Crossover
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Autore: Registe    22/07/2015    4 recensioni
Terza storia della serie "Il Ramingo e lo Stregone".
"L’esercito del Grande Satana colpì in modo violento l’Impero Galattico. Non vi furono preavvisi, minacce o dialoghi alla ricerca di una condizione di pace. I demoni riversarono i loro poteri in maniera indiscriminata, non facendo differenza tra soldati e civili, guidati solo da un ancestrale istinto di distruzione. Soltanto la previdente politica bellica dell’Imperatore Palpatine riuscì ad impedire un massacro in larga scala.
-“Cronistoria dell’Impero Galattico, dalla fondazione ai nostri giorni” di Tahiro Gantu, sesta edizione.-"
[dal primo capitolo].
E mentre nella Galassia divampa la guerra, qualcun altro dovra' fare i conti con il passato e affrontare i propri demoni interiori...
Genere: Avventura, Fantasy, Introspettivo | Stato: completa
Tipo di coppia: Het | Personaggi: Anime/Manga, Film, Libri, Telefilm, Videogiochi
Note: Cross-over, OOC | Avvertimenti: nessuno
Capitoli:
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- Questa storia fa parte della serie 'Il Ramingo e lo Stregone'
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Capitolo 26 - Doppio attacco





Scacchi di olihargon




“Da un nemico nasce un duello. Da due nemici nasce la forza. Da cento nemici nasce l’onore”.
Proverbio demoniaco.



Ormai lo aveva capito persino lui. Se la carta scorreva verso il basso la porta si chiudeva. Se la strisciava verso l’alto si apriva. La mosse verso il basso, bene attento a farla entrare nella scanalatura, ed isolò la minuscola stanza in cui erano entrati a fatica. Un magazzino, almeno a giudicare dalle grandi scatole metalliche disposte in ordine millimetrico lungo gli scaffali. Tutte grigie, tutte uguali.
Auron si chiese come avesse fatto Zachar a vivere per tanti anni in un posto simile. Non erano entrati da più di un’ora sulla Morte Nera e già sentiva il bisogno di uscire da quel cimitero di lamiere.
Non era stato eccessivamente complicato entrare nella roccaforte dell’Impero, quella enorme stazione spaziale grande, a quello che dicevano tutti, più di una luna: i Ribelli li avevano letteralmente lanciati dentro delle armature bianche identiche a quelle di migliaia di soldati imperiali e dopo aver spiegato loro le funzioni base come parlare e respirare attraverso quegli elmi li avevano imbarcati su un cargo –trasporto disinfettanti, almeno a giudicare dalle scritte sui contenitori e soprattutto dall’odore che ne proveniva- e detto loro di attendere con calma fino all’arrivo. Semplice, i Ribelli davano per scontato che tutti sarebbero arrivati senza problemi a bordo della principale fortezza nemica che fluttuava nello spazio senza star ferma un istante. Loro non erano mai riusciti a salire a bordo del Baan Palace nemmeno una volta.
Il pensiero aveva evidentemente attraversato anche la mente di Leona perché, prima della partenza, aveva ascoltato una sua rapida conversazione con il re Aragorn. “Se è così facile entrare perché il Grande Satana non ci è ancora riuscito? Gli basterebbe mandare il Cavaliere del Drago lì dentro per porre fine alla guerra!”
“Beh, non è così semplice come sembra” aveva risposto l’uomo. Un tipo pratico, ad Auron stava molto simpatico. “Bisogna sapere come fare. Siamo in guerra con l’Impero da oltre quindici anni, abbiamo fatto molti più commandi sulla Morte Nera di quante volte Gandalf si sia pettinato la barba in una vita. E lui gira per la Terra di Mezzo da qualche migliaio di anni, mia cara. Se i demoni avessero accettato un’alleanza con noi saremmo stati più che felici di spiegare loro come entrare furtivamente a casa di papà Impe. Ma hanno rifiutato di unirsi a noi sporchi esseri umani …”
E lì era scappato un sorriso “Quindi peggio per loro. Secondo me il Grande Satana sta ancora cercando un modo di far salire quel suo Baran sulla Morte Nera. Ma temo che alcuni trucchetti siano un po’ troppo complicati per le loro teste rigide e noiose!”
Auron bofonchiò. Se il Grande Satana fosse davvero riuscito a mandare il Cavaliere del Drago lassù non ci sarebbe stato bisogno di quell’operazione. Non che disdegnasse una missione operativa, ma quel mondo era … strano. Quelle macchine combattenti chiamate “droidi” sbucavano da ogni parte ed i laser che sparavano avevano già ucciso tre fanti carbonizzando il loro petto da parte a parte. La sua Masamune riusciva a parare le raffiche, ma gli scudi che gli altri combattenti avevano portato dal loro mondo non erano durati nemmeno un istante ed il metallo era stato distrutto.
Delle spie luminose rosse si erano accese lungo le pareti, e quello che era chiaramente un segnale d’allarme si stava propagando per tutta la stazione spaziale. Aban prese quello che rimaneva dei due droidi appena abbattuti e li accatastò contro la porta. “Non penso servirà a molto” rispose Auron. “Se queste porte si aprono passandoci dentro una carta dubito che creare una barricata possa rallentarli”
“Beh, potrebbero sempre inciamparci dentro, che ne dici?”
“Non riesci proprio ad essere serio …”
Il guerriero dai capelli azzurri osservò soddisfatto l’ammasso di ferraglia davanti a loro. “No, grazie al cielo no!”
La verità era che l’idea di separarsi da Zachar non gli era piaciuta nemmeno un po’, e forse questo lo rendeva ancora più nervoso del solito. Si erano divisi in due squadre una volta che la loro navetta era atterrata nell’hangar e, grazie ad alcuni congegni dei Ribelli di cui si era rifiutato di capire il funzionamento, erano stati accettati e riconosciuti dai droidi di sorveglianza. Una volta ottenuto un minuto di pausa avevano deciso –lui era stato contrario- di dividersi in due squadre per trovare una via che conducesse al reattore principale. Raggiungere il cuore ardente della Morte Nera e riversargli dentro tutta la magia dei loro più potenti incantatori era un buon piano, soprattutto con dei druidi in grado di teleportarli al Perno dell’Ade una volta scatenata la reazione a catena che avrebbe fatto saltare la stazione spaziale su se stessa e, con una buona fortuna, l’Imperatore Palpatine dentro di essa. Ma non avevano la più pallida idea di dove si trovasse questo reattore –le informazioni dei Ribelli erano mute sull’argomento- dunque si erano divisi.
E sapere Zachar lontana da lui, su quella stazione spaziale tutta uguale, era la parte del piano che gli piaceva di meno. Certo, era affiancata da Dai, Leona e da un giovane incantatore allievo di Matoriv, ma il semplice pensiero che potessero imbattersi in qualcosa di pericoloso (o peggio, di Kaspar) lo portava a stringere le dita contro l’elsa della spada con più forza del solito.
“Ti si legge in faccia che sei preoccupato”.
Sentì la mano di Mu stringergli il braccio. “Ma dobbiamo pensare alla missione. Zachar se la caverà da sola”.
