Capitolo 12
“Quindi, ora sei a tutti gli effetti un Dottore in
Ingegneria!”
John serrò la mascella al sentire quel nominativo che per
lui aveva un volto effettivo al quale accostarlo. Clara scostò lo sguardo ed
annullò il sorriso dolce che le illuminava il viso sin da quando si erano
incontrati:
“Scusami… ho scelto la parola meno opportuna…”
“Tranquilla. Ormai è passato tanto tempo.”
Mentiva. La ferita bruciava ancora. Ardeva, faceva male, suppurava
sin da quando si erano rivisti. In realtà sin da quando gli occhi di John si
erano posati in quelli azzurri ed innocenti del bimbo seduto in grembo alla sua
Ragazza Impossibile. E John in quel momento odiava tutto. Soprattutto odiava se
stesso per averla mandata via due anni prima, per non riuscire a distogliere lo
sguardo dal piccolo e sentirsi male nel considerarlo un ‘prodotto ignobile
della natura’ invece di un piccolo innocente.
Eppure, nonostante il suo sguardo fosse diretto più al
bambino che a Clara, John non era riuscito a trovare una somiglianza con lei.
Ogni tratto di quel bambino, compreso il broncio naturale del suo viso, non
facevano altro che ricordargli suo padre.
Clara forse non si era accorta a cosa o chi le attenzioni
di John erano rivolte, concentrata sul tenere il ferma-tovaglioli lontano dalle
piccole mani di quell’innocente dopo che ne aveva tirato dall’interno almeno
una decina.
Avevano avuto comunque il tempo di ordinare, prima che
Clara fosse costretta a tirar via dalla borsa le tovagliette imbevute con le
quali pulire le mani del piccolo che, non contento del gioco ‘tira il
tovagliolo’ aveva deciso di sporgersi e rovesciare il cappuccino di John sul
tavolo. Almeno i tovaglioli tirati via in precedenza si erano dimostrati utili…
“Scusami… è che non gli piace stare fermo in un posto.”
John sorrise amaramente, riscontrando una ennesima
somiglianza, mentre aiutava Clara a pulire il casino sul tavolo.
“Quanto ha?”
“Diciotto mesi.”
Un anno e mezzo. John strabuzzò gli occhi mentre la sua
mente cominciava a fare automaticamente dei calcoli… non tornavano. Due anni
distanti. Un anno e mezzo. Questo significava che… i conti decisamente non
tornavano. O tornavano nel modo sbagliato! In un modo che lui non voleva
credere fosse possibile, non doveva essere possibile perché faceva ancora più
male!
Avrebbe voluto
parlare, chiedere altre informazioni ma le parole non gli uscirono.
Il silenzio che si era creato sembrò infiltrarsi tra loro
come un parassita fastidioso. John avvertì un’ondata di fuoco che gli bruciava
lo stomaco finchè non udì nuovamente la voce di Clara:
“Ancora non parla, non perchè non è capace ma perchè non vuole. E di solito con gli estranei è… più timido. Devi
proprio piacergli!”
A quelle parole l’espressione di John divenne perplessa,
lasciandogli trovare il coraggio di parlare:
“Davvero? Mi guarda imbronciato… avrei detto il contrario.”
Clara si lasciò scappare una risata sincera continuando:
“Proprio per questo! Di solito tende ad ignorare i nuovi
volti per poi dimenticarli! Con te invece è diverso, ti guarda fisso. E sono
convinta che entro la fine della giornata sentirai anche la sua voce.”
John aggiunse un ennesimo tovagliolo per asciugare
l’ultimo residuo di cappuccino sfuggito alla precedente azione di pulizia; inavvertitamente
sfiorò con la sua mano quella di Clara, intenta a mettere da parte la tazzina da
caffè ormai vuota, prima di tirarla rapidamente indietro come se fosse stato
scottato. Ma Clara sembrò accorgersi del suo disagio, smettendo di respirare
nell’udire le successive parole del giovane:
“Avrà preso dal padre… sarà il richiamo del sangue.”
Clara corrucciò lo sguardo increspando le labbra nel
tentativo di capire il senso delle parole di John. Gli appariva confusa,
palesemente sorpresa quando i suoi occhi si spalancarono, come se finalmente
avesse inteso.
