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Autore: Piperilla    21/07/2015    0 recensioni
Antonia e Federica non hanno nulla fuori dall'ordinario - tranne forse il nome della prima - e vivono come qualsiasi altro ventiduenne: per la maggior parte dell'anno casa, università, uscite con gli amici e qualche lavoretto part time di tanto in tanto. Anche le vacanze sono sempre le stesse: nascoste in un paesino pressoché sconosciuto dell'Abruzzo con altri amici d'infanzia ad ammazzare il tempo con i falò notturni, i tornei di carte e qualche volta troppo alcool. Come si è detto: nulla fuori dall'ordinario.
Almeno fino a quando non si scontreranno con le inaspettate conseguenze di una scelta a prima vista solo un po' azzardata.
[Il rating potrebbe salire]
Genere: Avventura, Azione, Romantico | Stato: completa
Tipo di coppia: Het
Note: Lime | Avvertimenti: Triangolo, Violenza
Capitoli:
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L’alba era giunta rapidissima, prendendo tutti alla sprovvista.
   «Siete pronti?» chiese Grant con un pizzico di nervosismo. Erano radunati nel piazzale del castello, a poca distanza dalle massicce porte ancora chiuse: i lupi erano stati sellati e il gruppo di circa venticinque uomini non aspettava che il suo comando, per mettersi in marcia.
   «Sì» risposero in coro i presenti.
   Antonia balzò in sella a Nebbia e tese la mano a Federica, che montò dietro di lei. Intanto Grant assicurò alla sella di Folgore, il proprio lupo, due ingombranti sacche che Federica avrebbe riportato con sé nel suo mondo d’origine. Pochi minuti più tardi le imponenti cancellate vennero aperte e il gruppo si avventurò all’esterno. Baumann, che aveva insistito per andare con loro, cavalcava attorniato dalle due ragazze, da Grant e da Illyrio, mentre le altre guardie li circondavano da ogni lato. Alec comandava il gruppo, e Zane controllava le retrovie.
   Il piccolo contingente attraversò il quadrante in direzione del Varco mantenendo le cavalcature a un’andatura rapida ma controllata: sebbene fossero riusciti a sottrarre ampie parti del territorio agli Orchi, era fondamentale muoversi con cautela.
   «Credi che starai bene qui, da sola?» sussurrò Federica all’orecchio dell’amica.
   «Non sarò sola» bisbigliò di rimando Antonia.
   «Sai che intendo» si spazientì l’altra sottovoce.
   Antonia rimase in silenzio così a lungo che Federica perse ogni speranza di ricevere una risposta.
   «Io non starò bene, Fede» disse infine, tenendo saldamente le redini di Nebbia. «Non starò bene perché ho trovato il mio scopo qui, in un mondo devastato da una guerra che sto combattendo in prima linea. Non starò bene perché varcare ogni giorno le mura sicure del castello per scontrarmi con gli Orchi presto o tardi mi porterà a essere uccisa; ecco perché non starò bene. Perché morirò, a un certo punto, e quasi sicuramente di morte violenta; ma tutto quello che mi separerà da quel giorno varrà la pena di essere vissuto, e farà sì che sia valsa la pena di combattere e morire».
   Stavolta fu Federica a tacere per un po’. «Non tornerai, vero?» chiese infine. «Non tornerai mai a casa»
   «No, temo di no» mormorò Antonia. «Questo è un addio».
   Grant, che aveva l’udito fine ed era riuscito a seguire il discorso delle due ragazze, le affiancò. «Non siate così drastiche. Io sono certo che vi rivedrete ancora» disse sottovoce in tono gentile.
   Antonia gli sorrise con tristezza e un pizzico di gratitudine, e persino Federica non poté impedirsi di rivolgergli un brevissimo sorriso.
   Alec alzò una mano, richiamando l’attenzione di tutti.
   «Cautela» mormorò. «Mi sembra di vedere movimenti sospetti, più avanti».
   Jonas si irrigidì sulla sella e riguadagnò subito il proprio posto, mentre Illyrio si accostava ancora di più a Baumann.
   L’intero gruppo rallentò l’andatura, controllando scrupolosamente ogni palmo di foresta a mano a mano che avanzavano. Il Magister Fascinationum cavalcava ad appena un passo dal proprio principe, e i due discutevano con voce inudibile. Antonia, dal canto suo, non poteva fare a meno di cercare con lo sguardo Grant a intervalli regolari: l’espressione seria e concentrata del capitano calmava un po’ quel nervosismo che le parole di Alec avevano fatto nascere in lei, e quando i loro occhi si incrociavano, Jonas le rivolgeva un impercettibile cenno con la testa, come a raccomandarle di stare calma.