La realtà era che avrebbe anche preferito tenere Mu lontano da questa missione. Non ne aveva visto l’utilità, specie quando avevano lasciato indietro il suo confratello della Vergine per risollevare l’animo ai civili del loro mondo ancora scossi dalla guerra. Il suo migliore amico era un predicatore, non un guerriero, e l’assalto a quella base militare dove qualunque cosa, anche le armature che indossavano, era un enigma, non era uno dei primi cento o duecento posti dove avrebbe visto bene il povero Mu. Ma schiodarlo dalla sua convinzione era stato impossibile, come fronteggiare un ariete dorato deciso a non retrocedere di un passo: il suo amico si era proposto come volontario in qualità di essere uno dei pochi guaritori della Resistenza, e Leona non aveva avuto nulla da obiettare. Dopotutto anche lei conosceva la magia bianca, dunque avere un guaritore in ogni squadra era stato uno dei principali fattori legati alla scelta dei membri del gruppo. “Non è più la ragazza impaurita che hai conosciuto al Castello, Auron. Devi avere più fiducia in lei, sai?”
“Io ho fiducia in lei. È solo che …”
“Ragazzi, capisco che rendersi conto solo adesso che nel nostro gruppo non c’è nemmeno una bella fanciulla sia una cosa terribile …” disse Matoriv, emergendo da uno strano sportello pieno di fili colorati che avevano trovato lungo una parete del corridoio. “… ma ho come il sospetto che avremo compagnia. Ed anche che quella tua barricata, Aban, sia la cosa più pietosa che io abbia mai visto!”
“Potevi farla tu!” fu la risposta.
Auron sospirò. Avere Aban e Matoriv nella stessa squadra sembrava più una punizione che una garanzia di sicurezza. Se una raffica laser non lo avesse ucciso probabilmente i battibecchi tra i due gli avrebbero dato il colpo di grazia. Non si sarebbero ritrovati inseguiti da un plotone di cloni soldato e di droidi se Matoriv non avesse deciso di aprire un portellone alla sua maniera, ovvero mandando al diavolo qualunque protocollo di sicurezza e generando un incantesimo che aveva immediatamente allertato tutta la base.
Un gruppo di fanti di supporto stava disegnando su dei fogli una pianta approssimativa dei locali che avevano esplorato durante la corsa, ma era poco più dello scarabocchio di qualche piano e non conduceva a nessuna indicazione su come e dove trovare il reattore. A parte proseguire nell’unico corridoio davanti a loro non vedeva altre alternative, soprattutto perché la porta che aveva chiuso con tanta fatica si sollevò e prima ancora di vedere i caschi bianchi dei nemici o le braccia metalliche dei droidi si ritrovò accecato da un raffica di laser rossi e azzurri sparati alla rinfusa nella loro direzione mentre un oggetto appena lanciato dai loro nemici iniziò a liberare fumo scuro.
Il rumore del metallo contro altro metallo non riuscì a coprire un insulto di Aban mentre la sua lama affondava contro il primo di quei droidi facendogli saltare le giunture di quelle che sembravano “gambe”. La macchina cadde a terra, ma iniziò a muoversi sulle braccia prima che uno dei ragazzi lo colpisse con una delle scatole del magazzino. “Non rimaniamo fermi, iniziate ad andare avanti!”
Ma verso dove?
“Sparate!” gridò uno dei soldati imperiali. “Allertate tutte le unità del livello, non lasciateli scappare! Isolate gli ascensori del nono settore!”
Una folata di vento uscì dalle dita di Matoriv ed il fumo si diradò, giusto in tempo per Auron di parare un raggio che altrimenti avrebbe raggiunto la testa di Mu. Ne parò un secondo ed un terzo, calò la Masamune su un soldato con una minuscola lama luminosa in mano e quello si afflosciò senza vita, anche se ciò non impedì agli altri assaltatori di dilagare oltre la loro stretta porta. Con la coda dell’occhio vide Aban sollevare un fante ferito alla gamba ed incamminarsi con gli altri verso il corridoio, deviando con la sua spada satura di energia quanti più colpi possibile. Matoriv era andato avanti ad aprire la strada, dunque adesso tutto stava nella velocità delle loro gambe. Un droide massiccio, più alto degli altri, avanzò contro di lui sparando raffiche ravvicinate e scansando con il braccio libero tutte le altre macchine. Auron sollevò la spada come se si trattasse di uno scudo, benedicendo per la prima volta le modifiche che padron Vexen aveva apportato su di essa anni prima, al Castello dell’Oblio. Si lanciò contro di lui fino a vedere ogni cosa color rosso, accecato dai riflessi del laser sulla lama, poi scagliò tutto il proprio peso sul braccio del droide che sosteneva il blaster e lo sbilanciò a terra. Ignorando il dolore colpì il cranio metallico alla testa con una serie di calci fino a quando le luci bianche al posto degli occhi non si spensero. Gli altri soldati si lanciarono contro di lui come un’ondata e li respinse.
“Auron, levati di lì!”
Il tono perentorio di Mu lo sorprese molto più di un attacco nemico. Il suo amico aveva le braccia spalancate, i palmi delle mani rivolti verso l’esterno come se stesse cercando di trattenere qualcosa di invisibile e massiccio premuto verso il suo corpo. Delle sottili strie di luce dorata stavano circondando il sacerdote, muovendosi dal basso verso l’alto come se tutta la stanza, le sue pareti ed il soffitto stessero rispondendo ad un ordine preciso del sacerdote. Auron aveva visto ben poche volte Mu lanciare un incantesimo, ma sapeva che non era una cosa intelligente trovarsi sulla linea di tiro di un mago e con un movimento del gomito si liberò di un assaltatore che lo aveva aggredito alle spalle cercando di sbilanciarlo, scaraventandolo contro la parete. Si lanciò dall’altra parte della parete proprio mentre l’aria iniziò a diventare più fredda e luminosa e la Masamune mandò un familiare calore alla comparsa della magia. Per un attimo l’immagine dei nemici davanti a lui balenò e si mosse come distorta da qualcosa, quasi una figura riflessa in uno specchio d’acqua agitato dal lancio di un sasso. “Crystal Wall …”
Il soldato che aveva appena cercato di ucciderlo corse verso di loro, ma impattò contro una forma invisibile e cadde a terra portandosi le mani all’elmo. Auron si avvicinò a Mu per scansarlo da una raffica di blaster nella sua direzione, ma quelli invece di colpire il sacerdote esplosero in aria riempiendo la stanza di una violenta luce azzurra ed arancione. Un uomo gridò qualcosa, ma persino il suono era ovattato nelle sue orecchie. “Auron, andiamo!”