“John… lui…”
“Non mi hai detto come si chiama.”
Le sorrise, sospirando e tendendo un dito verso il
piccolo senza lasciare che Clara continuasse. Il piccolo guardò John negli
occhi, allungando timido la manina verso l’indice del giovane, avvolgendola
attorno alla punta; poi tirò la mano di John portandosi il suo dito in bocca.
John sorrise. E questa volta era un sorriso sincero.
Il cuore sembrò tremargli. E fu quello il momento in cui finalmente
trovò la somiglianza che tanto cercava in lui. Sapeva dargli emozioni come solo
sua madre era in grado di fare.
Passato…
Infine, era tornato a casa un giorno in cui era sicuro
non ci fosse nessuno in giro.
Aveva lasciato nuovamente la moto in garage, tirando
fuori il suo kayak blu con la scritta TARDIS sulla punta.
Lo aveva caricato sul portapacchi, sul tettuccio della
macchina, e lo stava assicurando con le corde quando il cuore cominciò a
battergli improvvisamente nel petto, mozzandogli per un attimo il respiro. Ne
capì il motivo quando, voltandosi per istinto, vide suo padre sul portico che
lo guardava dalla distanza.
Il richiamo del sangue, pensò sarcastico.
John incupì lo sguardo, tirando una estremità delle
fibbie di fissaggio per assicurare al meglio il carico.
“Johnny… dove vai?”
“Parto, non vedi?” La voce incolore, quasi meccanica e
priva di ogni emozione. Suo padre capì che John aveva chiuso il suo cuore anche
e soprattutto a lui. Il Dottore gli si era avvicinato, pur lasciandogli il suo
spazio di manovra.
“Per dove?”
John non avrebbe voluto rispondergli, avvertendo
un’improvvisa ondata di fastidio salirgli dallo stomaco. Un’ondata di fastidio
che lentamente si stava gonfiando dentro di lui come una bolla e che, quasi
sicuramente, sarebbe esplosa in una rabbia profonda.
“Che ti frega?”
“John. Sono pur sempre tuo padre e voglio sapere se
starai al sicuro.”
John tirò l’ultima cinghia, forse con eccessiva forza
facendo avvertire uno scricchiolio proveniente dall’attrezzatura da kayak che
aveva appena fissato. Sospirò esasperato, voltandosi infine vero di lui
ingiuriando:
“Quando ti fa comodo lo sei, vero? Per altri casi invece
si può sorvolare sul particolare!”
Sapevano entrambi a cosa si riferiva con quelle parole.
Ma il Dottore continuò a fissarlo serio senza indietreggiare ne abbassare lo
sguardo. John raccolse il borsone con gli abiti di ricambio dal selciato e lo
caricò nel bagagliaio continuando:
“Scozia, giro dei fiumi. Poi le alpi Francesi o Italiane,
forse Austriache… non ho deciso. Forse invece uso finalmente il passaporto e me
ne andrò in Nuova Zelanda… è da vedere.”
Il Dottore sospirò, tirando fuori dalla tasca la carta di
credito porgendola a John. Il giovane lo guardò freddamente rispondendo:
“Non ne ho bisogno. Ho ricevuto lo stipendio dall’Ingegnere
capo. A me stesso ci penso io.”
Il Dottore lo ignorò, aprendo lo sportello al lato del
guidatore e, aprendo la visiera parasole posò la carta di credito nel ferma
carte all’angolo dicendo:
“Sta attento. Non stare da solo in fiume. Fammi stare
tranquillo.”
Perché? Perché, John si chiedeva, quell’uomo continuava
ad occuparsi di lui, continuava a mettere a dura prova il suo orgoglio, la sua
rabbia, tutte le sue emozioni? Non poteva semplicemente stargli lontano e
lasciarlo in pace?
