Levi a bordo piscina (non alza lo
sguardo
nella mia direzione, quindi credo non mi abbia visto appollaiato qui).
Levi si
raddrizza con un’espressione che probabilmente potrebbe far
inacidire il latte
o qualcosa del genere, come se parlare al suo collega fosse il compito
più
difficile del mondo. (Bastardo.)
Stanno
parlando. Non so di cosa, perché le loro voci sono basse e
non riesco a
sentirle. Non sto ascoltando, comunque, perché sono
impegnato a fissare Marco
come un fottuto maniaco. La sigaretta mi brucia le dita e mi fa
sussultare,
mentre scaglio via l’estremità ardente imprecando
a bassa voce in tono
sorpreso: cazzo!
Marco
deve
aver chiesto di me a Levi. È solo una mia ipotesi,
perché quel tappo mi sta
indicando direttamente con un dito. Resto immobile.
L’espressione
di Marco si distende quasi all’istante, e riesco a vederlo
mentre prova a nascondere
un sorriso, senza riuscirci troppo
bene. Il labbro inferiore gli trema inevitabilmente. Levi gli dice
qualcos’altro,
probabilmente qualche commento da sapientone di cui nessuno ha bisogno,
per poi
iniziare a mettere a posto i suoi strumenti. Marco muove qualche passo
lungo e
deciso nel prato, finché non si trova in piedi praticamente
sotto di me, con la
testa rivolta verso l’alto.
“Ciao,”
mi saluta,
quasi timidamente. Non dice nient’altro. Mi aspetto quasi che
inizi a recitare
qualcosa del tipo Raperonzolo,
Raperonzolo, sciogli i tuoi capelli. Perché, a
dire il vero, questa scena
lo ricorda molto.
“…
Ehi,”
rispondo lentamente. “Perché sei qui?”
Merda,
non
volevo dirlo così. Adesso sembro un perfetto
pezzo di merda (non che prima pensassi di non esserlo, certo che no.
È che
preferisco che la mia stronzaggine rimanga nascosta,
o perlomeno quando parlo con Marco. Deve ancora scoprire quanto posso
essere coglione.).
Mi
sento un egoista.
Perché voglio sapere dov’è stato,
voglio sapere perché non mi ha risposto ad
alcun messaggio, perché mi ha dato buca quando aveva promesso che ci sarebbe stato,
perché è qui adesso,
nonostante si veda chiaramene che c’è qualcosa che
non va. Sembra terribilmente
esausto,
cazzo. Mi spaventa l’idea di un Marco distrutto, debole, in
lacrime. Marco
dovrebbe essere quello forte in quest’amicizia. Mentre io mi
sento come un moccioso del cazzo.
La sua espressione è
così stanca e le lentiggini si stagliano sulle sue guance
come se fossero dei
pois; sembra molto più pallido del solito.
Ho
visto
tutto questo sul suo viso prima d’ora. Credo di sapere cosa
significa.
Marco
guarda
il giardino che lo circonda, prima di rivolgersi nuovamente a me.
“Come
si
sale lassù?”
C-cosa?
Non
aspetta
una risposta, perché sta guardando espressamente il capanno
della piscina,
valutando un modo per salirci sopra, per poi usare il tubo di scolo per
salire
sul tetto.
I-idiota!
A
quanto
pare, Levi capisce le sue intenzioni altrettanto bene, nonostante lo
credessi
troppo disinteressato per seguire le vicende della nostra imbarazzante
rimpatriata.
“Non
sarò io
a chiamare il 911 quando cadrai e ti ucciderai, Bodt,” sbotta
bruscamente,
mentre Marco si toglie le scarpe e si arrampica sul tetto del capanno
della
piscina. Vedo i muscoli delle sue braccia tremare.