Lanciò un’ultima occhiata alle loro spalle e si lanciò con il sacerdote nel corridoio. Percorsero almeno qualche minuto senza incontrare nessuno, a destra ed a sinistra soltanto pareti grigie e degli strani pannelli, gli altri dovevano essere andati molto più avanti. Imprecò tra i denti ed accelerò il passo, ma fu costretto a rallentare quando vide Mu appoggiarsi al metallo, pallido come un cencio. Avevano abbandonato gli elmi molto prima, ed adesso la pelle del sacerdote era ancora più chiara della scomoda armatura in cui era intrappolato. Non ci voleva molto a capire che aveva sfruttato al massimo il poco potenziale magico nelle sue vene per creare quella barriera. Gli si avvicinò ed iniziò a tirarlo per un braccio, sorpreso di quanto fosse stranamente leggero senza la sua storica Armatura dell’Ariete. “Al Castello dell’Oblio ti ho visto lanciare magie ben più potenti di questa …”
“Quel posto ampliava i nostri poteri, Auron. Non riuscirei a ricreare uno Starlight Extinction nemmeno attingendo a tutte le mie forze senza il Castello” mormorò, non opponendo nessuna resistenza mentre si lasciava trascinare. Le sue pupille sembravano restringersi, ed Auron si augurò vivamente che l’altro non avesse intenzione di svenirgli in quel preciso momento.
“Smettila di accampare scuse e muoviti!” rispose.
Alquanto distante da loro poteva sentire la voce di Aban alla fine del corridoio. E di certo stava dando degli ordini, soprattutto a giudicare dal rumore di spari che sovrastava la sua voce. Senza dubbio gli imperiali volevano isolarli in quel settore della Morte Nera ed impedire loro di raggiungere gli ascensori –oggetti di cui tutti loro avevano scoperto l’esistenza solo dopo essere entrati a far parte dell’Alleanza- per bloccare qualunque via di fuga. Strinse ancora più forte il braccio di Mu e corse avanti, cercando di allontanare la spiacevole sensazione che forse, da qualche altra parte in quella stazione spaziale, Zachar stava affrontando nemici simili.
Le sagome di Aban, Matoriv e degli altri soldati comparvero in mezzo ad un vortice di scintille e sprazzi di luce di ogni colore. Il corridoio sfociava in una stanza grigia identica a tutte le altre, ma era molto più ampia, circolare, e lungo le pareti si aprivano le familiari strutture di transparacciaio semovente degli ascensori. Lungo di esse delle luci rosse illuminavano a sprazzi l’aria, riflesse dalla luce della spada di Aban che ormai aveva mandato evidentemente a quel paese tutto quello che rimaneva della segretezza della missione ed aveva avvolto il gruppo in una cupola protettiva fatta di pura energia elementale. L’uomo dagli occhiali enormi teneva l’arma bene in alto, senza attaccare, assorbendo con lo scudo incantato ed il suo stesso corpo la pioggia di laser che li circondava.
Prima di partire i Ribelli si erano raccomandati di fare attenzione ai droidi distruttori, quelli che i cloni chiamavano comunemente “droideka”.
Gli ci volle solo un’occhiata per capire che quelli che circondavano i loro amici erano proprio le macchine di cui gli alleati avevano parlato a lungo.
Continuavano a comparire ad ondate: le loro forme rotonde, simili a degli insetti, rotolavano da altri corridoi che giungevano in quell’area, ed un paio emersero dalle porte scorrevoli di un ascensore letteralmente calpestando un uomo privo di divisa o armatura che aveva avuto la sfortuna di trovarsi sul loro percorso. C’era solo pura ed efficiente coordinazione tra loro quando si sollevarono su dei supporti simili a delle sottili zampe, estesero quelle che sembravano braccia ed iniziarono a riversare raffiche laser ancora più intense, ancora più frequenti, ancora più rapide di quelle dei droidi da battaglia che avevano fronteggiato nemmeno qualche minuto prima e che si erano lasciati alle spalle. Auron vide uno dei fanti illuminare le proprie mani come Mu aveva fatto poco prima, ma il labile incantesimo di fulmine che ne scaturì si disperse contro uno strano scudo energetico di cui ogni droideka si rivestiva. La magia sfrigolò nell’aria azzurra, e solo la barriera eretta da Aban impedì che il ragazzo finisse carbonizzato dal riflesso del suo stesso incantesimo. Un altro provò a superare lo scudo deflettore di un droide con una spada: Auron vide con orrore la lama sfrigolare nell’aria azzurrina ed esplodere in migliaia di schegge mentre una raffica della macchina colpì il giovane soldato in pieno petto lasciandolo a terra senza vita, avvolto in una colonna di fumo.
“Resta indietro” gridò a Mu, e lo spinse contro il muro sperando che la stanchezza avesse la meglio sulle tendenze autodistruttive del sacerdote.
Si lanciò contro il primo droide distruttore, deciso a spezzare l’esercito di macchine che aveva ormai circondato i suoi amici. Un paio di droideka cambiarono bersaglio e si spostarono nella sua direzione. Deflesse i primi colpi trattenendo il respiro, cercando di ricordare se, nella sua gloriosa carriera di mercenario, avesse mai fronteggiato nemici in grado di colpire con simile velocità oppure demoni così rapidi da spostarsi al calare dei suoi fendenti. Non trovando un ricordo simile decise di improvvisare.
Gli occhi gli caddero sulla spada del soldato esploso qualche istante prima.
Poteva solo scommettere, e detestò ammettere che tutto era nelle mani dell’inventiva di padron Vexen.
La lama della Masamune entrò nel campo energetico dello scudo deflettore.
Sentì un calore innaturale attraversare la spada ed arrivargli dritto nelle mani. Si impose di stringere l’elsa a costo di perdere le dita, spostandosi appena per evitare una seconda ed una terza raffica ma lasciando la lama dentro l’aria azzurra. Il n. IV dell’Organizzazione aveva temprato la Masamune contro le migliori magie, ma il soldato non aveva mai pensato che il ferro della propria arma potesse anche essere usato in quel modo. L’energia rovente si riversava sulla lama come un fiume in piena, riempiendola di sottili scariche che deformavano l’aria. Stava bevendo quell’energia, ma Auron non sapeva quando sarebbe arrivata al limite. Una stria rossa si propagò sul filo della lama.
Prima che potesse imprecare contro gli dèi la crepa si estese nel ferro e l’immagine del ragazzo ridotto ad un corpo fumante attraversò la sua mente.
Ma non fu la sua spada a scheggiarsi.
Il lampo di luce lo fece barcollare mentre in quel momento lo scudo deflettore si trasformò in un ultimo bagliore e si spense. Il campo energetico, ormai assorbito dalla Masamune, tremolò sotto i suoi occhi e svanì, lasciando il droideka indifeso. Senza nemmeno bisogno di imprimere forza al fendente la sua spada puntò al centro del nemico metallico, superando senza sforzo le due estremità dotate di armi laser. Colpì l’essere insettoide tra capo e collo e quello si trasformò in un groviglio di cavi, schegge ed altri componenti luminosi per cui non provava alcun interesse. Il “braccio” sinistro mirò al suo petto, ma prima che potesse vomitare laser si spense insieme al resto del corpo, mentre tra le mani del soldato la Masamune continuava a bruciare e pulsare, satura di energia: con un ultimo fendente tranciò di netto il suo avversario e mandò i resti a volare oltre i nemici, atterrando vicino all’umano spaventato che si era nascosto in un angolo della stanza. Gli altri due droidi distruttori cambiarono assetto e si appallottolarono una seconda volta, iniziando a girargli intorno; lo stesso fece un altro minuscolo drappello, attirati da lui come insetti su un fiore.
Respirò a fondo. La crepa sulla spada parlava chiaro. Non reggerà un secondo attacco …
“Grazie dell’intrattenimento, Auron!”
