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Autore: Calliope49    18/07/2015    2 recensioni
*COMPLETA*
«Avete anche un nome, monsieur?»
«D’Artagnan».
Lei strinse appena le labbra. «Ah, siete quel d’Artagnan».
«Prego?»
«D’Artagnan, Athos, Porthos e Aramis. Treville vi nomina spesso - quando parla dei rischi per la sua salute, ad esempio».

Una calma insolita è piovuta su Parigi, ma la situazione non è destinata a durare. Strani incidenti, un omicidio e la comparsa di un misterioso bandito daranno filo da torcere agli uomini del re. Nel mezzo, una ragazza e troppe cose che non sono quello che sembrano…
[AthosXNuovoPersonaggio; Accenni Constagnan e Annamis]
[N.B. La storia non tiene conto degli sviluppi della seconda stagione perché è stata ideata prima che ne cominciassero gli episodi]
Genere: Avventura, Azione, Sentimentale | Stato: completa
Tipo di coppia: Het | Personaggi: Athos, Captain Treville, Nuovo personaggio
Note: What if? | Avvertimenti: nessuno
Capitoli:
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- Questa storia fa parte della serie 'On the side of the angels '
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XXIV
Bagagli troppo pesanti
 
 
Era l’alba, un’alba pallida che mangiava le ombre a poco a poco.
La luce plumbea filtrava dalla finestra dell’ufficio di Treville.
Diane si stiracchiò sulla sedia.
«E poi sarei io quello che non dorme mai» borbottò il capitano dei moschettieri.
La ragazza era stata sveglia tutta la notte, quasi tutte le notti dalla mattina del processo a Legrand, quattro giorni prima. Raggiungere l’obiettivo a cui si era dedicata per tanto tempo ora la faceva sentire svuotata.
Il re aveva decretato la pena di morte per il conte, per Jean-Pierre e per gli altri che erano stati trovati nell’ospedale. La fama di Legrand aveva reso più osceni i suoi crimini, senza possibilità di assoluzione. Al momento si trovava con i suoi complici alla Bastiglia ed era stato deciso che l’esecuzione non sarebbe stata pubblica, ma il cardinale aveva detto a Diane che poteva assistere, se lo desiderava. La ragazza aveva declinato l’invito, non voleva sapere nemmeno quale sarebbe stato il giorno dell’esecuzione.
Forse, mentre lei e suo zio erano lì a parlare, Legrand e i suoi cani da caccia stavano guardando negli occhi il plotone di esecuzione.
Treville aprì un mobiletto e ne estrasse una bottiglia di vino e dei bicchieri.
«Lo sai che ora è?» borbottò Diane.
«Essere il capitano dei moschettieri ti dà diritto a ogni genere di brutta abitudine».
L’uomo versò da bere per sé e per sua nipote. Lei assaggiò un sorso di vino, era ottimo.
«Era la bottiglia delle grandi occasioni?» domandò.
«Potremmo dire così»
«Cosa festeggiamo?»
«Festeggiamo te». Treville urtò il proprio bicchiere contro quello della ragazza. Lei fece un sorriso stanco. «Non sei felice?».
Diane bevve un altro sorso, lo trattenne sulla lingua per qualche secondo.
«Sono felice che sia finita. Solo che mi rendo conto, adesso, a mente lucida, di quanti errori abbia fatto e di quante cose potevano andare diversamente»
«Sei stata avventata, sì. Ma non lo siamo tutti quando teniamo a qualcosa?».
Diane picchiettò le unghie contro il vetro del bicchiere. Si chiese a cosa tenesse davvero, se cercava la risposta a quella domanda si rendeva conto di quanto era stata egoista.
«Hai preparato la tua roba?» chiese il capitano, dopo qualche istante di silenzio.
La ragazza annuì.
«Bene. Manderò qualcuno a darti una mano con i bagagli»
«Grazie. Monsieur Bonacieux era felicissimo quando ha capito che avrei sloggiato».