John non sapeva dire se la sua fosse una crisi
adolescenziale scoppiata con quasi quindici anni di ritardo o semplicemente
astio represso per un padre assente fisicamente. Lo aveva giustificato per
troppi anni, compreso per troppi anni…
Poi John realizzò una cosa: che non odiava nemmeno suo
padre, ma odiava se stesso. Perché in realtà suo padre si era sempre occupato
di lui, delle sue esigenze, dei suoi bisogni. Lo aveva sempre spronato,
supportato, fatto sentire speciale; non gli aveva mai fatto mancare niente
finchè non gli aveva portato via Clara. E quel pensiero bastava ad annullare
tutti gli anni passati, a spezzare il legame di sangue che li univa… Clara,
Clara, Clara! La sua Clara!
“Quando torno, se torno, non voglio trovarti qui.”
Il volto del Dottore si contrasse in una smorfia di
dolore, ma John finse di non vederlo. Salì al lato guidatore, mise in moto
l’auto e partì. Senza ancora una meta precisa, ma tanti pensieri da affogare e
lasciar scorrere via nelle fredde acque dei fiumi scozzesi.
“Pronto?”
“Eleven...”
Il cuore gli si fermò un millesimo di secondo prima di
fargli male, stretto in una morsa crudele, in una presa spinosa e serrata.
“Clara...” Un sussurro senza fiato, più simile ad un
gemito di agonia. Avvertì il corpo attraversato da un formicolio fastidioso che
lo spinse istintivamente a mettere la freccia per potersi fermare nella prima
area di sosta possibile: “cosa vuoi?”
“Voglio parlare. Per favore, voglio spiegarti....”
John accostò finalmente, fermando l’auto e portando la
fronte contro il volante chiuse gli occhi:
“ Spiegarmi cosa? Come sei finita a letto con mio padre?”
La interruppe con un ritrovato vigore ed un tono duro che non poteva essere il
suo. Clara si gelò prima di cominciare a tremare nel corpo e nella voce. Al di
là del telefono, John poteva accorgersi però solo del secondo particolare:
“Io... non sono andata a letto con lui...” Una nota
incerta nella voce della ragazza convinse ancora di più John del contrario:
“Sei una pessima bugiarda. Me ne accorgo quando menti,
Clara.”
“Non ho fatto sesso con lui!” E questa volta il tono di
Clara era più sicuro e deciso, quasi convincente:
“John, devi credermi.... io voglio stare con te. Io amo
te!”
“Forse é vero, forse no. E forse... forse non mi basta.
Perché ami anche lui. E lui ama te. Non ci posso convivere con questo.” Sospirò
ascoltando il silenzio tra loro prima di continuare:
“Sai, ho creduto che tu potessi salvarmi. Ho voluto
fidarmi di nuovo, innamorarmi di nuovo ed é stato....meraviglioso in un certo
senso e terrorizzante allo stesso tempo. Ed era eccitante, mi hai fatto sentire
di nuovo vivo. Mi hai resuscitato, Clara...” e poteva sentire il principio di
un singhiozzo dall’altro lato, Clara non riusciva a parlare e lui continuava:
“… ma mi hai anche ucciso. Mi hai dimostrato che alla fine non eri tu ad avere
ragione ma io: non mi é concesso di essere felice. Non potrò mai più fidarmi,
non potrò mai più innamorarmi. Di nessuno. Non più di te, di certo.”
“John… ti prego, ho bisogno di vederti, di stare con te…
non mandarmi via…”
I singhiozzi di Clara si erano fatti più intensi,
accompagnati da parole incomprensibili che potevano essere scuse, suppliche o
negazioni. John non sapeva dirlo, ma con fredda sorpresa scoprì che non gli
importava:
“Clara, io ti lascio andare. Mi hai tolto tutto: ogni
sentimento, ogni forma di amore.” Gli aveva sradicato dal cuore anche e
soprattutto l'amore per suo padre :
“Non voglio più vederti, non voglio più sentirti... per
favore, non chiamarmi più, non costringermi a bloccarti o cambiare numero. Addio
Ragazza Impossibile. Mi mancherai.”
Staccò la telefonata senza aspettare una risposta. Mise
il telefono in tasca e volse lo sguardo al cielo con la mente vuota da qualsiasi
pensiero ed il cuore di ghiaccio privo di ogni emozione. Un formicolio nuovo ed
anomalo gli percorse la pelle lasciando il corpo in una sorta di torpore. Avviò
nuovamente il motore dell' auto sorridendo inespressivo alla strada, lo sguardo triste, e
nella mente l’immagine di se stesso che percorreva il letto vorticoso di un
fiume.