Sotto la barriera luminosa di Aban, Auron si accorse di essersi dimenticato di Matoriv. Il mago che negli ultimi tempi aveva trascorso molti giorni con Zachar in qualità di mentore emerse da sotto la cupola energetica, circondato dai giovani soldati che avevano innalzato i loro minuscoli scudi. Uno sguardo verso Aban ed i suoi occhiali appannati dal fumo delle esplosioni gli fece capire che ai suoi compagni non rimaneva molto tempo prima che anche la difesa creata dal soldato crollasse. Intuendo quello che stava per succedere, Auron si portò più vicino agli altri assicurandosi con lo sguardo che Mu fosse nell’angolo dove lo aveva lasciato; si limitò ad usare la spada per parare, anche se per poco non perse l’equilibrio quando un raggio laser lo colpì alla gamba sinistra.
Matoriv era al centro dello scudo, le mani unite come per raccogliere energia. “Visto che ormai la nostra copertura è saltata il nostro compito è tirarceli tutti dietro. Forse così gli altri potranno agire indisturbati”.
Auron stava per chiedergli di chi fosse la colpa se la loro copertura era andata a quel paese, ma si rimangiò tutto quando alla barriera di Aban si sommò lo scudo energetico prodotto dal corpo e dalle vesti di Matoriv. Il vecchio, quasi incurante dell’esercito dei distruttori intorno a lui, si rivolse ad uno dei soldati. “Ragazzo, sai darmi la definizione di mago?”
“Io …”
Qualunque cosa disse il giovane fu sommerso dal fragore degli spari e da un insulto volante di Aban.
“No, risposta sbagliata. Ti concedo un secondo tentativo!”
“Signore, io non credo di …”
“Uff, questi giovani d’oggi …”
La Masamune, ancora piena dell’energia del droideka, riprese a ronzare nel suo palmo mentre sottili scie di luce iniziarono a spostarsi intorno al corpo del vecchio incantatore, che aveva appoggiato per terra il suo bastone e fissava le macchine intorno a loro con un sorriso stampato in faccia. Un sorriso che Auron aveva imparato a riconoscere come chiaro segnale d’allarme che Matoriv stava per dar vita al suo spettacolo preferito. E che era di vitale importanza non trovarsi sul suo raggio d’azione. Matoriv non lanciava Crystal Wall.
“Dicasi mago non colui che sa usare la magia. O plasmare elementi. E nemmeno quell’eremita che si chiude in una grotta a mescolare pozioni. Quelle sono definizioni per novellini”.
Auron vide l’armatura bianca da assaltatore distruggersi, divorata dalla magia. Un braccio si ricoprì di fiamme dalla punta delle dita fino alla spalla. Nella mano sinistra Mera …
“Dicasi mago colui che, quando si trova circondato da nemici …”
L’altro braccio fu avvolto da schegge di giaccio così appuntite che lacerarono anche la tunica circostante. Nella mano destra Iora …
“… apre tra le loro fila UN BUCO GROSSO COSI’!”
Fu troppo per la Masamune. La magia nell’aria iniziò ad abbattersi su tutto ciò che trovava, ed Auron scagliò lontano la spada prima che le dita gli venissero ridotte in cenere dalla magia affamata e dal desiderio di potere dell’arma. Mu, molto più sensibile all’energia magica di lui, si lanciò a terra tenendosi la testa tra le mani imitato dagli altri soldati. Era una vera fortuna che i droideka non potessero percepire quello che stava avvenendo, ed i loro colpi continuarono ad abbattersi contro la barriera che circondava l’incantatore. Matoriv si sollevò in aria di poche braccia, quanto gli consentivano i suoi incantesimi, e rivolse le mani unite contro il punto in cui le macchine erano più numerose. “MEDROA!”
Non riuscì a sentire altro oltre il boato bianco.
C’era solo una sfera incandescente e gelata sospesa al centro del suo campo visivo, e l’aria era così infiammata da quel fuoco misto a ghiaccio che tremolava come fosse sott’acqua. Cercò qualche figura all’angolo dei suoi occhi ma tutto ciò che poteva vedere era marrone, come bruciato da quel sole artificiale. Anche il metallo era diventato scuro, sotto i suoi piedi il pavimento rispose bruciandogli la suola degli stivali e corse ancora più lontano dalla magia. Riuscì solo a vedere Aban disgregare il suo scudo protettivo e lanciarsi lontano dal suo compagno imitato dagli altri, poi le raffiche laser furono inghiottite da quella luce distruttiva, non esplosero ma morirono. Vide l’umano ancora ferito dal passaggio dei droideka cercare di rialzarsi, e con uno slancio prese la sua forma sotto il braccio e trascinò l’incosciente a terra, sapendo che il peggio doveva ancora venire.
Il globo luminoso si accrebbe fino a coprire l’intera figura di Matoriv, poi lasciò le sue mani. Le sue dimensioni aumentarono ancora, nutrendosi di qualcosa che senza dubbio era lì, nell’aria, nel metallo, nei cavi dei droideka e dei loro maledetti scudi deflettori. La prima linea, quella che fino a qualche istante prima aveva riversato i propri laser sul mago, sfrigolò come carne su dei carboni accesi: nel poco spazio concesso dalla luce Auron vide l’aria azzurra degli scudi trascinata via dalla magia, poi i corpi scuri diventare ancora più neri fino ad esplodere, a carbonizzarsi, alcuni semplicemente a svanire proprio nel punto in cui la sfera continuava la sua espansione affamata. Le macchine furono divorante nell’assoluto silenzio degli uomini e nel boato furioso dell’incantesimo liberato che chiedeva, urlava, cercava nemici da attirare a sé: e Matoriv gliene offriva come se nulla fosse, spostando le dita e dirigendo la fonte di potere dove desiderava, quasi ridotto ad un punto nero e verdastro oltre la luce abbagliante della magia.
Un drappello di droideka dell’ultima linea si chiuse su se stesso ed iniziò a rotolare lontano, ma la Medroa non ebbe alcuna pietà. Prese velocità come un freccia scagliata nel cielo e saettò verso di loro, divorando ogni singolo metro che separava il centro della stanza dalle uscite, risparmiando solo ed a fatica i punti in cui loro si trovavano a terra. Trasformò il tutto in una massa di raggi di luce, poi esplose.
Il fuoco che lo investì ebbe la meglio sull’armatura imperiale: anche se sfiorata leggermente questa prese a carbonizzarsi, e la sensazione che una stretta fredda ed una bollente stessero premendo contro le sue costole lo lasciò senza fiato. Si sforzò di premere tutto il proprio peso sull’umano accanto a lui anche a costo di spaccargli un paio di ossa, ed entrambi sbalzarono contro le porte dell’ascensore che l’attimo successivo si aprirono a metà ed esplosero nella conflagrazione mandandoli a cadere in una pioggia di schegge di transparacciaio e metallo fumante. Tutto il resto fu solo un dolore fortissimo contro il petto, l’aria che per un istante mancò nei suoi polmoni e la sensazione che quella magia stesse facendo di tutto per divorargli il corpo. Le sue orecchie si riempirono di un ronzio basso, che terminò in un velo nero davanti agli occhi e la sensazione di essere molto più leggero del solito.