La luce che filtrava dalla finestra assunse un riverbero dorato, si fece più forte. Il giorno era arrivato, il domani che Diane aveva atteso, quello in cui sarebbe stata libera dai fantasmi, era giunto e l’aveva presa alle spalle.
Inginocchiata davanti a un baule, la sera prima, la ragazza si era ritrovata tra le mani la spada che aveva usato durante tutta quella tremenda avventura parigina, l’aveva estratta per metà dal fodero ed era rimasta a fissare i suoi stessi occhi riflessi sull’acciaio lucido. Aveva aspettato di sentire la voce di spettro di Sebastiano, ma aveva ottenuto solo il silenzio.
Treville ascoltò i rintocchi di un campanile lontano. «Rischierai di fare tardi al porto» disse a sua nipote.
«Oh, sarebbe davvero imperdonabile»
«Hai già salutato tutti?»
«Sì».
Il duca de Leorux aveva deciso di anticipare la partenza. Diceva di averne avuto abbastanza della Francia; Diane aveva il sospetto che volesse solo mettere più distanza possibile tra sé stesso e quello che aveva visto capitare negli  ultimi giorni.
Il duca non era mai andato troppo d’accordo con suo fratello, soprattutto dopo che questi aveva deciso di sposare la madre di Diane, ma la sera dopo il processo aveva alzato un po’ troppo il gomito e la nipote lo aveva trovato seduto sul sofà della sua camera al Louvre e quando aveva cercato di convincerlo a mettersi a letto lui le aveva afferrato la manica dell’abito e le aveva sciolinato un discorso strano sulla famiglia, sugli affetti, sulle libertà del cuore - così aveva detto. 
La ragazza mandò giù d’un fiato gli ultimi sorsi di vino.
«In realtà, ero passata per una cosa importante, oltre che per bere di prima mattina e fare la conta delle mie sventure» mormorò. Si frugò nella tasca e ne estrasse il foglio che le aveva dato Jean-Pierre il giorno del processo.  
«Uno di questi nomi dovrebbe essere l’assassino di Marie. Lo troverete?»
Treville infilò il foglio nel cassetto dello scrittoio. «Ci puoi scommettere».
Diane si alzò e sentì le gambe tremarle leggermente. Si disse che era solo il vino, o almeno era meglio pensarla così. Raccolse lo scialle che aveva appoggiato alla spalliera della sedia e vi si avvolse.
Quando Treville la accompagnò fuori, dal ballatoio la ragazza osservò il cortile vuoto della guarnigione, nel silenzio si sentiva appena il verso dei cavalli che se ne stavano placidi nelle stalle.
«Sembra un po’ il giorno in cui sono arrivata» disse.
«Ah, è perché hai visto la guarnigione così calma e silenziosa che hai pensato che potesse essere posto per te»
«C’era Athos lì al tavolo. Lucidava la spada e si allenava a fare il tipo torvo». Quanto tempo fa è stato?…
«Athos?».
La ragazza annuì. «Lui, sì».
«Devo chiedere?»
«Non c’è niente da dire».
Diane sentì la commozione afferrarle il petto con gli artigli. Si voltò per abbracciare Treville, gli posò la guancia sulla spalla.
«Ti voglio bene, zio» mormorò.
«Ho una reputazione da mantenere» rispose lui, sbuffando una risatina tra i capelli della ragazza, prima di ricambiare l’abbraccio.
Poi lei si staccò, si aggiustò meglio lo scialle sulle spalle e andò via.
Aveva i bagagli pronti, erano tutti bagagli molto pesanti.
 
***
 
Erano di ritorno da una breve missione fuori Parigi, solo lui e d’Artagnan, dovevano scortare in un convento la figlia di qualche gran signore che incominciava il suo noviziato. Un lavoro noioso, di quelli che lasciano troppo tempo ai pensieri e troppi pensieri necessitavano per forza di essere corroborati da un’appropriata dose di vino.
Non c’erano stati imprevisti, solo lunghe ore in sella sotto un cielo che cambiava umore di continuo senza mai sputare una vera goccia di pioggia. 