***
Lo lasciò entrare, perché non poteva fare altro.
John era andato via, l’unico che invece sarebbe dovuto
restare. Loro due invece erano alle prese con i loro sensi di colpa ed i
rimpianti. Forse era un pensiero comune quel ‘e se invece’ silenzioso che si
insinuava tra le sinapsi, penetrava nel sistema nervoso e guidava i gesti. Non
sapevano dirlo con certezza. Così come non sapevano dire come di preciso erano
finiti in camera da letto, Clara schiacciata tra lui ed il materasso, la
camicia del Dottore sbottonata, i fianchi di lui incastrati in quelli di lei.
I respiri si scontravano, violenti. I baci erano duri e
sapevano di rimpianto. Il corpo di Clara tremava, con la consapevolezza assurda
che non era il bisogno ad unirli in quel momento ma la disperazione. Perché John non c’era per
nessuno di loro e, in qualche modo, lo cercavano l’uno nell’altra.
Avevano rinunciato al ‘noi’ e per cosa? John era andato
via lo stesso. John aveva deciso di estrometterli dalla sua vita, di spezzare
il legame paterno, di non amare Clara… e allora perché resistere ancora? Perché
respingersi ancora? Che senso aveva continuare a reprimere le emzioni?
Le carezze si alternavano a baci sempre più amari, con il
timore intenso di raggiungere e sfiorare posti più intimi man mano che gli
strati di tessuto sui loro corpi si annullavano. La pelle bruciava, ma il fuoco che li divorava
dall’interno era più intenso delle fiamme dell’ Inferno.
I corpi ricoperti di uno strato di sudore freddo
accompagnato da una strana foschia che annebbiava lo sguardo. Una nebbia rossa
che li circondava come un’illusione, un’allucinazione folle che dava a Clara la
sensazione di essere immersa nel cratere di un vulcano, con i fumi di zolfo a
stordirla ed il ribollire della lava incandescente sotto di lei che la bruciava.
C’era qualcosa di sbagliato in tutto questo, e lo sapeva.
Lo sentivano entrambi. Eppure le mani di Clara si insinuarono oltre il bordo
dei pantaloni del Dottore, raggiungendo velocemente il bottone sul davanti.
Quelle di lui si insinuarono invece sotto l’orlo del reggiseno, ma se ne tirarono
rapidamente via quando la punta delle dita sfiorò la morbidezza delle curve del
seno. Sgusciarono via come fossero state ferite, come fossero state ustionate da
un fuoco gelido, attraversate da un formicolio doloroso; gli sembrava di aver
toccato dell’acido, bruciava, eppure non riusciva a fermarsi, reagendo
d’istinto e spingendo ancora se stesso contro di lei.
Un gemito lasciò le labbra di entrambi, quando le loro
intimità si scontrarono con i vestiti ancora ad impedirgli di unirsi.
Le labbra si sfioravano, combattevano tra loro gonfie e
disperate. I loro sguardi incatenati erano la loro condanna, così magnetico
l’uno per l’altra da impedirgli ogni volontà di movimento volontario, lasciando
che solo l’istinto li guidasse; desiderosi di unirsi in quell’unico corpo, più
uniti di quanto in realtà non fossero mai stati, crogiolandosi nei fumi del
piacere e del calore di ciò che gli bruciava la pelle; i cuori indomiti
sembrava volessero esplodere, battendo fragorosamente l’uno contro l’altro
alternando pause e cadenza in un’unica melodia nei loro toraci ormai nudi che si
toccavano.
Le gambe di Clara avvolte attorno ai fianchi del Dottore,
le mani di lui ad alzarle l’orlo della gonna mentre lei gli tirava giù la zip e
gli spingeva via con forza i lembi dei pantaloni dai fianchi.
Gli occhi di Clara erano diventati due pozze scure, nel
cui calore però era dolce affondare. Quelli del Dottore, invece, erano
diventati l’oceano burrascoso di una grigia giornata di pioggia autunnale dalle
cui onde però era dolce farsi cullare. Un’oscurità profonda nella quale Clara
si sarebbe abbandonata volentieri, senza paura, quegli occhi che tanto, troppo
le ricordavano John.