Le esplosioni si protraevano ormai da mezz’ora.
Vexen riusciva a scorgere qualche sprazzo della battaglia dalle finestre del laboratorio: scie fumanti di velivoli abbattuti, il battito d’ali di una viverna, le sagome dei soldati del Fushikidan che le cavalcavano e il riflesso del sole sui loro elmi bruniti. Appena si soffermava anche un istante di troppo a guardare, però, i due demoni di guardia abbaiavano nella loro lingua gutturale e gli intimavano di non interrompere il lavoro. Allora tornava a chinarsi sui componenti dei Nuclei Neri, lanciando di quando in quando occhiate di sottecchi alle vetrate. Ogni tanto un colpo andato a segno provocava lievi vibrazioni lungo tutto il pavimento e le pareti del Baan Palace, ma gli scudi magici eretti dai demoni assorbivano senza danni il grosso dell’impatto. Almeno per il momento.
Far notare ai guardiani che fabbricare Nuclei Neri in quelle condizioni era un azzardo aveva più o meno lo stesso effetto che cercare di convincere Camus a bestemmiare. “Ordini dell’Arcivescovo Stregone”, era l’invariabile risposta, e l’ultimo tentativo di protesta gli era valso una scossa elettrica che ancora gli faceva pizzicare le punte delle dita. Decisamente la flessibilità e la capacità di adattarsi alle situazioni mutevoli non appartenevano al vocabolario dei demoni.
Poi si meravigliano di aver rasentato l’estinzione.
Era la prima volta che l’Impero arrivava a dare battaglia direttamente al Baan Palace. Vexen non era uno stratega, ma c’era qualcosa di innegabilmente strano in quella modalità di attacco: solo navi di piccola taglia, niente artiglieria pesante come sarebbe lecito aspettarsi da un assalto alla roccaforte principale del nemico. Almeno per il momento, lo scontro sembrava più simile a una scaramuccia che a una battaglia vera e propria. Il grosso della flotta imperiale doveva essere bloccato da qualche altra parte, alle prese con il Choryugundan probabilmente. Ma se anche uno solo di quelli che gli imperiali chiamavano “Star Destroyer” fosse arrivato fino a lì, Vexen non aveva il minimo desiderio di trovarsi preso nel mezzo. I suoi occhi continuavano a correre dalle finestre ai demoni di guardia, il Nucleo Nero sul tavolo fermo alla fase di connessione del cristallo catalizzatore da almeno venti minuti.
Dalla postazione di lavoro accanto, Camus sembrava condividere le sue preoccupazioni. La sua espressione tesa e concentrata non aveva nulla a che vedere con il Nucleo Nero davanti a lui; continuava a inserire e rimuovere lo stesso cristallo con un gesto meccanico, e anche lui approfittava di ogni distrazione dei loro carcerieri per gettare occhiate ansiose oltre le vetrate. Ogni tanto si voltava anche verso la porta del laboratorio e rimaneva immobile per una manciata di secondi, come se tendesse le orecchie per cogliere chissà quale rumore sconosciuto. Eppure fuori nel corridoio era tutto tranquillo.
La quarta volta che lo vide ripetere quel gesto lo interrogò con lo sguardo, corrugando lievemente la fronte. Camus abbassò gli occhi, apparentemente ignorandolo e chinandosi di nuovo sul Nucleo Nero, ma Vexen vide chiaramente la sua mano muoversi in un gesto rapido come a dire “dopo”.
Dopo cosa? Cosa sa questo maledetto prete che io ignoro?
Finse anche lui di concentrarsi sul lavoro e scrutò il sacerdote da dietro le ciocche dei suoi stessi capelli. Una gamba di Camus oscillava nervosamente sul posto, e la sua fronte era imperlata di sudore freddo.
Non può essere solo la paura della battaglia. È come se stesse aspettando qualcosa…
Quasi in risposta ai suoi dubbi silenziosi l’ennesima esplosione risuonò in lontananza, attutita dalle difese magiche del palazzo. Stavolta però non veniva da fuori. Veniva da oltre la porta del laboratorio.
I due demoni avevano iniziato a parlottare freneticamente tra loro. Uno aprì la porta e scambiò qualche parola con le guardie all’esterno in tono concitato. Vexen non capiva la loro lingua, ma l’agitazione era palpabile nelle loro voci. Qualcosa stava andando storto. Lo scienziato sentì il palato inaridirsi e il cuore salirgli in gola.
Tutto d’un tratto Camus lasciò perdere il lavoro e mosse qualche passo verso uno scaffale accanto alla finestra, senza mai staccare gli occhi dai carcerieri. Nessuno lo rimproverò. I demoni ora erano assiepati intorno a un Occhio di Zaboera che Vexen non aveva notato prima: lo tiravano per i piccoli tentacoli, lo scuotevano, uno di loro gli accarezzava la testa emettendo sibili preoccupati. Per un attimo la creaturina si volse nella sua direzione, e Vexen trattenne il fiato: dal suo enorme bulbo oculare era sparita la pupilla, completamente ricoperta da una patina opaca e lattiginosa.
Un altro boato si susseguì al primo, e stavolta il pavimento tremò talmente forte che lo scienziato dovette aggrapparsi al tavolo per non cadere. Vicino. Troppo vicino. Riguadagnò l’equilibrio e si precipitò a scagliare un incantesimo di ghiaccio verso le casse dove erano conservati i Nuclei Neri già pronti, e uno dei demoni gli diede addirittura manforte unendo la sua magia alla propria.
Improvvisamente mi date ragione, eh? Se non fosse stato sul punto di morire di paura ne avrebbe certamente sorriso. In pochi secondi i quattro contenitori furono interamente ricoperti da una spessa calotta di ghiaccio che avrebbe reso i Nuclei Neri inoffensivi a qualunque sollecitazione esterna. A meno che non saltasse in aria l’intero Baan Palace, ovviamente, ma a quel punto sarebbe stata la fine per tutti in ogni caso.
“Padron Vexen, prendo un po’ di estratto di lijada per rendere permanente l’incantesimo di congelamento?”
Vexen impiegò qualche istante a dare un senso alle parole dell’assistente.
Estratto di lijada? Avevi il cervello affumicato dall’ incenso mentre sprecavo tempo a insegnarti le erbe? Il pensiero gli morì sulle labbra prima di prendere forma in parole. Camus lo fissava intensamente, la mano già protesa verso lo scaffale dove erano allineate le boccette contenenti la lijada. Il distillato di quelle foglie rosse dalla forma simile ad ali di farfalla non aveva nulla a che vedere con le proprietà del ghiaccio.
Ma questo i demoni di guardia non potevano saperlo. Erano semplici guerrieri di basso rango, micidiali con gli incantesimi offensivi ma bravi a fare poco altro. L’Arcivescovo Stregone sarebbe stato in grado di fiutare l’inganno, ma il Grande Satana lo aveva mandato a chiamare non appena l’attacco imperiale era iniziato. Le parole di Camus erano un messaggio cifrato, diretto solo e soltanto a lui.