Marco
porta
un piede sul supporto del tubo di scarico imbullonato su un fianco
della casa,
per poi arrampicarsi goffamente, fino a stringere entrambe le mani
sull’orlo
del tetto, per poi sollevare le gambe e mettersi in salvo. Non avrebbe
dovuto
funzionare così bene ma, ehi, stiamo parlando di Marco. Cosa vi aspettate. Lui
può fare tutto.
Arranca
sul
tetto, con le braccia aperte per cercare di mantenere
l’equilibrio, e riesce
persino ad attraversare la forma a L della casa, finché non
si trova in piedi (seppur
traballante) a pochi metri da me. Lo guardo da capo a piedi e sollevo
un
sopracciglio, afferrando automaticamente una sigaretta da sotto una
gamba e
facendola scivolare tra i denti.
“Sai,”
mormoro. “Se le pessime idee fossero uno sport olimpico,
avresti appena vinto
la medaglia d’oro.”
Alza
gli
occhi al cielo e, maledizione, vedo l’accenno di un sorriso
e, cazzo, sento di nuovo quella
strana sensazione
dentro di me.
“Hai
intenzione di sederti?” domando. “O devo cacciarti
da questo tetto a calci?”
Mi
sposto
leggermente dalla mia comoda posizione e do dei colpetti sullo spazio
accanto a
me. A quanto pare quell’idiota stava aspettando il mio
permesso per
avvicinarsi. (Ma, quando lo ottiene, non esita ad attraversare le
ultime tegole
per cadere di peso al mio fianco.)
Quando
la
sua spalla sfiora la mia, è come se mi desse la scossa.
Spero che non mi senta
rabbrividire.
“Pensavo
che
stessi cercando di smettere,” mi dice sommessamente,
indicando la sigaretta
sospesa fra le mie labbra. La rigiro tra i denti con aria riluttante,
ma mi
sorprende quando si avvicina, la rimuove dalla mia bocca con quelle
dita stupidamente vicine, e la
spegne sulle
tegole. La brace sibila, affievolendosi fino a spegnersi, un
po’ come la mia
sanità mentale, perché santo
cielo,
quanto eravamo vicini, è
così
imbarazzante, e sappiamo tutti come reagisco alle situazioni
imbarazzanti.
“Oi,”
borbotto, “Ci sto provando.” Marco getta il
mozzicone nella grondaia, per poi
strofinare le dita sui pantaloncini.
“A
chi vuoi
darla a bere, Jean.” Non c’è poi tanto umorismo
nel suo tono di voce, per una volta. La cosa mi snerva, e sento una
specie di
brivido freddo arrampicarsi su per le mie braccia.
Levi
lascia
finalmente il cortile, ma rimaniamo semplicemente in silenzio, mentre
Marco si
porta le ginocchia al petto e vi posa sopra le braccia. Non mi guarda,
intento
com’è a fissare il mare di tegole di ardesia tutte
uguali, e le punte dei
grattacieli in lontananza. Le sue sopracciglia sono sollevate al
centro,
dandogli uno sguardo piuttosto preoccupato.
“Quindi,
uh…
hai, uh, hai passato un buon compleanno?” Continua
così, Jean, evita il fulcro
della situazione come la pesta. Tanto valeva chiedergli direttamente
com’è il
tempo. Fanculo.
Lascia
andare un leggero sospiro che mi causa una dolorosa fitta nel petto.
Appoggia
la testa sulle braccia, girata da un lato, così da potermi
guardare.
“Scusami,”
mi dice in tono sommesso. “Li ho visti, i messaggi. Avrei
dovuto rispondere.”
“…
Tranquillo, non fa niente.” A parte il
fatto che sono stato uno straccio di merda per gli ultimi quattro
giorni e
mezzo. Ma non c’è bisogno che lui lo sappia. Sono
certo che i miei messaggi
sembrassero già abbastanza disperati.
“Volevo
rispondere, ma…” la sua voce si affievolisce e
deglutisce udibilmente. Vedo il
suo pomo d’Adamo viaggiare lungo la sua gola.