«Stai bene?» chiese d’Artagnan quando furono in vista della città.
All’orizzonte il tramonto scuriva il cielo.
«Perché non dovrei?».
Il giovane strabuzzò gli occhi e capì che era meglio tacere.
La risposta più semplice a quella domanda era che non stava né bene né male, stava da Athos. Niente che non si sarebbe risolto una volta messo piede in una locanda.
Parigi li accolse con il suo viavai serale. I primi fuochi brillavano nelle strade, dove le ultime luci della giornata lasciavano il posto alle ombre della sera umida.
Riportarono i cavalli alla guarnigione, le povere bestie erano più stanche di loro.
«Porthos e Aramis?» chiese d’Artagnan a Serge che attraversava il cortile con una pila di pentole sporche tra le mani.
«A fare cose loro» rispose l’uomo.
Athos batté la mano sul petto di d’Artagnan. «Ci raggiungeranno» disse. Del resto, sapevano sempre dove trovarsi.
Nella locanda c’era ancora poca gente, era presto per gli avventori serali e tardi per quelli pomeridiani.
Athos si lasciò cadere seduto al primo tavolo che trovò libero. Il vociare basso dei pochi clienti andò sbiadendo come un rumore sempre più distante.
«Che devo fare?» chiese d’Artagnan, in piedi. Tamburellò le mani sullo schienale della sedia e fissò l’amico. 
«Mh?»
«Date le circostanze, non riesco a capire se è una serata in cui vuoi stare in compagnia o no» 
«Quali circostante? Ah, no, sta’ zitto, non voglio saperlo. Siediti, se mi annoi mi sposto»
«Gentilissimo».
D’Artagnan intercettò l’oste che passava con dei boccali di vino e gliene strappò uno da mano.
«Si sa quando verrà giustiziato il conte?» chiese il ragazzo, guardando il fondo del bicchiere appena vuotato.
«Lo hanno già giustiziato. Me lo ha detto Treville. Non se n’è parlato perché Diane non voleva saperlo»
«Quindi è finita?»
«Era già finita»
«Quindi ci hai parlato, con Diane?»
«No, non l’ho vista in questi giorni»
«Constance è impazzita. Io ci ho parlato… con Constance, intendo»
«Lo credo bene. Ci eravamo proposti di non coinvolgerla più nei nostri disastri»
«No, è impazzita perché si è messa in testa di regalare a Diane il corredo da sposa, solo che non era sicura di cosa potesse andare bene per la moda italiana»
«Con tutto il rispetto per le vicissitudini tessili di Constance, riesci a tenere la bocca chiusa per almeno cinque minuti?». Athos vuotò bruscamente la caraffa nel proprio bicchiere e fece cenno all’oste di portargliene un’altra.
D’Artagnan si tirò indietro per appoggiarsi con le spalle allo schienale tarlato della sedia. Nella penombra della locanda, Athos notò un accenno di sorrisetto da satiro sul suo viso ma non ci badò.
Per lunghi minuti a seguire il ragazzo rimase meravigliosamente zitto e lui poté dedicarsi all’ubriacatura giornaliera in santa pace. O almeno era quello che intendeva fare.
Il sorso di vino che mandò giù, il primo del quarto bicchiere, gli sembrò particolarmente acido e gli bruciò la gola. Appoggiò il boccale sul tavolo con una smorfia.
Con il viso mezzo nascosto dall’ombra di una colonna, d’Artagnan seguitava con il suo silenzio e Athos pensò che ora avrebbe preferito sentirlo parlare, perché i pensieri si erano fatti più insistenti del vino ed erano pensieri che non voleva avere.
Quando sentì la voce di Porthos alle sue spalle, pensò di essere salvo.
«Se Treville mi fa passare un’altra giornata come questa giuro che diserto»
«Non dirlo a me».
Porthos e Aramis si trascinarono con passo stanco fino al tavolo e si misero a sedere, cadendo con malagrazia sulle sedie vuote.