Vexen si avvicinò a un altro scaffale ed estrasse rapidamente una boccetta senza nemmeno leggere il cartiglio che la contrassegnava. Ormai conosceva a memoria la disposizione di ogni sostanza e strumento nel laboratorio di Zaboera.
“È un’ottima idea, Camus.”
Con un unico, fluido gesto della mano il sacerdote spazzò via dallo scaffale un’intera fila di boccette di lijada. I demoni sobbalzarono al fracasso di vetri infranti e imprecarono in direzione di Camus, mentre Vexen si affrettava a trangugiare in un sorso il contenuto della boccetta che aveva preso un attimo prima. Estratto di fiori di varin. Antidoto eccezionale contro gli effetti della lijada, uno dei sonniferi più micidiali di origine vegetale che il loro mondo potesse produrre.
L’estratto di lijada aveva una volatilità elevatissima, e nemmeno tutta la magia nel sangue di un demone minore poteva resistere a una tale quantità dei suoi vapori liberata istantaneamente nell’aria. Caddero uno dopo l’altro, i due demoni incaricati della loro sorveglianza, le guardie alla porta, persino il povero Occhio di Zaboera ormai cieco, senza nemmeno il tempo di emettere un solo verso d’allarme. Da fuori, oltre la porta socchiusa, grida soffocate e rumori di battaglia risuonavano sempre più vicini.
“Ora vorresti cortesemente spiegarmi COSA DIAVOLO STA SUCCEDENDO QUI?!”
“Non c’è tempo padron Vexen. Venga con me!”
Camus si era già tuffato a capofitto nella nube rossiccia dei vapori di lijada – doveva aver preso l’antidoto ore prima in previsione di quella mossa – e lo aveva preceduto nel corridoio vuoto voltando rapidamente la testa da una parte e dall’altra.
“Di qua, presto!”
Qua” era la direzione da cui provenivano i rumori dello scontro. Ora Vexen poteva sentirli meglio: gli sembrò di distinguere il clangore di armi metalliche, ma anche il crepitio tipico dell’evocazione di incantesimi. E urla, un intreccio cacofonico di urla confuse.
“Io non vado da nessuna parte se non mi spieghi cosa significa tutto questo!”
“Non è un attacco imperiale come pensano i demoni, padron Vexen” il sacerdote si era messo a correre verso la battaglia e Vexen non poté fare altro che seguirlo, imprecando contro nemmeno lui sapeva cosa. “Le astronavi fuori sono solo un diversivo, il vero obiettivo era entrare nel Baan Palace. Sono amici della Resistenza, padron Vexen. E sono venuti a salvarci.”
Un’altra persona avrebbe accolto la notizia con un grido di gioia. Avrebbe esultato, inneggiato alla Resistenza, gettato le braccia al collo di Camus per ringraziarlo di aver riacceso una speranza a cui ormai avevano rinunciato da troppo tempo. Era tutto talmente improvviso e inaspettato da non sembrare vero.
“La Resistenza… ovvero i tuoi amici preti e Auron?”
“Non di persona. Ma sono amici e alleati, possiamo fidarci di loro, padron Vexen.”
“E tu… per tutto questo tempo tu… alle spalle dei demoni… alle mie spalle… “
La sua voce vibrava di un’accusa immeritata, ne era consapevole.
“Potevi farci ammazzare!”
“Per questo non gliel’ho detto, padron Vexen!” il sacerdote rispose senza neanche voltarsi “se mi avessero scoperto sarei stato solo io a pagarne le conseguenze!”
“Certo, perché il Grande Satana avrebbe creduto che io non ne sapessi nulla! Un piano impeccabile! Ma chiaro, tu non ha neanche idea del rischio che ci hai fatto correre! E poi non vedo perché io dovrei fidarmi dei tuoi amichetti paladini della giustizia! Non li conosco neanche, e non ho alcuna intenzione di finire in un posto dove Auron… “
Camus arrestò la sua corsa e si voltò all’improvviso, e il suo solo sguardò bastò a troncargli le parole di bocca. Vexen si fermò dietro di lui e sussultò quando il sacerdote gli strinse affettuosamente il braccio, come per infondergli coraggio. “L’alternativa è rimanere qui, padron Vexen. Vuole davvero rinunciare alla libertà? Mi dispiace di averle mentito, ma ora le chiedo di avere fiducia in me. Non permetterò che le succeda nulla di male, glielo prometto. Mi prenderò tutti i pugni di Auron, se necessario.”
Stizzito, Vexen si divincolò dalla presa, ma come ormai gli accadeva fin troppo spesso non riuscì a sostenere lo sguardo limpido del sacerdote.
Mi sto comportando da idiota. Insieme a quella consapevolezza lo invase fortissimo il desiderio di schioccare le dita e congelare il suo assistente dalla testa ai piedi, lì sul posto, e insieme a lui il suo dannato sorriso patetico e buonista.
Un tempo non si sarebbe mai azzardato a fare di testa sua, o a prendere decisioni per me.
“Andiamo. Prima che ci trovino” si limitò a borbottare voltandogli le spalle. L’amara verità era che aveva perso il controllo. E Vexen detestava con tutte le sue forze non essere in grado di dominare tutte le variabili di un problema.
È questo che si prova a essere condizionati?
Svoltarono a destra al termine del corridoio e oltrepassarono un piccolo studio in cui gli scaffali rigurgitavano rotoli di pergamena senza miracolosamente incontrare nessuno. I suoni della battaglia ormai erano vicinissimi.
“La malattia dell’Occhio di Zaboera… “ sussurrò Vexen per spezzare la tensione “anche quella è opera tua?”
Ci aveva visto giusto. Solo gli dèi di Camus probabilmente sapevano dove il sacerdote avesse trovato il tempo e la tranquillità per lavorare su una coltura di batteri senza farsi scoprire dall’Arcivescovo Stregone e dai suoi scagnozzi. Doveva aver nascosto le piastre di vetro tra gli strumenti per la fabbricazione dei Nuclei Neri e proseguito con gli esperimenti ogni volta che Zaboera era assente o troppo occupato per badare a lui.
Senza ombra di dubbio, la cosa più irritante era che fosse riuscito a portare avanti un progetto simile alle sue spalle. E dire che, quando lo aveva preso al suo servizio quattro anni prima, quell’idiota non conosceva neanche la basilare differenza tra batteri e virus.
Il sacerdote aveva esposto periodicamente la coltura alla sua magia per modificare il codice genetico dei batteri, rendendoli innocui per l’organismo di umani e demoni ma dannosi per i piccoli e più fragili Occhi di Zaboera.
“Li ho iniettati nell’Occhio che usavo per comunicare con la Resistenza” spiegò. “E ormai dovrebbero essersi propagati a tutti gli Occhi di Zaboera del Baan Palace. Per ventiquattro ore circa saranno ciechi, non potranno comunicare tra loro né con altri Occhi all’esterno. Una volta terminato l’effetto non manifesteranno danni permanenti.”
“Per quanto mi riguarda potevi anche avvelarli tutti con il cianuro.”
“Ma padron Vexen, sono… “
“… esseri viventi, lo so, lo so. Ma toglimi una curiosità… “ sorrise “… i tuoi testi sacri cosa dicono riguardo al creare armi batteriologiche per far ammalare un’intera specie?”