Fu quel breve pensiero a farle battere le ciglia. Un solo
millesimo di secondo senza contatto visivo che indusse anche il Dottore a
realizzare la complicazione degli eventi che sarebbero derivati dal loro
rapporto.
“Clara… fermami…” Col corpo che si muoveva autonomamente,
oscillò contro di lei per un istinto che non riusciva a fermare da solo:
“ …per favore... fermami…”L’uomo affondò disperato il
volto contro il collo di lei, baciandone la pelle con dolcezza e continuando a
pregarla di fermarlo:
“… questo non è giusto…”
Avvertendo la durezza del Dottore che continuava a
premersi contro di lei, Clara soffocò un gemito incontrollato, finendo con
l’ingoiarlo dolorosamente mentre cingeva la testa del Dottore con le sue
braccia. Stese le gambe, lentamente, lasciando la sua presa sui fianchi
dell’uomo in un poco utile tentativo di allontanare il contatto tra le loro
intimità, ma avvertendolo ancora più duro contro il suo osso pelvico ed il
desiderio insoddisfatto che si contorceva alla base del ventre la torturava di
più.
Clara strinse l’abbraccio, ingoiando un ennesimo gemito,
stavolta però di dolore. Non fisico, ma dell’anima:
“Va bene. Va tutto bene.” E nel frattempo, portò le dita
ad intrecciarsi tra i riccioli grigi dell’uomo ad accarezzarlo: “ E’ sbagliato…
lo so anch’io. Va bene così.”
Il Dottore sospirò quasi sollevato. Sciolse lentamente la
presa delle sue mani sul corpo di Clara, carezzandole prima i fianchi per poi poggiarsi sugli avambracci ai lati di
lei, iniziando un tentativo di spostare il suo peso incombente e lasciarla
libera. Si ritrovò invece le mani tremanti di Clara a prendergli il viso ed
incatenare di nuovo i loro sguardi, prima di farle scivolare dietro la sua nuca
e spingerlo nuovamente contro di se. Le braccia avvolte attorno alla testa di
lui, col viso del Dottore sprofondato contro il suo collo.
“No… non muoverti. Voglio sentirmi il tuo peso addosso.
Per favore. Solo questo. Dammi solo questo.”
L’uomo non protestò, arrendendosi all’abbraccio della
ragazza. Limitandosi semplicemente a spostare i suoi fianchi da quelli di lei e
posarsi invece accanto,fianco contro fianco, premendo il bacino contro il
materasso.
I loro corpi erano finalmente fermi; freddi in superficie,
bruciavano all’interno per un desiderio doloroso, represso e non consumato. Un
desiderio sbagliato che ben presto si trasformò in un disagio nauseante per
entrambi. Le lacrime del Dottore si mescolarono con il velo di sudore che
ricopriva in piccole perle salate la pelle giovane di Clara, o forse erano le
lacrime della ragazza che, dai suoi occhi, scendevano lungo il collo e
raggiungevano il viso di lui.
Rimasero così, stretti in un disperato abbraccio nel
tentativo di farsi forza a vicenda.
Poco importava se l’erezione dell’uomo premuta contro il
materasso rientrava lentamente e provocava una compressione fastidiosa che gli
doleva notevolmente nel bassoventre. Poco importava se i loro respiri
faticavano a stabilizzarsi, scossi da lacrime inespresse per troppo tempo.
Ancor meno importava che il peso di lui le impedisse di respirare correttamente.
In loro vi era la necessità di prolungare quell’attimo, il bisogno impellente
di bruciarsi all’infinito. Per Clara, la sensazione inebriante di sentirsi
mancare il respiro con la sua sola vicinanza, sentirlo tremare contro di se.
Condividere un dolore che nessun’altro nell’Universo intero avrebbe mai potuto
comprendere.
In quell’abbraccio, in quel contatto più intimo di un
qualsiasi tipo di rapporto sessuale, entrambi trovarono la risposta al loro dolore.