   Anche se mancava quasi un miglio al punto d’arrivo, il Varco cominciava a essere visibile: le prime pietre del vetusto arco si scorgevano tra un tronco e l’altro a seconda della direzione seguita dal convoglio.
   Federica si strinse un po’ di più ad Antonia.
   «Ho una brutta sensazione» bisbigliò.
   «Siamo quasi arrivati» replicò Antonia in un sussurro.
   L’altra si agitò, a disagio. «Dovrete tornare indietro»
   «Siamo in tanti. Non avremo problemi» la rabbonì l’amica.
   Ormai erano a poco più di duecento metri dal Varco: tutto era immobile in quell’aria rarefatta in cui non spirava neanche un soffio di vento, non c’erano rumori a coprire la loro avanzata, né a turbarli. Eppure, quel silenzio così innaturale non faceva che aumentare il nervosismo generale.
   A un segnale di Alec, il gruppo rallentò ancora l’andatura. Le zampe dei lupi si posavano sul terreno inumidito dalle piogge primaverili con tonfi soffocati, lievissimi, quasi impercettibili.
   Mancavano oltre cento metri al Varco quando quell’ostentata calma andò in frantumi.
   «UOMINI, ALLE ARMI!» tuonò Grant nell’esatto istante in cui un contingente di Orchi sbucò da una serie di cunicoli sotterranei.
   Illyrio non lasciò a Baumann neanche il tempo di respirare. Smontò di sella con un balzo fulmineo, trascinò a terra il principe e con un fremito delle spalle, il suo mantello si lacerò: le due metà si tramutarono in enormi ali di corvo e il Magister Fascinationum spiccò il volo, portando Baumann al sicuro.
   Antonia, che era scesa di sella a sua volta, prese le sacche dalla groppa di Folgore mentre Federica si metteva a tracolla le armi donatele dal principe, e trascinò l’amica verso il Varco.
   «Andiamo Fede, muoviti!» urlò.
   «Non posso lasciarvi qui a combattere!» gridò l’altra in risposta.
   Antonia la trascinò verso l’arco con più decisione. «Siamo venuti fin qui perché tu potessi tornare a casa! Devi attraversare!». Fece roteare le sacche con gli occhi socchiusi per la concentrazione e le lanciò attraverso l’arco: i due oggetti svanirono nel nulla. «Avanti, va’!».
   Le due ragazze si guardarono intensamente negli occhi, poi si abbracciarono strette per alcuni istanti.
   «Tornerò» promise Federica, staccandosi. «Un giorno tornerò»
   Antonia annuì. «Terrò il Varco in sicurezza aspettando quel giorno».
   Federica fissò il Varco, prese la rincorsa e spiccò un salto attraverso la costruzione diroccata, svanendo nel nulla come avevano fatto poco prima i suoi bagagli.
   «È andata!» gridò Antonia. «Federica ha attraversato!»
   «Allora puoi anche darci una mano, Antonia cara!» ululò in risposta Grant, stringendo i denti e mulinando la propria arma mentre affrontava un Orco: spada e martello si scontrarono più volte, generando scintille.
   Antonia neanche provò a toccare l’arco che portava a tracolla. I Signori del Terremoto erano troppo vicini, e con Alec e Zane che galoppavano in cerchio agitando le spade per tenerli a distanza, scagliare le proprie frecce sarebbe stata una follia: rischiava di colpire i propri compagni. Così, per quanto poco le facesse piacere, estrasse la spada che portava appesa al fianco e si diresse verso l’Orco più vicino.
   «Come diavolo sapevano che saremmo venuti qui?» grugnì contrariata parando una martellata del suo avversario.
   «Non lo sapevano» rispose Zane, che passava al galoppo in quel momento. «Visto che abbiamo cercato di respingerli…»
   «…da questa zona» proseguì Alec, passando dopo che suo fratello si fu allontanato, «hanno deciso di nascondersi e aspettare. Gli Orchi lo fanno…»
   «…spesso» concluse Zane, ripassando di lì. «Non si può dire che non siano pazienti»
   «Non si può dire che non si siano fastidiosi» lo corresse Grant brontolando. «Perlomeno Baumann è al sicuro. Che Illyrio sia benedetto!».