Aveva colto nel segno, e lo sapeva. Camus chinò la testa, i lineamenti nascosti dai lunghi capelli azzurri, e non disse nulla. Il sorriso di Vexen si allargò, ostinandosi a ignorare la parte di sé che si sentiva orribile a torturare il sacerdote in quel modo.
“Se al tuo maestro Shaka danno tanto fastidio le formule chimiche chissà cosa avrà da dire su… “
Un boato più forte degli altri fece quasi perdere loro l’equilibrio. Si appoggiarono alle pareti, il fiato spezzato, le orecchie invase dal frastuono di armi e da urla di rabbia e dolore di cui ormai potevano distinguere ogni parola. Chiunque fosse venuto a salvarli non se la stava cavando troppo bene, e Vexen si maledisse ancora una volta per aver avuto fiducia nei piani di quel maledetto prete.
Si fecero forza e percorsero l’ultimo tratto di corridoio che li separava dallo scontro.
In un salone ricoperto di arazzi una decina di persone combatteva contro quelle che sembravano cinque grosse statue semoventi. Un paio di membri della Resistenza erano a terra, gli altri attaccavano senza sosta alternando armi bianche, armi da fuoco e incantesimi, ma il metallo di cui erano rivestite le statue scintillava come appena uscito dalla forgia e sembrava che nessuno dei colpi tentati dai ribelli potesse scalfirlo.
Gli amici di Camus invece avevano il fiato corto. I loro movimenti erano lenti, goffi, i colpi ormai stanchi e imprecisi. Tutti senza eccezione sfoggiavano una vasta gamma di lividi e contusioni, un elfo dai lunghi capelli biondi si stringeva contro il petto il braccio sinistro ormai inutilizzabile. Non avrebbero retto ancora a lungo.
“Bel salvataggio” commentò Vexen amaro.
Nessuno si accorse di loro finché un membro della Resistenza non fu scagliato proprio ai loro piedi dalla manata tremenda di uno dei mostri di metallo. L’uomo – un tizio dal fisico atletico con i capelli castani e un mantello verde – li fissò perplesso dal pavimento, poi il suo viso si aprì in un sorriso autentico e sincero malgrado il dolore lancinante che doveva provare in ogni fibra del corpo.
“La spia? Camus?”
Il sacerdote annuì e lo aiutò a rialzarsi.
“Mi dispiace… volevamo raggiungervi prima… il gruppo di Gandalf e Mara è diretto al nucleo del Baan Palace e sta tenendo occupato il grosso delle forze, credevamo di avere campo libero… “ una smorfia di dolore gli attraversò il viso nel momento in cui provò a poggiare il piede sinistro per terra. Dovette aggrapparsi a Camus e riprendere fiato prima di continuare. “Ma questi… guardiani… non riusciamo a metterli fuori uso. Nevius dice che sono costrutti animati dalla magia, ma parola mia, non ho mai visto un metallo così resistente, nemmeno il mithril… comunque… “ si sforzò di sorridere ancora “… il mio nome è Aragorn. Camus, a nome di tutta l’Alleanza Ribelle e la Resistenza, grazie. Grazie per quello che hai fatto per noi.”
“Dovete ringraziare gli dèi. Io non sono altro che un misero strumento nelle loro mani.”
“Queste creature piuttosto” tagliò corto Vexen osservando le statue di metallo scintillante. Ora che le esaminava meglio si rendeva conto che nessuna era uguale all’altra: una aveva la testa di un cavallo innestata su un corpo umano, un’altra era scolpita con fattezze femminili e brandiva una coppia di spade affilatissime, una terza era di statura massiccia, con il viso interamente celato da un elmo e due grossi scudi assicurati alle spalle e lunghi quasi quanto le sue braccia.
“Sembrano pezzi degli scacchi” commentò Camus, anticipando il suo pensiero.
“Niente sembra avere effetto su di loro, nemmeno la magia” Aragorn si voltò a guardare uno dei suoi compagni, un mago vestito di viola dai lunghi capelli castani che continuava a bombardare di incantesimi la statua con il viso di donna. Dalle sue dita eruppe prima il fulmine, poi in rapida sequenza una palla di fuoco, una serie di cristalli di ghiaccio, un’esplosione di luce. Poteva mettersi a lanciare coriandoli, e avrebbe ottenuto lo stesso identico effetto.
“Padron Vexen, che io sappia esiste un solo metallo capace di respingere la magia e di rimanere brillante malgrado sia sottoposto a sollecitazioni… “
“Olihargon” terminò Vexen per lui. Perché quel maledetto prete doveva sempre anticiparlo?
“Forse ho un’idea.”
Aragorn e Camus lo guardarono con i volti illuminati di speranza.
E questa è una cosa che non ti ho ancora insegnato, stupido prete. Guarda e impara.
“Ma dovrete coprirmi, e al mio segnale attirare gli scacchi nella mia direzione.”
“Nessun problema!”
Aragorn zoppicò sul piede sano e raccolse la sua spada da terra, posizionandosi tra loro e lo scontro e gridando qualche istruzione ai suoi compagni, che risposero con cenni affermativi e ripresero ad attaccare con più vigore.
“Sarò la vostra ultima linea di difesa” assicurò Aragorn. “Dovranno passare sul mio cadavere.”
Vexen frugò nelle tasche del soprabito dell’Organizzazione, ringraziando l’abitudine ormai pluridecennale di portare sempre e comunque un pezzetto di gesso o di carboncino con sé. Si inginocchiò sul pavimento nel punto in cui la sala degli arazzi si congiungeva al corridoio, valutando a colpo d’occhio distanze e misure, e messo in evidenza il centro con un segno a forma di X iniziò a tracciarvi intorno le prime rune e linee di connessione.
“Posso aiutarla in qualche modo, padron Vexen?”
“No.” Non sollevò nemmeno lo sguardo dal disegno che andava formandosi a spirali concentriche intorno alla X. Non aveva compassi o altri strumenti di precisione, perciò doveva fare affidamento solo sul suo senso per le misure e sulla fermezza della propria mano. Del resto non si trattava di un cerchio particolarmente complicato.
Era per quello che amava l’alchimia, forse più di qualsiasi altra disciplina che avesse mai studiato. Poteva generare veri e propri miracoli, ma non dipendeva dal sangue come la magia, non era legata al capriccio della sorte che al momento della nascita decretava esattamente quanto potenziale magico dovesse scorrere nelle vene di una persona. No, l’alchimia era cervello, inventiva, dedizione, conoscenza: chiunque poteva imparare. Chiunque avesse l’intelligenza necessaria, almeno.
Camus non insistette oltre e andò ad affiancare Aragorn, evocando una barriera di stalagmiti ghiacciate davanti a loro come ulteriore protezione. Ecco bravo, torna a occuparti della manovalanza.
Chiuse il cerchio con un arco perfetto, poi passò a disegnare il più piccolo cerchio di attivazione, a qualche metro di distanza lungo il corridoio. Teoricamente poteva controllare la trasmutazione anche dal cerchio principale, ma meglio mettere tutta la distanza possibile tra sé e quei bestioni di olihargon.
Tracciò per ultima la linea di connessione tra i due cerchi, affiancandola da tre coppie di rune catalizzatrici.