«Che avete fatto? Sembrate distrutti» chiese d’Artagnan.
«Distrutti e affamati» disse Porthos.
Athos trovò che farsi raccontare la giornata dai suoi compagni fosse un’ottima idea.
«E tu? Non bevi?» gli chiese Aramis.
«Vi stavo ascoltando. Che avete combinato?»
«Abbiamo fatto i facchini, ti rendi conto?» sbuffò Porthos, togliendosi in un sol colpo cappello e bandana e passandosi una mano tra il groviglio di capelli scuri.
«Cioè, per Diane questo ed altro, però quella ragazza aveva davvero troppi bagagli» aggiunse Aramis, stiracchiando la schiena.
«Diane?». Athos cercò di dissimulare l’interesse per la domanda versando altro vino e finendo per spargere un po’ di quell’orribile Borgogna sul tavolo.
«Sì. Il duca ha anticipato la partenza»
«Abbiamo caricato su un carro non so quanti bauli di roba»
«Constance è adorabile, ma ha davvero esagerato con il corredo nuziale»
«Le ha regalato una coperta di lana che pesa più di me!» borbottò Porthos.
Athos annuì tentando di mostrare un’appropriata dose di partecipazione per le sciagure dei compagni.
«Aspettate, ma quando parte?» chiese d’Artagnan, d’un tratto.
«Domani, se non sbaglio» disse Aramis distrattamente, cercando con lo sguardo qualche cameriere a cui chiedere qualcosa da mangiare.
«Ma… e non verrà a salutarci?» insistette il ragazzo.
Athos si rigirò tra le mani il calice di vino. Avrebbe fatto meglio a sedersi da solo, tutte quelle chiacchiere lo stavano indisponendo e ogni volta che faceva per portarsi alla labbra il bicchiere veniva distratto.
«Se il duca le lascerà il tempo» disse Porthos. «Non penso ci abbia molto apprezzato come compagnia per la nipote»
«E neppure il damerino, Corsetto, o come si chiama» concluse Aramis.
«Corsini»
«Come dici, Athos?»
«Corsini. Cesare Corsini, si chiama così»
«Ah».
Athos spiò le espressioni dei suoi amici, Porthos e Aramis sembravano totalmente presi dai due piatti fumanti che avevano davanti. D’Artagnan dondolava sulla sedia sospesa su due piedi.
Sospirò e bevve un altro sorso di vino. Aveva lo stesso orribile sapore di prima, forse anche peggio. Provò a costringersi a finire il bicchiere, ma non ci riuscì.
«Al diavolo!» sbottò all’improvviso. Il boccale ancora pieno si capovolse sul tavolo con un tonfo.
Gli altri tre sollevarono lo sguardo su di lui contemporaneamente. Athos non si scomodò a dare spiegazioni, si alzò di scatto e uscì a passo nervoso dalla locanda.  
 
***
 
«Oh, Constance, non ce n’era alcun bisogno, davvero, hai fatto fin troppo…»
«Sciocchezze! Lascia che mi prenda cura di te per altri cinque minuti… chissà quando ti rivedrò!».
Constance depositò tra le braccia di Diane la giacca di cuoio che la ragazza portava sui pantaloni, l’ultimo ricordo di quelle notti in cui era stata un’altra persona.
Non aveva più visto quell’indumento dalla sera al porto. Pensava che lo avessero buttato via, che fosse troppo sporco di sangue per essere salvato e invece Constance l’aveva lavato e aveva rammendato il foro di proiettile dietro la schiena. 
La padrona di casa sparì verso la cucina per controllare la cena che ribolliva in una pignatta nel caminetto, quando si sentirono dei colpi alla porta.
«Ti dispiace vedere chi è, Diane?» gridò Constance, mentre la ragazza era ancora intenta a rigirarsi tra le mani la giacca.
«Vado subito».
Altri colpi, più forti e insistenti.
«Arrivo!».
Chi era che se ne andava in giro per le case a ora di cena a tentare di buttare giù la porta?