   Nonostante la situazione fosse critica Alec rise, tanto era strano sentire Jonas parlar bene di Illyrio – non che non andassero d’accordo, ma il carattere riservato di entrambi e la puntigliosità del Magister rendevano difficili i rapporti tra i due – mentre gli altri, troppo occupati a fronteggiare i nemici, a malapena lo sentirono.
   Un colpo di martello evitò la testa di Alec per un soffio.
   «Maledizione, Alec, concentrati!» tuonò suo fratello.
   «Grant» chiamò Antonia, in difficoltà: stava combattendo contro tre Orchi e non poteva fare molto più che saltellare come un folletto impazzito per evitare i colpi. «GRANT!» urlò di nuovo, infliggendo una profonda ferita al braccio armato dell’Orco più vicino.
   «Che c’è?» rispose lui a denti stretti, troppo occupato a deviare le martellare del proprio avversario.
   «Ce ne dobbiamo andare!» gridò la ragazza.
   «Come se fosse facile!» scattò Jonas, colpendo con forza inaudita un Orco per la stizza.
   Antonia non replicò. Riuscì a liberarsi con grande fatica di un secondo Orco, e ne stava fronteggiando un terzo quando un ruggito collettivo eruppe dalle gole dei nemici. Grant e gli altri furono immobilizzati per la sorpresa soltanto per un secondo, poi ripresero a combattere con maggiore energia. Antonia, sentendo una nuova ombra incombere su di sé, alzò gli occhi e rimase paralizzata: di fronte a lei c’era un Orco, ma il suo aspetto era più spaventoso di quello di tutti gli altri. Forse dipendeva dalle placche metalliche che gli coprivano il petto e il collo, infilzate direttamente nella carne; o forse era a causa della lunga cicatrice che gli percorreva verticalmente la fronte per poi scendere tra gli occhi e spaccargli a metà il naso.
   Grant sbiancò.
   «Caliban!» urlò con tutta la voce che aveva. «Uomini, ardimento! Il Signore del Terremoto è qui!».
   Antonia continuò a fissare la faccia spaventosa dell’Orco, che a sua volta la osservava. Si sarebbe detto che stesse decidendo come colpirla per procurarle il maggior dolore possibile senza ucciderla.
   «Avanti, uomini! L’assassino di re Maximillian è qui! Vendichiamo il nostro sovrano!» gridò ancora Grant.
   Gli uomini si riscossero. Ma gli Orchi erano determinati a tenerli lontani dal loro signore quanto i soldati di Baumann erano decisi a raggiungerlo: gli scontri divennero più duri, gli assalti più decisi, le difese meno caute: entrambi gli schieramenti si battevano al massimo delle loro possibilità.
   Caliban puntò il martello contro Antonia come fosse stato un prolungamento della propria mano.
   «La futura regina dello Staudeheim» disse in tono roco, sepolcrale: somigliava alla eco bassa e cupa di una voce che rimbalzi all’infinito contro dure pareti di roccia. Una voce sotterranea, proprio come la natura più profonda del suo possessore. L’Orco si indicò il naso. «Il tuo predecessore mi ha fatto questo. Glielo riconosco: grande spirito anche nella morte. Il mio martello già calava sulla sua testa, e riuscì comunque a scagliarmi contro la propria spada, colpendomi in viso con tanta forza da deturparmi». Sorrise: la ragazza notò i punti ormai cicatrizzati in cui le labbra si erano ricongiunte dopo essere state tagliate in due dall’ultimo colpo del padre di Baumann. «La sua sconfitta impressa nel mio volto: non c’è niente che ami di più di questo taglio di lama».
   Antonia strinse più saldamente la spada; ma la sua mano tremava.
   «Antonia!» urlò Grant, tentando invano di farsi strada fino a lei. «Antonia! Scappa!».
   Il primo e più potente Signore del Terremoto si voltò per un brevissimo istante verso Grant, poi socchiuse gli occhi e reclinò indietro la testa, respirando attraverso il naso tagliato a metà.
   «Antonia» ripeté lentamente, quasi stesse analizzando che sapore avesse il nome di lei sulla lingua. «Antonia, colei che è salda; Baumann, l’Albero saldo nel terremoto; Grant, la salda Roccia che non vacilla mai». Riaprì gli occhi e le puntò di nuovo contro il martello. «Che rovina, che sciagura, lasciar vivere la terza parte di ciò che può rendere questa terra insensibile al potere della mia genia!».