“Ora!” gridò per farsi sentire oltre il frastuono dello scontro. “Attirateli nel cerchio grande, e cercate di non farli uscire da lì!”
Come un sol uomo i membri della Resistenza iniziarono ad arretrare verso il fondo del salone.
“Avanti bellezza!” il mago vestito di viola – un tale Nevius, a giudicare dalle grida di Aragorn - provocò la regina degli scacchi con una serie di piccoli dardi magici sparati a ripetizione dalle dita.
“Vieni a prendermi!”
Il costrutto sembrò infuriarsi e menò una serie di fendenti con le spade di olihargon, ma Nevius non interruppe il bombardamento e indietreggiò saltando fino ai limiti del cerchio.
In ginocchio sul pavimento del corridoio, Vexen appoggiò le dita lungo il bordo del cerchio di attivazione e attese, gli occhi fissi sulle creature di olihargon.
Le rune e i cerchi servivano a incanalare l’energia. Costituivano il tramite fisico, l’insieme di regole, il codice che traduceva gli ordini da trasmettere alla materia oggetto di trasmutazione. Erano necessari, ma da soli non bastavano a generare una reazione alchemica. Potevano essere disegnati in maniera impeccabile, sembrare autentiche opere d’arte in alcuni casi, ma rimanevano ghirigori inerti senza la mano e la mente di un alchimista ad attivarne il potere.
La mente era la chiave. La conoscenza della materia e delle sue leggi di composizione, e la volontà di piegarle al proprio controllo.
“Qualsiasi cosa tu debba fare, falla adesso!” gli gridò Aragorn. “Non reggeremo ancora per molto!”
Non era ancora il momento. Camus e gli altri erano riusciti a circondare gli scacchi e a stringerli all’interno del cerchio, con il sacerdote e Nevius che ora evocavano stalagmiti su stalagmiti per tenerli bloccati il più a lungo possibile: ma i piedi del cavallo erano ancora fuori dal cerchio, malgrado un guerriero dalla spada luminosa lo incalzasse da vicino tentando di spingerlo accanto agli altri.
“Padron Vexen, presto!”
Un pugno della torre mandò in frantumi un’intera linea di stalagmiti, e avrebbe schiacciato anche Camus se Aragorn non lo avesse spinto dietro di sé, parando il colpo con la sua lama. L’impatto fu tremendo, spinse Aragorn in ginocchio strappandogli un acuto urlo di dolore. La sua spada doveva essere magica se poteva resistere senza un’incrinatura a un colpo di quella potenza. Dalle spalle del guerriero Camus si rialzò e fece sorgere dal pavimento un’altra linea di stalagmiti, mettendo Aragorn al riparo dal successivo attacco della torre. Nevius scagliò un’onda di energia magica verso una colonna su un piedistallo e la mandò ad abbattersi dritta sulla testa del bestione.
Non lo avrebbero trattenuto a lungo.
“Lupo Solitario!” gridò Aragorn. “Non importa come, ma porta qui quel maledetto cavallo!”
Il guerriero con la spada luminosa lasciò cadere a terra l’arma. Si lanciò in avanti a braccia tese, e di fronte a una mossa così assurda persino la coscienza limitata e artificiale della bestia di olihargon dovette provare qualcosa di simile allo stupore, perché si arrestò di colpo con un braccio sollevato. Lupo Solitario si buttò con tutto il suo peso contro le sue gambe, avvinghiandole nella sua presa e riuscendo miracolosamente a sbilanciarlo all’indietro. Vexen rabbrividì al rumore di ossa frantumate quando il cavallo calciò via l’aggressore mandandolo a rotolare sul pavimento. Un paio di voci adolescenti gridarono all’unisono, in preda al dolore: “Maestro Lupo!”
Un giovane biondo corse a soccorrere il guerriero caduto, prendendolo tra le braccia. Respirava ancora. Il suo sacrificio non era stato vano: per recuperare l’equilibrio il cavallo era indietreggiato di un paio di passi, quel tanto che bastava ad entrare a contatto con la linea più esterna del cerchio. Era sufficiente.
Vexen chiuse gli occhi e posò i palmi sul cerchio.
Animate dal suo tocco, le rune, le curve e le linee brillarono di una luce così intensa da avvampargli sul viso anche dietro le palpebre chiuse. L’energia bianca e luminosa della reazione alchemica si propagò dal cerchio piccolo a quello principale e avvolse umani e statue di olihargon fino a rimbalzare sfolgorando contro il soffitto. Non aveva bisogno degli occhi per sentirla piegarsi docile e obbediente al comando della sua volontà.
Focalizzò l’olihargon nella mente. Le proprietà fisiche, la composizione chimica, le caratteristiche che lo rendevano il metallo indistruttibile e splendente che era. Esplorò i legami tra gli atomi e le molecole, saggiò la loro resistenza e individuò le crepe, i punti vulnerabili nella sua architettura, i varchi che la sua mente poteva sfruttare per condurre l’attacco. Forgiò il suo pensiero come un’arma e colpì con la violenza di un maglio da fabbro e la precisione di una punta di diamante. Spezzò, recise, infranse senza pietà.
Poi raccolse i frammenti e ordinò alla materia di mutare.
Quando riaprì gli occhi la luce e il calore erano svaniti, e gli stupefatti membri della Resistenza si ritrovarono a brandire le loro armi contro cinque ridicoli burattini di latta.
Un paio di minuti dopo era tutto finito.
“Stupefacente… “ il mago di nome Nevius accostò con cautela il piede alla testa recisa del cavallo. Dallo sguardo incredulo pareva che temesse che il pezzo di latta potesse saltargli addosso all’improvviso. “Non avevo mai visto questo incantesimo… “
“Nessun incantesimo” Vexen si rialzò scuotendosi la polvere dai pantaloni. “Solo una semplice trasmutazione alchemica.”
I membri della Resistenza si occuparono dei loro feriti. Era un bene che tutti fossero ancora in grado di camminare, persino Lupo Solitario che per sua fortuna indossava una cotta di mithril sotto la tunica e se l’era cavata solo con un braccio rotto. Dovevano allontanarsi in fretta. Rumori di battaglia provenivano adesso sia dall’esterno che da qualche parte verso il centro della fortezza – almeno così assicurò l’elfo del gruppo grazie all’udito sopraffino della sua specie – ma avevano attirato troppo l’attenzione, e presto i demoni sarebbero accorsi in forze anche per loro.
Stavano per ripartire quando Vexen si accorse che un giovane della Resistenza – lo stesso biondo che aveva soccorso Lupo Solitario – non staccava lo sguardo da lui. Non doveva avere più di diciotto anni anche se era basso di statura; indossava la stessa tunica verde con mantello del suo maestro e i suoi occhi gli ricordarono quelli di Camus, grandi, azzurri, animati da un inconfondibile scintillio di ingenuità. Teneva la bocca lievemente socchiusa e lo fissava corrugando la fronte.
Gli restituì uno sguardo perplesso.
“Qualcosa non va?”
“Non è possibile… sei tu… “
Il ragazzo si avvicinò di un paio di passi, e lo scienziato di colpo ricordò dove aveva già visto quegli occhi.
“Non mi riconosci… Vexen?”
  
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