John aveva riempito le loro vite e le aveva svuotate. Nessuno nell’Universo
avrebbe potuto sostituirlo, nemmeno l’uno per l’altra potevano compensare quel
vuoto lasciato.
Nella penombra della stanza si udivano solo gemiti di
pianto soffocato; solo dopo quelle che sembrarono ore i respiri divennero
regolari e gli occhi, incrostati di lacrime secche, si chiusero di stanchezza.
Il mattino si era presentato con nubi scure e la pioggia
battente che si frantumava contro il vetro della finestra. Gli oscuranti
lasciati aperti la sera prima lasciavano intravedere il cielo plumbeo di Londra
ed il vento che soffiava via foglie secche e la spazzatura dei mercati del
quartiere.
Clara aprì gli occhi, trovando il Dottore accanto a lei,
steso a pancia in su, le mani unite dietro la testa, intento a guardare concentrato
il soffitto.
“Buongiorno…”
“Buongiorno dormigliona. Come stai?”
“Non lo so. Un po’ frustrata, forse…” Lei si stiracchiò,
sospirando pesantemente. Lui invece si lasciò scappare una leggera risata capendo
il senso di quelle parole:
“Già. Ti capisco.”
Clara si mosse nel letto, girandosi di fianco per poter
guardare meglio l’uomo. Non provava imbarazzo, ma una strana sensazione di
familiarità ed un po’ di nostalgia. Tanta nostalgia.
“Sei sveglio da molto?”
“Si.”
“Sei rimasto…”
“Si.”
“Perché?”
“Perché…” Il Dottore sospirò: “ Ho pensato fosse
maleducato andare via senza salutarti. Per la seconda volta.” Le sorrise senza
guardarla.
“Non devi andare via.”
“Si, invece. Devo finire di preparare i bagagli.”
“Intendevo… non hai più bisogno di partire. Non devi più
andare via.”
“Si invece. Non vado via per John o per te. Vado via
perché è quello che sono, te l’ho già detto.”
Clara tirò un po’ le ginocchia verso il corpo,
chiudendosi quasi in una posizione fetale e finendo con il sfiorare il fianco
della gamba dell’uomo. Avvertì un sussulto del corpo di lui, ma non si tirò
indietro dal lieve contatto delle loro pelli.
“Mi dispiace. E’ che… so di aver rovinato tutto. Ho
distrutto la tua famiglia e non era quello che volevo.”
“Clara… non è colpa tua. Almeno non è solo colpa tua. E…
pensavo potessimo provarci, io e te…”
“Anch’io. Ma non funziona, vero?”
“No.”
“Sai, non mi dispiace. Nel senso, ci sto bene con questo;
il non noi intendo.”
“Già… in un certo senso anch’io. Quello che provo per te
resta, però. Ed è strano.”
“E’ lo stesso per me. Ma so anche che se ti amassi
completamente sarebbe come ieri sera, non lo sentirei giusto e so che per te è
lo stesso.”
“Si… vorrei poterci provare, però.”
Quelle parole aleggiarono tra loro come libellule dal volo
irregolare e nervoso, nuotavano nel denso silenzio che si era creato e gelava
l’aria. Nemmeno i loro respiri si sentivano, nonostante il torace del Dottore
si alzasse ed abbassasse regolarmente.
Infine, Clara si costrinse a portarsi lentamente seduta, stringendo
il lenzuolo con le mani davanti a se per coprirsi in un improvviso e ritrovato
pudore, cambiando totalmente discorso:
“Vuoi fare colazione?”
“Posso usare prima la doccia?” Lui semplicemente rispose,
chiudendo gli occhi.
“Certo. Non devi mica chiedermelo. Preparo qualcosa da
mangiare, nel frattempo.”
“Va bene.”
Clara si alzò dal letto, indossando una t-shirt presa a
caso dalla sedia finita chissà come accanto al letto e si diresse verso la
porta. Il Dottore rimase sdraiato sotto le lenzuola continuando a guardare il
soffitto come se fosse la cosa più interessante del mondo. Poi quando Clara
aprì la porta della camera per uscire in corridoio il Dottore la richiamò:
“Clara.” Si voltò a guardarla nell’esatto momento in cui
anche lei si voltò a guardare lui. Le sorrise continuando: “Sai… puoi
continuare a stare a casa, se vuoi.”