   Caliban sollevò il martello sopra la testa di una Antonia ipnotizzata.
   «CALIBAN!» tuonò Grant. Con tre rapidissimi colpi di spada rese inoffensivo il proprio avversario: quello, sorpreso, si ritrovò con il petto squarciato e il proprio fegato spappolato tra le mani prima di poter capire cosa fosse successo. Il capitano lo superò senza perdere un istante: corse verso la roccia più vicina, vi salì con un balzo leggero e si diede la spinta, spiccando un salto altissimo, la spada stretta tra le mani e sospesa sopra la propria testa, pronta a colpire.
   Jonas abbatté la propria spada sulla testa del Signore del Terremoto con tutta la forza che aveva: si udì un forte scricchiolio, e la lama si spezzò.
   Il capitano, finito a terra per lo slancio, si rialzò. Caliban non era morto; il suo cranio aveva vinto la sfida col metallo; ma la profonda ferita che Grant gli aveva appena inferto era abbastanza dolorosa, insieme alla copiosa perdita di sangue, da stordirlo.
   L’Orco cadde in ginocchio tenendosi la testa. Grant corse da Antonia.
   «Antonia, vieni, andiamo via!» disse con urgenza, scuotendola forte per farla riprendere dallo shock. Fischiò, e Folgore apparve al suo fianco saltando gli Orchi con grandi balzi. Jonas salì in sella trascinandola con sé mentre gli altri Orchi, stupiti dal colpo ricevuto dal loro signore, si guardavano l’un l’altro con stordita incredulità. «Uomini, ritirata!».
   Uomini e lupi si insinuarono negli varchi lasciati dagli Orchi e galopparono a tutta velocità verso il castello.

Il viaggio di ritorno, Antonia l’aveva fatto nel più completo silenzio. Seduta davanti a Jonas e stretta dalle sue braccia che le evitavano di cadere di sella, si era rinchiusa in un mutismo che aveva preoccupato Grant. In passato – soprattutto nei primi tempi che aveva trascorso al castello – era accaduto spesso che Antonia si rifiutasse di rivolgergli la parola e si chiudesse in un ostinato silenzio; ma se in quei casi si era trattato di rabbia, fastidio, ripicche, ora Jonas aveva la sensazione che Antonia non parlasse semplicemente perché non aveva niente da dire. Lo intuiva dal modo in cui stava in sella – non fiero, non concentrato, ma afflosciata come una marionetta priva di vita, che solo la sua presa salvava dallo scivolare giù.
   Appena furono al riparo tra le mura amiche, Jonas scese dalla groppa di Folgore e mise a terra Antonia con grande delicatezza, come se temesse di vederla andare in pezzi.
   «Aspettami qui» le disse concitato. «Torno subito. Tu non muoverti».
   Grant scappò via. Alcuni uomini erano un po’ ammaccati, ma fortunatamente ne erano usciti tutti vivi: non avevano che qualche graffio, perfettamente in grado di guarire anche senza l’intervento della Magistra Sanationis. Era per Antonia che Grant era corso a cercare Isdrid: sperava che almeno lei riuscisse a superare quel muro di silenzio dietro cui si era trincerata la ragazza. Ma quando tornò indietro tallonato dalla sua vecchia balia, Jonas non trovò più Antonia accanto a Folgore.
   «Dov’è?» chiese agitato a nessuno in particolare, guardandosi intorno. «Ehi» chiamò, attirando l’attenzione della guardia di vedetta. «Dov’è Antonia?». Quello si strinse nelle spalle, come a dire che non ne aveva la minima idea, e Grant digrignò i denti con rabbia sotto lo sguardo inquieto di Isdrid. «Vado a cercarla, mamma Isdrid» disse secco, allontanandosi subito.
   Non aveva idea di dove si fosse cacciata Antonia, e per la prima volta dopo tanto tempo, era arrabbiato con lei: arrabbiato per com’era rimasta inerte di fronte a Caliban, arrabbiato per la paura che gli aveva fatto provare, arrabbiato per essere sparita chissà dove sebbene lui le avesse detto di non muoversi.