“C-cioè, ho provato a scrivere
qualche messaggio, ma… è solo che… non
ce l’ho fatta. Mi dispiace.”
“Vuoi,
uh,
dirmelo adesso?” indago, con una risata secca e priva di
divertimento. “Dove
sei scomparso eccetera?”
“No,”
risponde, ma poi sembra ripensarci. “No,
cioè… sì, ma… non posso.
Non penso di…
volerne parlare, non ancora. Scusami. Possiamo… pensi che
potremmo
semplicemente rimanere seduti così per un po’,
magari?”
“…
Certo.
Certo che possiamo.” Temo che il mio metodo vecchio stile di
urlare i problemi
al vento come un matto non sia appropriato questa volta.
Torna
il
silenzio, denso e pesante. Cazzo, vorrei una sigaretta. Marco gira
nuovamente
il viso per affondare il naso fra le mani e, Cristo santo, sembra che
stia soffrendo
così tanto, e non so neanche perché,
cazzo.
Se
la
situazione fosse ribaltata, se ci fossi io al suo posto, senza dubbio
lui non
accetterebbe un no come risposta. Riuscirebbe a tirarmi fuori delle
informazioni, per quanto sia difficile come cercare di tirar fuori del
sangue
da una roccia. Ma lui ci sa fare con le parole. Sa come far sentire
meglio le
persone con un semplice sorriso… o forse funziona solo con
me.
Sono
bravo
solo ad avere dibattiti mentali con me stesso, e ultimamente non riesco
mai ad
agire. Mi sento così perso, cazzo.
Deve
avere
qualcosa a che fare con quella volta a casa di Bert e Reiner. Per
forza. Non
che questa conclusione mi aiuti minimamente a capire che cazzo devo
fare oltre
a stare seduto affianco a lui come un cazzo di idiota incapace. Come
faccio a
fargli dire cosa sta pensando?
Decido
di
provare con la domanda che si è insidiata da qualche parte
nella mia testa da
quando ho sorpreso Bert e Marco in cucina quella volta, intenti a
parlare e a leggere
attentamente delle documentazioni mediche.
“Ehi,
Marco,
posso farti una domanda?”
Risponde
con
un mormorio vago, ma non si muove.
“…
Sei
malato?”
“No,”
ecco
la sua risposta, e il suo tono è calmo. Mi ritrovo a tirare
un sospiro di
sollievo.
“B-bene.
Sai, stavo iniziando a preoccuparmi. Da quella volta a casa di Bert.
Pensavo,
be’, hai capito cosa pensavo. Sono contento che non sia
così. Non so cosa farei
se…ecco. Hai capito.” Sento che la stranezza di
questa situazione sta iniziando
a tirarsi dietro una valanga di parole che non vorrei pronunciare, e
sto
iniziando a straparlare. Non ho mai detto di essere bravo a far sentire
meglio
la gente con la mia scelta di parole.
Il
fatto che
lui sia triste… non è affatto giusto.
È una cosa innaturale, un crimine nei
confronti dell’umanità, non so, qualcosa.
Un qualcosa che non mi piace per niente. Come faccio a renderlo di
nuovo
felice? Come faccio a fargli fare quel sorriso-da-Marco, e farlo ridere
delle
mie foto appese nel corridoio, e farlo tornare a picchiarmi senza
pietà con i
cuscini.
Mi
sento
come se volessi dirgli che non si merita
di sentirsi così triste, perché io lo conosco, e so che è la persona
più gentile che io abbia mai conosciuto, e so
che potrebbe ascoltarmi tutto il
giorno mentre mi lamento senza battere ciglio, so
che mi fiderei di lui per qualsiasi cosa, perché
è quel tipo di
persona di cui ci si può fidare sempre. Vorrei dirgli che
è stupidamente
perfetto, per quelle rughette di espressione che gli incorniciano gli
occhi
quando sorride, per il modo in cui il suo volto si illumina quando
parla di sua
sorella, o per
quella costellazione di
lentiggini che mia nonna chiamerebbe baisers
des anges, e avrebbe dannatamente
ragione, cazzo.
