VII
-Branwen,
cos’è successo l’altro giorno? Siete corsa nella
vostra stanza e non mi avete nemmeno vista in corridoio- Olimpia e Branwen
erano nella stanza della padrona e si stavano confidando, come sempre. Olimpia
era preoccupata, mentre Branwen aveva lo sguardo sognante che vagava senza meta
per la stanza.
-Olimpia,
non sapete quanto io sia felice! Non lo ero così da tempo! I suoi occhi sono stupendi… mi ricordano le
castagne che amavo tanto da piccola… e i suoi capelli! Nemmeno l’oro è più
brillante della sua chioma! Viene da me tutte le notti, mi
raggiunge nei miei sogni! Non chiedo altro che arrivi
la notte per poterci incontrare nel nostro bellissimo mondo!- adesso
Olimpia era davvero spaventata dal comportamento della sua amica. Come poteva
comportarsi così? Si era dimenticata di essere sposata? E
con il dio più potente di tutti per giunta?
-ma Branwen! Siete sposata! Se lo sapesse vostro marito… non oso immaginare cosa vi
farebbe!
-e cosa potrebbe farmi di peggio se non quello che mi fa
ogni giorno? Non mi considera, non mi ama… l’unica
cosa peggiore sarebbe separarmi da Sitchain!
-dunque è così che si chiama. Non credete che se
vostro marito lo sapesse farebbe del male anche a lui?
-no!
Non glielo permetterei! Non lo farei nemmeno avvicinare a lui!
Lo sguardo della dea
adesso era deciso e fermo; convinto che avrebbe mantenuto i suoi propositi.
-ma Branwen avete forse perso la ragione?!
-ho
perso il cuore, amica mia!
A questo punto Olimpia
non sapeva più cosa fare, Branwen era completamente persa nel suo mondo fatato
e non voleva più sentire ragioni. La serva continuò per un po’ ad accarezzarle
i morbidi capelli e la dea si addormentò serena, raggiungendo il suo Sitchain
nel loro mondo. Olimpia emise un lungo sospiro di angoscia.
Doveva fare in modo che Balor non lo venisse mai a sapere o sarebbero stati
guai per la sua amica e per il suo bel giovane.
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Macha
e suo padre si stavano recando sulle sponde del fiume che
dovevano attraversare per trasportare le anime nella loro ultima destinazione.
Arrivarono ad un pontile in legno, con attraccata una
barchetta anch’essa in legno. Balor ci salì sopra senza nessuna
esitazione e invitò la figlia a fare altrettanto; Macha un po’
spaventata salì sulla barca, con non poca esitazione. La ragazza aveva al collo
il ciondolo di cristallo che racchiudeva in sé l’anima di Kona.
-liberala
-ma
non se ne andrebbe?
-no,
non può
Macha liberò l’anima
dal cristallo e una luce si sprigionò da esso,
accecando per un attimo sia Macha che Balor. Un attimo dopo una figura bianca e
spettrale svolazzava davanti ai loro occhi, per poi posarsi lentamente sul
bordo della barca. La ragazza, ancora spaventata, non capiva come mai Kona non
scappasse, ma non osava chiederne il motivo al padre. Balor iniziò a remare con
una specie di remo improvvisato che si trovava sulla barca e Macha non riusciva
a staccare gli occhi di dosso a quella figura spettrale; mentre la fissava le
tornarono in mente i sofferenti occhi viola del figlio e provò una fitta
dolorosa al petto. Appena riuscì a distogliere gli occhi dalla figura di Kona,
Macha vide che l’acqua in cui navigavano aveva uno strano
colore: aveva delle strane sfumature bianche, dello stesso colore di Kona.
Macha osservò meglio l’acqua sporgendosi leggermente sul bordo della barchetta
e scoprì inorridita che il fiume era pieno di anime,
candide figure evanescenti come fumo. Spaventata a morte si ritrasse
velocemente dal bordo della barca, provocando una pericolosa oscillazione che
quasi la fece ribaltare.
-attenta
a quello che fai! Se finissimo in quest’acqua non ne
usciremmo vivi!
Macha sgranò gli
occhi, terrorizzata da quella notizia. Proseguirono il viaggio in completo
silenzio e la ragazza cercava in tutti i modi di non fare caso alle figure
bianche che ogni tanto provavano a salire sulla barca per tornare nel mondo dei
vivi. Mano a mano che si avvicinavano alla loro
destinazione, l’aria prendeva uno sgradevole odore di morte e il fiume sotto di
loro si riempiva sempre di più di anime che assaltavano l’instabile barca, ma
Balor non sembrava curarsene più di tanto. Finalmente il viaggio giunse a
termine, dopo un tempo che a Macha era sembrato infinito. Videro un altro
pontile di legno, molto simile a quello da cui erano partiti, e Balor vi
attraccò la barca. Il dio scese dalla barca e Kona, o meglio l’anima di Kona,
lo seguì; Macha si alzò in piedi sulla barca e quasi svenne per la nausea.
Subito Balor la sostenne prima che cadesse nell’acqua del fiume, lasciandoci
così la vita.
-già
nauseata per così poco?! Avanti rialzati
La ragazza stava
veramente male, ma il padre non ne voleva sapere di farla tornare a casa senza
che avesse svolto il suo compito. Doveva resistere. Lui l’accompagnò,
sorreggendola per la sua vita sottile, fin fuori dalla
barca e poi la lasciò, ancora traballante e in equilibrio precario, indicandole
la strada che avrebbe dovuto seguire.