   Immerso nelle viscere del castello il capitano percorreva i corridoi con rapidità, spostando con gesti decisi gli arazzi che nascondevano i passaggi. Intuito subito che Antonia non si sarebbe rifugiata nella propria stanza, aveva optato per il parco del castello: fino a quel momento aveva controllato con lo scrupolo tipico del suo incarico le corti della Quercia, del Larice, del Faggio, del Tasso, del Tiglio e dell’Acero, ma senza risultati. Cominciava a non poterne più di tutte quelle torri e tutti quei giardini: nessuno aveva mai capito con precisione quanti fossero, e non voleva certo essere lui a svelare il segreto controllandoli uno a uno fino all’ultimo.
   La porta che conduceva alla Torre del Cipresso e al relativo giardino chiuso gli fece tornare in mente il giorno in cui lui e Antonia avevano finalmente imparato a parlarsi mettendo da parte rancore e sospetti. Certo, però, non poteva dimenticare che quella zona del castello era disabitata e il giardino incolto: lui stesso, quando vi si era rifugiato per non dover vedere nessuno, aveva dovuto lottare contro l’intrico quasi indistruttibile di piante e arbusti che aveva invaso ogni cosa. Nessuno sano di mente si sarebbe nascosto lì dentro.
   Grant aprì la porta.
   Sembrava che in quei mesi la vegetazione che invadeva il giardino fosse raddoppiata: in alcuni punti il groviglio di rovi superava di due palmi abbondanti la cima della testa del capitano, e trovare lo spazio per inoltrarsi in quella giungla pareva impossibile.
   Jonas prese il moncone della spada che aveva rinfilato nel fodero e lo usò a mo’ di coltello per aprirsi un varco tra le piante. In realtà gli sembrava una cosa stupida, una perdita di tempo: se lui doveva faticare tanto per avanzare, come poteva esserci riuscita Antonia, nello stato catatonico in cui si trovava?
   Ciononostante, l’uomo continuò la sua avanzata. Per un qualche motivo sconosciuto, sentiva che Antonia gli era simile. Non importava che lei fosse innamorata di Baumann e che tutti ormai fossero a conoscenza della cosa: Jonas sapeva che lei somigliava più a lui stesso che non a suo fratello come era certo che quel cipresso secolare piantato da Gowan in persona, che ora svettava in quella giungla incolta a testimonianza del dolore provato dall’antico sovrano, sarebbe rimasto lì fino alla fine dello Staudeheim.
   Non aveva mai pensato che sarebbe successo, ma per la prima volta da quando era bambino e gli era stata insegnata la storia del suo regno, Jonas capiva Gowan. Lui era la Roccia, la Guerra; erano al tempo stesso la sua natura più profonda e il suo destino, così come era stato per il suo antenato. Erano nati per combattere, per essere guerrieri; non per innamorarsi. La Roccia, così gli era stato insegnato, è troppo solida per essere intaccata da qualcosa di così etereo; la Guerra, così gli avevano detto, non ha tempo per nulla che non sia acciaio e sangue.
   E lui ne era stato convinto. Come Gowan.
   Quello dei Viaggiatori al tempo del Re Guerriero gli era parso sempre un avvenimento così lontano e indefinito da sembrare una favoletta da raccontare ai bambini all’ora di dormire; non gli aveva dato grande peso, e di sicuro non aveva mai compreso come una donna – una sconosciuta, una straniera, ignara dei loro usi, delle loro credenze, delle loro tradizioni – avesse potuto tramutare il più grande guerriero dell’intera stirpe reale in un uomo, né come avesse potuto renderlo capace di mettere da parte il ferro della spada senza rimpianti. Si era sempre chiesto, insomma, come una straniera avesse potuto rendere Gowan un uomo privo di spina dorsale.
   O almeno, se l’era chiesto fino all’arrivo di Antonia.
   A ripensarci, si sentiva il peggiore degli stupidi. Lui sapeva bene cosa gli stava accadendo, l’aveva sempre saputo; solo che non aveva voluto ammetterlo. Aveva creduto che arroccarsi sulle proprie posizioni – lui era la Roccia, il Guerriero; il capitano delle guardie di palazzo, il responsabile della sicurezza degli abitanti di quel luogo – gli avrebbe permesso, se non di dimenticare, di tenere a bada quello che non avrebbe dovuto provare abbastanza da fingere che non esistesse. Poi si era illuso che essere crudele con quella sconosciuta insicura e sperduta avrebbe prosciugato quella piccola, impalpabile goccia che stava scavando dentro di lui – la Roccia, vinta da una misera goccia d’acqua! Inconcepibile! – salvando così ciò che era sempre stato.