Vorrei
dirgli che non mi sono pentito neanche per un istante di aver
approfondito così
tanto il nostro rapporto. E io di solito non vado nel profondo. Sono
Jean
Kirschtein. Ho paura dell’acqua,
cazzo. La profondità è un incubo, per me.
Con
una
risatina terribilmente inappropriata, esprimo una parte di tutti quei
pensieri
in un sospiro.
“Tutto
questo è ridicolo. Siamo troppo giovani
per essere così tristi, cazzo.”
Alza
lo
sguardo a quell’affermazione.
“Sei
triste?”
mi chiede. Fantastico. Non volevo rigirare di
nuovo la situazione su di me.
Cazzo.
Sono un amico patetico.
“No.
Sì. Non
importa,” gli dico rapidamente, passandomi una mano fra i
capelli più e più
volte, nervosamente. Davvero non
importa. Sono praticamente sempre triste. Non è una
novità. A parte una cosa. “Tu
sei triste, e quindi lo sono anch’io. Se non è,
ecco, una… cosa strana… da dire?”
“Tu
sei pazzo, ecco cosa
sei,” sospira lui.
Districa una mano dalle sue ginocchia, e afferra il polso della mano
che sto
passando sporadicamente tra i capelli. Sento il fuoco nelle mie vene
quando
intreccia le nostre dita e posiziona i nostri palmi uniti sulla
porzione di
tetto che ci separa.
Perché…?
“Scusa,”
dice, indicando le nostre mani con un cenno del capo. “Non
volevo metterti a
disagio.” Ovviamente la mia espressione è
impagabile, ma non lascia la presa.
Anzi, sembra rafforzarla.
“Sono…
sono
stati solo dei giorni difficili, eh?” gli dico, utilizzando
le stesse parole
che mi disse lui tempo fa. Il sorriso di Marco è triste, ma
colmo di
gratitudine. Mi stringe di nuovo la mano. Per una volta, non
c’è alcuna traccia
di rossore imbarazzato sulle sue guance… mi dà
l’impressione che sia
determinato, forte. È forte.
Stare
seduto
sul tetto, mano nella mano con il tuo migliore amico, probabilmente
è più che
lontano dalla concezione di eterosessualità. Ma per Marco
farò un’eccezione. Ho
notato che per Marco farei sempre un’eccezione.
“Come
posso
fare… a farti sentire meglio, Marco?” mi azzardo a
chiedere, dando voce ai
pensieri che ho in testa. Non posso farcela da solo. Devi
dirmelo tu. Sono inutile.
“Devi
solo…
essere te stesso,” risponde quasi in un sospiro. La sua voce
è molto ansimante.
“Sii te stesso e basta, Jean.”
Devo
solo essere me stesso? E perché mai vorrebbe una cosa simile?
Rimaniamo
seduti così per un po’, perché
è quello che vuole. Le mie chiappe si stanno
addormentando, e il mio palmo è diventato sicuramente
schifosissimo e sudato,
ma provo a resistere. Devo. Essere.
Forte.
Dopo
un po’
inizia a giocare con le mie dita, piegandole e distendendole con
curiosità,
dopo aver lasciato il mio palmo. È come un bambino. (Un
bravo bambino, non un
bimbo capriccioso e bisognoso di attenzioni come me.) Mi fa formicolare
tutto
il braccio.
“Sai
una
cosa?” gli dico. Alza lo sguardo su di me con
un’aria d’attesa, e mi sento
sollevato nel vedere un po’ più del solito Marco
riaffiorare nella sua
espressione. “Ho ancora il tuo regalo nella mia stanza. Vado
a prenderlo?”