Diane aprì con tutta l’intenzione di dare una lezione di buone maniere a quell’ospite inopportuno.
«Ma che cos… oh! Athos!».
Il moschettiere si sporse in avanti e si appoggiò alla cornice di legno della porta - nel caso che lei si facesse venire in mente di sbattergliela in faccia, evidentemente.
«Porthos e Aramis mi hanno detto che il duca ha anticipato la partenza» disse d’un fiato, senza concedersi il tempo di un saluto o di qualsiasi altra forma di cortesia.
«Sì, è così».
Athos inclinò la testa e fissò la ragazza come se si aspettasse una risposta più eloquente e articolata.
Diane decise che i muri di casa Bonacieux non avrebbero dovuto essere spettatori dell’ennesima follia. Sgusciò fuori, chiudendo piano la porta dietro di sé e ritrovandosi con le spalle contro lo stipite, bloccata da Athos che non sembrava volersi spostare per lasciarle quel minimo di spazio che sarebbe servito a parlaresi senza rischiare di pestarsi i piedi.
«Sei ubriaco?» gli domandò.
«Non ancora»
«Molto bene. E sei venuto qui perché?» 
Athos si torse le mani facendo scricchiolare il cuoio dei guanti. «Non voglio che tu parta. Non voglio che Constance ti regali coperte. Non voglio che tu sposi Corsini»
«Come?».
Il moschettiere sospirò come se fosse esausto. «Hai capito».
«Athos, io non ho alcuna intenzione di-»
Diane sentiva il cuore batterle come se volesse spezzarle il petto.
«Perdonami»  disse lui di colpo. «Meriti di lasciarti questa città e tutto quello che è successo alle spalle, lo so, ma ti amo».
La giovane si sentì soffocare, non pensava che la felicità avesse la violenza di un pugno in pieno viso.
«Athos, il duca è partito questa mattina».
Il calore le saliva dal cuore agli occhi, confondeva le parole che avrebbe voluto urlare in tante cose che non si potevano dire, che non era più necessario dire. 
«Avevo solo intenzione di andarmene in campagna per un po’, avevo fatto i bagagli e tutto ma, pensandoci bene, non mi è mai piaciuta la campagna» fu l’unica cosa che riuscì a tirare fuori.
Athos prese un lungo respiro e la guardò incredulo. «E Corsini?»
«A dispetto di ciò che tu e i tuoi amici possiate pensare di lui, non è un damerino stupido. Gli ho detto che amo un altro, ha capito. Non merita una donna che non può essere la moglie che desidera»
«D’Artagnan, Aramis e Porthos, loro mi avevano detto che…»
«Loro sono degli adorabili bastardi»
«Perché piangi?»
Diane si asciugò il viso con il dorso della mano. «Non sto piangendo».
«Forse però, un mese in campagna gioverebbe»
«Ora vedi di non farti prendere a schiaffi»
«Smetti di piangere, per piacere»
«Convincimi»
Athos la spinse contro la porta. La baciò come se fosse l’unico modo in cui poteva continuare a respirare.
Da qualche parte, dalla strada, forse arrivò lo sghignazzo di qualche passante, un’esclamazione maliziosa o persino volgare, ma era tutto lontanissimo, il mondo sfocava e si faceva trasparente, inghiottito dal rombare del sangue nelle loro orecchie, lo scalpiccio dei passi di una felicità insperata e ancora zoppicante.
Rimasero stretti anche dopo quel bacio, dita che serravano le braccia fino a far male.
La razionalità riemerse a poco a poco, restituendo loro la consapevolezza della strada trafficata, della brezza della sera e delle bolle di luce dorata provenienti dalla fiaccole accese ai lati della piazza.
«Devo parlare con tuo zio» disse Athos, cercando di nuovo le labbra di Diane con gesti febbrili.
«Questa cosa che mio zio diventa il tuo primo pensiero ogni volta comincia a diventare inquietante» rispose lei passandogli le dita tra i capelli.