   Non era servito. Dopo essere corso a recuperare Antonia dal suo folle tentativo di fuga verso il Varco si era reso conto dell’inutilità dei propri sforzi. Aveva rinunciato a buona parte del proprio astio verso di lei – ingiustificato e immeritato, aveva ammesso con vergogna a se stesso – e a tutta la crudeltà di cui l’aveva fatta oggetto. Aveva messo il broncio, finto di averla riportata indietro solo per recuperare l’armonia con suo fratello, trovato un nascondiglio ideale e impenetrabile proprio in quel Giardino del Cipresso in cui si stava facendo strada con tanta fatica. Ma Antonia era arrivata anche lì: per caso, certo, ma non per questo Jonas aveva capito con minore consapevolezza di non poterle sfuggire. Lei ormai era lì: e che gli Dèi l’avessero mandata per metterlo alla prova o per chissà quale altro motivo, Jonas non lo sapeva. Sapeva solo che era privo di senso combattere ancora: doveva abituarsi alla presenza di quella straniera che lo stava sfaldando pezzo a pezzo – ebbene sì, lui, la Roccia, disgregato da una piccola, apparentemente insignificante goccia d’acqua pura – e ammettere che forse Gowan non era stato il sovrano debole che lui s’era figurato sentendo i racconti di ciò che era divenuto dopo la partenza della Viaggiatrice. Era stato solo un uomo; un uomo innamorato.
   E Jonas iniziava a capirlo.
   Aveva capito molto altro, in quel mattino di battaglia simile a tanti altri che aveva vissuto. C’era stato l’agguato – come tante altre volte; c’era stato lo scontro – come ogni volta che mettevano piede fuori dalle mura sicure del palazzo; c’era stata Antonia in prima linea, tra gli Orchi – come si era abituato ad accettare con una fatica che nessuno avrebbe potuto immaginare dalla sua espressione sempre imperturbabile e dalle battute sarcastiche che le faceva. Quello che c’era stato quel giorno – e che prima mai c’era stato – era Antonia inerte, incapace di difendersi; quello che non c’era stato per anni era Caliban sul campo di battaglia – e quando Caliban pretendeva una vita, l’otteneva sempre: soltanto Baumann faceva eccezione, con re Maximillian che aveva preso il suo posto di forza.
   Quello che c’era stato quel giorno – che mai c’era stato prima, che Jonas credeva non ci sarebbe stato mai – era lui stesso che uccideva un Orco con tre soli, fulminei colpi, di una brutalità che non credeva sarebbe mai potuta uscire da lui; quello che c’era stato quel giorno e mai c’era stato prima era la forza che aveva impresso a quell’unico colpo che aveva diretto al cranio di Caliban, un concentrato di furore, rabbia, e terrore incanalati in una spada – sì, terrore: perché la vista di Antonia inerme al cospetto del martello sollevato del Signore del Terremoto aveva fatto nascere in lui un terrore che mai aveva provato, neanche quando mesi prima aveva visto uno di quei martelli calare sulla sua stessa testa.
   Era stato mettendo fuori combattimento Caliban – in quell’istante in cui la sua spada aveva provocato all’Orco una cicatrice gemella a quella regalatagli da re Maximillian – che Jonas aveva capito, totalmente e per la prima volta, che Antonia non l’aveva ridotto in pezzi; che quella goccia che lui credeva lo stesse sfaldando in realtà era filtrata dentro di lui rendendolo più solido di quanto non fosse mai stato.
   Antonia l’aveva reso davvero una Roccia; aveva tirato fuori da lui pepite preziose che non credeva fossero sepolte dentro di sé, e l’aveva messo in condizione di fare quello che nessuno aveva mai fatto riuscendo a restare in vita. Eccetto Gowan.
   Jonas si chiese come si sarebbe sentito se Antonia fosse ripartita insieme a Federica, lasciando per sempre lo Staudeheim e i suoi abitanti, Baumann, Isdrid e tutti gli altri.
   Lasciando lui.
   Il capitano prese un respiro profondo, come a voler recuperare quello che i suoi polmoni si erano rifiutati di prendere un attimo prima: non riusciva a immaginare la propria esistenza com’era stata prima dell’arrivo delle due straniere.
   Non riusciva a immaginare la propria esistenza senza Antonia.
   Finalmente capiva appieno Gowan e la decisione con cui si era isolato dopo che la sua straniera – l’ultima Viaggiatrice ad aver messo piede nel loro reame fino a quelle due giovani donne che lui stesso aveva trovato nel bosco – se n’era andata, tornando al proprio mondo e ai propri doveri.