“Te
l’ho
detto, non dovevi—”
“Ti
butto giù da questo cazzo
di tetto se
dici un’altra parola. Volevo
farti un
regalo, okay?”
Striscio
il
sedere in maniera decisamente poco elegante sul tetto, e riesco a
sentire lo
sguardo preoccupato di Marco sulla mia schiena mentre mi avvicino
pericolosamente al bordo del timpano, che prelude una caduta di sei
metri e
rotti nel patio. Quella
sì che
sarebbe una brutta fine dopo tutto questo. Riesco a stento a
intrufolarmi nella
finestra aperta della mia stanza senza mandare all’aria le
tegole del tetto, ma
riesco più che bene a sbattere le dita dei piedi su una pila
di libri fuori
posto, lasciandomi scappare una serie di imprecazioni ad alta voce.
“Cazzo,
merda, cazzo, fanculo!” Addio, dita. È stato bello
conoscervi. Cazzo. Zoppico in giro
per la mia stanza
e afferro il CD di Marco dalla pila di robaccia sulla mia scrivania, e
un
brivido pervade i miei arti mentre le mie dita si stringono sulla
plastica
trasparente.
Devo
tenerlo
fra i denti (o così, oppure nei pantaloni, e credo che
quello vorrebbe dire
spingersi decisamente troppo in
là),
poiché mi servono entrambe le mani per arrampicarmi
nuovamente sul tetto. Marco
sta guardando il pacchetto di sigarette che ho lasciato la mio posto,
leggendo
attentamente l’etichetta. Temevo che avesse intenzione di
gettarle nella
piscina prima del mio ritorno.
“Hurghumph,”
borbotto intorno alla custodia di plastica. Pianto nuovamente le
chiappe sul
tetto, pulisco la saliva sul lato del CD con la maglietta e poi glielo
passo,
sentendomi improvvisamente piuttosto impacciato. “Ecco
qui.”
Lo
gira e
rigira più volte fra le mani, ammirando la mia collezione di
scarabocchi (la
maggior parte ha le lentiggini), e il sorriso che compare sul suo volto
non lascia
trapelare neanche un briciolo di tristezza.
“È
un
mixtape,” spiego, grattandomi la nuca con aria imbarazzata,
quando mi sembra
stia per chiedermi cosa sia. “Be’, non è
propriamente una cassetta, ma… sì,
ecco, l’ho riempito con un po’ di buona musica che
pensavo potesse piacerti.
Guarda.” Apre la custodia per rivelare il CD vero e proprio,
dove ho scritto la
lista dei brani con la mia grafia molto piccola e disordinata.
“Dobbiamo
ascoltarlo insieme,” mi dice in tono tranquillo accompagnato
da un sorriso
dolce, e ugh, Marco, mi stai uccidendo
così. Deve far sparire quella faccia idiota appena
possibile, perché se
continua così mi verrà un cazzo di infarto.
“Grazie, Jean.”
Spero
con
tutto me stesso che quelle parole risuonino più profonde di
un comune
ringraziamento per un regalo di compleanno. Sollevo una mano per
posarla sulla
sua spalla.
“Non
c’è di che.”
“Allora
ci
vediamo mercoledì, no? Per davvero, questa volta?”
“Sì.
Davvero.”
Vorrei
fargli notare che ho finito il college per quest’anno, quindi
non dobbiamo
limitarci a mercoledì e sabato. E che, ecco, non vorrei che
la nostra amicizia
fosse una cosa limitata a due incontri settimanali prefissati.
Tuttavia,
per adesso Marco sembra soddisfatto con la promessa di
mercoledì, quindi non
insisto.
Lo
accompagno fino al suo furgone (Non ci tengo a specificare come siamo
scesi dal
tetto, perché è un’esperienza che non
gli augurerei mai e poi mai di
ripetere, credetemi), trascinando i piedi mentre
cammino. Vorrei che rimanesse di più, ma immagino che
qualsiasi cosa sia
successa negli ultimi giorni non possa scomparire nel giro di un
pomeriggio.