«Voglio fare le cose nella maniera appropriata. Per anni ho creduto di aver chiuso con le storie d’amore, non voglio rischiare di rovinare tutto».
Diane scosse il capo, la solennità nelle parole di Athos la divertiva. «Di solito è una prerogativa delle donne quella di prendersi del tempo».
«Sarà, ma io cerco solo di comportarmi da persona assennata»
«Qualcuno tra noi due deve pur esserlo, mi sembra giusto». Diane prese una mano del moschettiere nelle sue. Aveva ragione: avevano bisogno di tempo adesso che la tempesta era passata e che le loro vite erano come oasi da lasciar fiorire nel deserto. «Aspetteremo».
Un improvviso colpo di tosse, troppo forte, li fece sobbalzare.
«Credo vogliano denunciarci per oscenità» mormorò Diane.
Athos si riscosse come se solo in quel momento di fosse effettivamente reso conto che erano in mezzo a una strada - fuori casa di Constance e suo marito. Si allontanò dalla ragazza con una certa riluttanza.
Un ometto in livrea li stava guardando con aria spazientita. Il moschettiere gli lanciò un’occhiataccia che lui ignorò.
«Sto cercando…» esordì lo sconosciuto, controllando il nome scritto su una lettera che aveva in mano, «… mademoiselle Diane Leroux. Mi hanno detto che alloggia qui, voglio sperare non siate voi»
«Mi dispiace deludervi, monsieur» replicò la ragazza, allungando la mano per farsi consegnare la missiva.
L’ometto fece un inchino reticente e si allontanò senza aggiungere altro.
«È della regina» disse Diane, riconoscendo il sigillo di ceralacca. Aprì la busta di spessa carta color avorio e lesse le poche righe con le quali sua maestà la convocava a corte per l’indomani. «Vuole vedermi, avrà saputo che rimango a Parigi».
«La regina ha bisogno di amici» mormorò il moschettiere, come un pensiero ad alta voce. «Ad ogni modo, se domani tuo zio mi sparerà alla testa non avrò nessun rimpianto»
«Buono a sapersi».
Diane sorrise, Athos sorrise di rimando come in un riflesso, come se per la prima volta i loro pensieri si fossero incontrati nel percorrere la stessa strada. 
«E adesso dove andrai a stare?» chiese lui. Prese la mano di Diane e fece qualche passo con lei attraversando la piazza.
«Credo che tornerò da mio zio fino a quando non avrò trovato un’altra sistemazione» rispose la giovane, indugiando con lo sguardo sulle loro dita intrecciate. «Immagino che lui sarà contento, e poi in quella casa dovrà pur abitarci qualcuno dato che Treville è sempre alla guarnigione»
«Spero di non essere presente quando si dirà a Porthos e Aramis che devi spostare di nuovo tutti i bagagli.
Diane ridacchiò. «Amo i moschettieri!».
Athos baciò la mano della ragazza, appoggiandole con delicatezza le labbra sul dorso, sfiorandolo appena. Era qualcosa che aveva imparato in un’altra vita, quando ancora era innocente e pensava che sarebbe stato tanto fortunato da rimanere tale.
«Buona notte, Diane» disse. Non c’era alcuna fretta, ora avevano tutto il tempo del mondo.
«Promettimi che non sgriderai gli altri tre» lo pregò lei. 
«Non lo farò»
«Sono davvero rammaricata che abbiano trascinato i miei bagagli per niente»
«Ho la sensazione che non gli dispiacerà saperlo».  










Sì, dovevo proprio farli penare fino alla fine.
Sì, sono stupida e i moschettieri che si danno alla psicologia inversa mi hanno fatto ridere un sacco (che è poi il mio problema di fondo: io mi diverto a scrivere queste sciocchezze. Dovrei trovarmi un hobby, qualcosa di utile per la società, non so...). 

Ci leggiamo mercoledì con l'epilogo e con una piccola sorpresa... 
Alla prossima
C. 
  
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