   Senza rendersene conto, Jonas si trovò faccia a faccia col massiccio tronco del cipresso che dava il nome alla torre costruita alle sue spalle. Nelle sue riflessioni aveva tranciato rovi e scostati rami fino ad arrivare proprio in quel punto, di fronte a quella pianta maestosa in cui, si sussurrava, si fosse rifugiata l’anima del Re Guerriero dopo la sua morte. Si sentì rasserenato: guardare quell’albero era come guardare Gowan, e riceverne conforto.
   Il capitano appoggiò la mano aperta sul tronco del cipresso.
   «Ora capisco» disse serio.
   «Jonas?».
   Una vocina sottile uscì all’improvviso dalla vegetazione, facendo sobbalzare l’uomo. Aguzzando lo sguardo, Grant vide un volto pallido e scarmigliato spuntare fuori proprio da dietro il cipresso: Antonia.
   Alla fine aveva avuto ragione, il capitano: contro ogni logica, Antonia si era rifugiata nel luogo più inospitale del castello, quello in cui nessuno si sarebbe mai avventurato.
   Tranne lui.
   Jonas non sapeva cos’era successo: la sua razionalità, il suo autocontrollo, la sua freddezza, tutto era sparito di fronte agli occhi smarriti della ragazza. L’unica cosa di cui era consapevole era di essere in ginocchio, e di essersi aggrappato a lei come se fosse stata l’unico punto saldo nel bel mezzo di un terremoto.
   Antonia rimase immobile per un istante, sconcertata da quello che era successo: quando aveva sentito la voce di Jonas non aveva potuto fare a meno di rivelarsi. Si erano guardati negli occhi per un istante; poi, senza alcun preavviso, Grant era crollato in ginocchio e l’aveva abbracciata alla vita, nascondendo il volto contro il suo stomaco. Il moncone della sua spada giaceva abbandonato in mezzo a un cespuglio di rovi accanto a loro, dove il capitano l’aveva fatto cadere senza neanche rendersene conto, e ascoltando con attenzione, la ragazza si accorse che Jonas stava mormorando qualcosa con quella che sembrava disperazione.
   Antonia si chinò un po’ di più verso la sua testa e tese le orecchie.
   «Antonia» ripeteva l’uomo in un gemito continuo, sordo. «Antonia…Antonia…Antonia…».
   La ragazza continuò a fissare la testa scura di Grant, incredula. Ebbe un fremito involontario, quasi impercettibile, ma tanto bastò a far tornare il capitano in sé: scattò in piedi, evitando lo sguardo di lei, e si allontanò di un passo.
   «Io…» borbottò rauco; si schiarì la voce. «Credevo d’averti detto di restare dov’eri».
   «Grant» disse calma Antonia, ma lui la ignorò.
   «Ti ho cercata dappertutto» proseguì, tentando di suonare infastidito. «Ho controllato non so più quanti giardini e corridoi…»
   «Grant» ripeté con dolcezza la ragazza.
   «Quando sarai stanca di stare qui, va’ da mamma Isdrid» concluse lui, voltandosi come per andarsene. «Ti aspetta».
   «Jonas».
   Grant s’immobilizzò. Lentamente si voltò di nuovo verso Antonia, che si avvicinò: stando così vicini non riusciva a guardarlo negli occhi neanche mettendosi in punta di piedi e reclinando la testa indietro, tanta era la differenza d’altezza tra loro. Lei si aggrappò alla tunica di Grant: lui s’inginocchiò di nuovo, imitato dalla ragazza.
   «Che cos’hai?» gli chiese pianissimo Antonia. L’uomo scosse la testa. «Jonas, guardami. Cosa c’è che non va?».
   Jonas chiuse gli occhi, quasi a non volerle lasciare nessuno spiraglio aperto sui propri pensieri; ma dopo pochi istanti li riaprì, puntandole addosso uno sguardo fiero, di sfida.
   «Non volevo dirtelo, ma visto che sei tanto ostinata, lo farò: e al diavolo le conseguenze» disse brusco. «Vuoi sapere cosa c’è che non va?» sputò arrabbiato. Esitò per un istante. «Il tuo comportamento di oggi, non va: non ti sei difesa, non ha cercato di combattere né di scappare. Non hai fatto nulla per salvarti!».