Sono certo che abbia qualcosa da fare o, perlomeno, qualcosa su cui
rimuginare.
Vorrei soltanto poter stare ancora un po’ al suo fianco.
“Allora,
uh…
hai il mio numero…” balbetto.
“Sai
che ce
l’ho.”
“E,
ecco…
sai che puoi c-chiamarmi per qualsiasi cosa, sai, se ti va di parlare.
Di
quello che vuoi.”
Muove
un
passo verso di me e mi abbraccia, proprio lì, sul
marciapiede. Dev’essere come
abbracciare un’asse di legno, visto quanto sono cooperativo.
Avvolge entrambe
le braccia attorno alle mie spalle e mi avvicina al suo petto. Anche
lui è ben
saldo, ma in senso buono.
Ba-dump.
Emette
una
risatina vicino al mio orecchio, ed è una
sensazione così strana. Non so dove devo guardare;
cioè, non è esattamente
un abbraccio virile se affondi la faccia nella spalla
dell’altra persona,
giusto? Quindi opto per fissare con aria impacciata le gomme da
masticare
attaccate al marciapiede. Ce ne sono solo tre.
“Grazie,
Jean,” mi dice sottovoce; e io mi chiedo perché?
Non ho fatto niente, a parte stare seduto con aria imbarazzata sul
tetto,
desiderando ardentemente una sigaretta. Non gli ho offerto nessuna
parola per
consolarlo, nessun consiglio, oppure…
Tuttavia,
forse, e dico forse – e
sto parlando
solo per esperienza personale – anche solo vedere la faccia
di una persona può
fare la differenza. Forse è la mia faccia. Mi ritrovo a
sperare vivamente che
sia la mia faccia a fare la differenza.
Adesso
tutto
quanto profuma di detersivo alla camomilla; non
c’è nemmeno un accenno di
cloro. Non dimenticherò facilmente questo momento.
Decido
di
abbracciare il momento (il gioco di parole è voluto). Lo
stringo leggermente,
in un gesto rassicurante, prima che lui sciolga l’abbraccio.
I suoi occhi si
socchiudono fino a diventare due mezzelune e, cazzo, se potessi assorbire quel sorriso, lo farei.
Credo
che,
se provassi a chiedergli di nuovo cosa gli sta succedendo, rovinerei il
momento. È un pensiero egoista da parte mia? Probabilmente
sì. Sono un bastardo
egoista.
Ma
io mi
fido di lui, me lo dirà quando si sentirà pronto.
Note
dell’autrice:
Questo è stato il capitolo più lungo finora, ha
15.5k parole. Santo cielo.
Mi
scuso se
è un po’ malfatto… a volte non avere il
POV di Marco limita molto il racconto
della storia. Vi prometto che lo stile di scrittura
migliorerà
significativamente nei prossimi capitoli. I pensieri di Jean sono
difficili da
esprimere al momento, dato che stiamo muovendo i primi passi sul
confine tra
amici e forse-non-solo-amici. Per quanto riguarda la storia di Marco,
gli
indizi sono lì, ma rimarrà nascosta ancora per un
poco. E poi le cose si
faranno più serie.
La
prossima
volta tornerò a un po’ di fluff. (Con giusto un
pizzico di angst, perché sono pur
sempre io.) Ci sarà anche la prima parte della festa.
Sarà una cosa da pazzi.
Grazie
a
tutti i lettori – specialmente a quelli con cui parlo durante
la stesura, e
quelli che mi sopportano quando procrastino il lavoro! Sapete chi siete!
Per
favore
continuate a commentare, perché mi aiuta davvero a trovare
la motivazione per
continuare a scrivere. Adoro sentire i vostri pareri, quindi lasciatemi
commenti su quello che vi piace, che non vi piace, quello che sperate
che
succeda! Vi adoro tutti.