Casa Smith. Clara lo aveva capito. Guardò verso la
finestra scuotendo dolcemente la testa rispondendo:
“No. Dopo le vacanze l’Università mi darà un appartamento
provvisorio. A Maggio mi laureo e… poi chissà. Comincia una nuova vita. Forse
insegnerò in qualche scuola privata, per cominciare.”
Il Dottore la guardò senza respirare, con il terribile ed
acre sapore del sonno che gli rovinava la bocca. Non ripose, limitandosi a
pensare che nell’espressione che Clara aveva in quel momento vi leggeva più
anni di quanti in realtà la ragazza ne avesse davvero. Era come se
improvvisamente fosse diventata più donna, affascinante come sempre ma
irresistibile come non mai. Il cuore gli si serrò facendo male, mentre si
portava seduto al centro del letto e poggiava i gomiti sulle ginocchia, il
lenzuolo a coprirlo fino al bacino e lo sguardo perso chissà dove.
“Vado a preparare la colazione.”
Si alzò solo quando sentì rumori di stoviglie e mobiletti
che si chiudevano proveniente dalla cucina. Si lasciò scivolare via dalla pelle
ogni residuo di ciò che non avevano consumato durante la notte, rilassando i
muscoli tesi sotto il getto caldo.
La colazione fu silenziosa ma piacevole, con quel senso
di familiarità che c’era sempre stata anche in casa Smith. Era come se, nel non
fare l’amore, avessero trovato un’altra forma di intimità. Il desiderio era
ancora forte, chissà finchè sarebbe durata. Ma erano anche consapevoli che non
potevano andare oltre, che la loro unione non avrebbe dato risultati fruttuosi.
Semplicemente non erano l’uno il destino dell’altra.
Quando Clara accompagno il Dottore alla porta, entrambi
si sorridevano ma lo sguardo era triste.
“Tornerò tra sei mesi. Resto pochi giorni prima di una
nuova assegnazione.”
Clara annuì senza rispondere.
“Ci vediamo, allora?”
“Va Dottore, e salva il mondo.” Gli sorrise aggiungendo:
“E grazie per avermi fatta sentire speciale.”
“Grazie a te per lo stesso motivo.”
Un ultimo abbraccio, questa volta meno teso di qualsiasi
abbraccio avessero condiviso in precedenza, prima di dirsi addio.
Nessuno dei due ancora sapeva che quello sarebbe stato
l’ultimo.
***
Avrebbe anche conosciuto altre donne; alcune dolci,
passionali, alcune voluttuose come e più di Tasha. Ma nessuna di loro però era
Clara. Il vuoto nel suo cuore non si sarebbe mai colmato né col sesso né con
l’amore di qualsiasi altra donna.
Nessuna sarebbe mai stata come Clara.
Voleva restare lontano da casa solo una quindicina di
giorni, inizialmente. Ne sarebbe stato lontano per cinque mesi. E probabilmente
non sarebbe tornato per altri sei se non avesse ricevuto quella
telefonata.
“Pronto?”
“John Connor Smith, figlio di John Duncan Smith?”
“Si, sono io… chi è lei?”
“Capitano Jack Harkness dell’Esercito Britannico. Chiamo
per darle notizie di suo padre e… c’è stato un attacco al campo medico in cui
era stanziato…”
E tutto l’odio era scomparso.
Ritorno al futuro…
Il primo sorriso del bambino spuntò non appena Clara
prese il cucchiaino, raschiò lo zucchero dal fondo della sua tazza di caffè e
la portò alle labbra del piccolo.
“Gli piace lo zucchero al caffè.” Clara sorrise
inconsciamente mentre osservava il piccolo succhiare il bocconcino dolce,
concentrando infine lo sguardo illuminato sul giovane di fronte a lei che le
rispose:
“Tu ami il residuo di zucchero sul fondo della tazza… una
volta ho provato a rubartelo e mi hai quasi ucciso col cucchiaino… era la tua
arma preferita, se ricordo bene! Mi sembra strano vedere che vi rinunci.”