   Antonia sospirò. «Lo so. È stupido, ma…quell’Orco mi faceva una tale paura che riuscivo a malapena a respirare»
   «Non è stata stupida la tua paura» sbottò Grant. «È stata stupida la tua assoluta mancanza di reazioni!». Tacque per qualche istante mentre la sua espressione cambiava di continuo: da arrabbiata divenne angosciata, poi di nuovo furiosa e infine sconfitta. «Ma in realtà è comprensibile. Caliban è il primo Signore del Terremoto, il più crudele, il più scaltro, il più potente: in realtà quello che mi ha fatto arrabbiare…». S’interruppe. «No, non era rabbia: era paura, e disperazione…». Jonas si strofinò il volto. «Ero certo che ti avrebbe uccisa, e che io non sarei riuscito a fermarlo. E non potevo accettarlo perché…perché…». Ebbe un moto di stizza. «Al diavolo!» esplose, cercando di rialzarsi.
   Antonia lo trattenne. «Non te ne andare. Resta. Parla» lo supplicò.
   Jonas sbuffò, arrabbiato con se stesso, ma restò dov’era, inginocchiato insieme a lei, i loro occhi quasi alla stessa altezza. «Non voglio parlare con te» disse petulante. «Rovinerà tutto. Lasciami stare. Lascia le cose come stanno!».
   Lei quasi sorrise: il broncio e il tono di Jonas per un attimo l’avevano fatto somigliare a un bambino ostinato. «Parla, Jonas, o chiamerò mamma Isdrid» lo stuzzicò.
   Jonas impallidì. «No! Tutto, ma non mamma Isdrid!». Si accigliò vedendo Antonia trattenere le risate. «Oh molto bene» disse altero, capendo che la ragazza lo stava solo prendendo in giro. «Te lo dirò, ma poi non venire a lamentarti da me: ricorda che sei stata tu a insistere!»
   «Lo terrò a mente» lo punzecchiò lei, guadagnando un’altra occhiataccia dall’uomo.
   «Be’ io…io…». Jonas incrociò le braccia al petto e le rivolse di nuovo quello sguardo di sfida che ormai Antonia conosceva tanto bene. «Io sono innamorato di te» brontolò sottovoce.
   «Scusa, Grant? Temo di non aver capito» lo provocò Antonia. «Cos’era quel grugnito?»
   Grant digrignò i denti e mugugnò qualcosa di poco carino. «Ho detto che sono innamorato di te!» ripeté con voce alta e chiara. «Ecco. Sei contenta, adesso? Dovevi proprio farmelo dire, vero? Complicherà tutto! Tu non riuscirai più a guardarmi come facevi prima e non potremo più combattere fianco a fianco: niente più allenamenti insieme, niente più pianificazioni contro gli Orchi…non saremo più amici, mi eviterai…»
   «Anch’io» disse tranquilla Antonia.
   «…e tutto perché tu…». Grant s’interruppe, confuso. «Eh?»
   «Anch’io ti amo» precisò Antonia.
   «No. Tu…tu ami Baumann» balbettò il capitano.
   «Amo anche te» replicò allegra la ragazza. «Qualcosa in contrario?»
   «Io…io…» farfugliò Grant, ancora più incredulo. «No».
   Antonia gli rivolse un gran sorriso e si avvicinò ancora: Grant si sdraiò sulle foglie soffici e la ragazza si spostò fino a essere sopra di lui, il sole nascosto dalla sua testa e dai suoi capelli arruffati, attraverso cui filtrava solo qualche raggio di luce.
   Jonas sollevò le mani: le accarezzò i capelli, il collo; le sue dita scesero lungo le braccia coperte dalla stoffa, poi sui fianchi nascosti dalla tunica. La toccava con una delicatezza e un timore che Antonia non avrebbe mai pensato di vedere in lui: nessuno l’aveva mai accarezzata in quel modo, e di sicuro non si aspettava che sarebbe stato proprio Jonas a farlo.
   La ragazza si chinò verso le labbra di Grant, ma lui la fermò.
   «No» sussurrò. «Non farlo, non ancora. Voglio guardarti». Si accorse dello sguardo confuso, quasi deluso, di lei. «È da tanto che aspetto questo momento: io e te, da soli, e tu sopra di me che mi guardi così. Voglio che duri il più possibile, questo istante».
   Antonia sorrise, accarezzandogli la fronte; e rimasero così fino a quando il sole non tramontò.
   
 
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