-mi
raccomando, non entrare nella grotta che trovi alla fine della strada che ti ho
indicato. Solo le anime ci possono entrare e tu, sebbene tu sia molto pallida
in questo momento, non sei una di loro
-certo
padre- la voce della povera dea era un lieve sussurro e il suo viso era
effettivamente pallido quasi quanto quello della figura di Kona. Il dio della
morte incrociò le braccia e guardò la figlia incamminarsi lungo il corso del
fiume, con l’anima della donna che svolazzava al suo fianco. Camminava
lentamente, come se avesse paura di calpestare l’erba dal colorito spento,
forse troppo abituata a stare al contatto con la morte per essere più viva di
così, e intanto nel suo cuore aumentavano i sensi di colpa per l’anima di Kona,
per i suoi figli e il marito e per tutte le altre anime che si trovavano in un
posto del genere. Sensi di colpa sottili, ma ben evidenti e inquietanti,
un po’ come le figure che la guardavano camminare lungo il corso del fiume.
Arrivò finalmente alla famosa grotta e fece segno a Kona di entrarci; quella le
ubbidì subito, ma a Macha sembrò che per un attimo la donna l’avesse guardata
con uno sguardo carico di preoccupazione, implorandole di non mandarla là
dentro. Ma forse era solo stata tutta una sua
impressione, dettata dalla soggezione che le metteva trovarsi in quel luogo.
Quel posto era davvero spettrale e terrificante; una nebbiolina grigia
aleggiava nell’aria, che adesso puzzava ancora di più di morte e rendeva il
paesaggio macabro e degno di un giardino stregato. Non si sentiva nessun suono o
rumore al di fuori di quello continuo dell’acqua che
scorreva nel letto del fiume e accresceva il suo frastuono quando entrava nella
grotta, che fungeva da amplificatore. Guardò entrare Kona nella caverna scura,
illuminata solo dalla luce che emettevano le anime stesse
che continuavano ad entrare ed uscire da essa attraverso il fiume, ma che in
realtà non potevano andare da nessuna parte, e poi tornò il più veloce
possibile dal padre e insieme fecero il viaggio al contrario per tornare a
palazzo, mentre Macha cercava di dimenticare tutto quello che aveva appena
visto, sentito e provato, anche se sapeva benissimo che non le sarebbe stato
possibile. Avrebbe dovuto svolgere quel compito a lei così difficile chissà
quante altre volte, ma senza la presenza quasi confortante del padre. In fondo
se non ci fosse stato lui, la dea sarebbe sicuramente svenuta e caduta in
acqua.
Appena
misero piede a terra Branwen corse loro incontro e
abbracciò la figlia, che a momenti sveniva di nuovo; la madre la sostenne per
le spalle e la riportò in casa, nella sua grande camera, dove c’era già Olimpia
pronta a curarla dalla nausea. Tutto senza nemmeno degnare di
uno sguardo suo marito, che intanto stava assicurando la barca al pontile,
profondamente soddisfatto di ciò che aveva fatto fare alla figlia.
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Poco
più tardi, appena Olimpia era riuscita a far
addormentare un po’ più serena la povera Macha sconvolta, Branwen corse nella
stanza del marito come una furia.
-basta!
Questa storia deve finire! Non mi importano le vostre
ragioni o motivazioni varie, ma non farete mai più una cosa del genere a mia
figlia!
La dea era a dir poco
furiosa, rossa in viso, con gli occhi ridotti a due fessure che scrutavano
crudelmente il consorte, i capelli scarmigliati per la corsa e i pugni stretti
che le avevano fatto sbiancare le delicate nocche.
Avrebbe volentieri ucciso il marito.
-calmatevi,
mia signora. Non è il caso di scaldarsi tanto
-sì
che è il caso! Avete visto come avete ridotto vostra figlia?! Farle traghettare
le anime?! Non bastava già quello che doveva fare prima per colpa vostra?!
-ho
il diritto di fare quello che voglio con le mie figlie! E
voi non potete darmi ordini!
-vi
ricordo che sono anche le mie figlie e che ho il diritto di prendere anche io
delle decisioni! Sono vostra moglie non la vostra serva!
Pronunciate queste
ultime parole con astio e odio, Branwen uscì di corsa come era
entrata, per recarsi nel suo amato giardino ancora innevato.
Si
appoggiò al bordo della fontanella e osservò il suo riflesso nell’acqua
ghiacciata e fu non tanto sorpresa, ma felice di vedere comparire al suo fianco quello del bel Sitchain. Senza riflettere nemmeno un
secondo la dea si voltò e di slancio si gettò tra le sue braccia forti. Il
ragazzo la strinse a sé, senza volerla più lasciare e tuffò il viso in quella
morbida massa di capelli rossi. Non c’era bisogno di nessuna parola o
spiegazione tra di loro, bastava stare così e non
muoversi, tanto nessuno li avrebbe mai visti, in quell’angolo di giardino che
sembrava fatto apposta per loro.
-cos’è
successo?
La sua voce era una
dolce melodia che arrivava diretta al cuore di Branwen.
-Balor…
tratta male la povera Macha, eppure è sua figlia! Dovrebbe volere il suo bene
non la sua sofferenza!
La dea stava piangendo a dirotto, bagnando con le sue lacrime l’incavo tra il collo e la spalla di Sitchain, che intanto annusava l’odore dei suoi capelli e le accarezzava la schiena per confortarla. Il ragazzo si staccò dolcemente da lei e la salutò con un lieve bacio sulle labbra morbide, prima di allontanarsi da lei per tornare al suo faticoso lavoro. Branwen, ancora sognante, lo guardò andare via e poi si diresse lentamente verso il palazzo e vi entrò, tutta infreddolita e tremante, sia per il freddo che per l’emozione provocatagli da quel bacio.