Clara scoppiò a ridere, ricordando l’evento di anni prima
e l’immagine particolare di lei che inseguiva John per tutto il soggiorno con
un cucchiaino tra le mani come unica arma.
“Si, è vero! Ma con lui ho imparato che… per i figli si
può rinunciare a tutto ciò che ami. Per renderli felici sei disposto a tutto.
Soprattutto se sei da solo a crescerli.”
Lo sguardo nostalgico negli occhi della ragazza lasciò
intuire a John cosa o chi le stesse in quel momento attraversando la mente.
Anche lui pensò al Dottore, avvertendo un misto di emozioni represse per troppi
anni e con le quali mai aveva voluto fare i conti. La sensazione più strana,
però, era che, ad un certo punto, guardando il bimbo, gli sembrò quasi di
riuscire a comprendere il concetto prima che gli sfuggisse rapidamente dalla
mente lasciandolo nella confusione più totale.
Il silenzio che si era creato sembrò infiltrarsi tra loro
come un parassita fastidioso. John avvertì un’ondata di fuoco che gli bruciava
lo stomaco finchè non udì nuovamente la voce di Clara, più brava di lui a
cambiare o riprendere un discorso:
“Colin. Lo abbiamo chiamato Colin.”
“Un nome scozzese. Ovvio.” Un sorriso inespressivo sul
volto mentre continuava: “Senza offesa ma… somiglia più a lui che a te.”
Mentre Colin si lasciava scappare uno sbadiglio,
allungando poi le braccia verso John e farfugliando una parola incomprensibile,
Clara sospirò cercando di tenerlo in equilibrio:
“Ti sbagli.” Alzò Colin dalle sue gambe e lasciò si
sporgesse verso John il quale, senza possibilità di opporsi, non potette fare
altro che sporgere anche le sue di braccia e prendere il piccolo mentre Clara
continuava:
“Non è tuo fratello, se è questo che pensi. Ce l’ho in
affidamento. Non sono io sua madre.”
“Come? Io pensavo..”
Clara si lasciò scappare un sorriso amaro interrompendolo
con un tono serio:
“Se ti dicessi che io ed il Dottore non ci abbiamo
provato mentirei, ma… non stiamo insieme. Non c’è stato nulla di…fisico tra
noi. Avremmo voluto, non lo nego. Ma tu eri sempre lì, in mezzo a noi, a dirci
che era sbagliato. Ed avevi ragione.”
Colin si sistemò tra le braccia di John, fissandolo da
vicino con i suoi occhietti azzurri e luminosi.
John si sentiva come sospeso a mezz’aria, con una
confusione apocalittica nella menste e nel cuore una misera speranza che, come
brace sotto la cenere, desiderava solo di essere alimentata. Non sapeva come
prendere il discorso di Clara. Non sapeva come fare per osare e chiedere una
seconda opportunità e se era il caso di farlo.
Con quel bambino tra le braccia ora più di prima era
confuso. Perché quelle somiglianze che aveva visto in lui si erano dimostrare
un’illusione eppure erano visibili ancora. Perché sentiva che c’era altro ed
aveva paura di chiedere per non soffrire ancora. Erano passati due anni ed era
ancora quel ragazzo timoroso delle emozioni.
Nonostante questo, però, non potette fare altro che
sorridere ed arrendersi ad un lieve calore che si diramò nel suo petto quando l’espressione
imbronciata di Colin si rilassò in un sorriso timido mentre portava le manine sul
viso di John.
“Dadada”
“Sembrava essere un po’ indietro con il linguaggio, ma i
suoi occhi erano furbi. Forse c’era una qualche spiegazione, doveva solo
conoscerlo meglio. Voleva conoscerlo meglio, così come voleva ancora vedere
Clara.
“Visto? Avevo ragione. Gli piaci.”
John sorrise concludendo:
“Tu hai sempre ragione.”
E in quelle parole c’era un significato più profondo di
quanto sembrasse.
Nota:
Intanto voglio giustificare il ‘Connor’ ed il ‘Duncan’
aggiunto al ‘John Smith’ di Eleven e Twelve e dico solo: “Mi chiamo Connor ( dopo viene
Duncan) McLeod, del clan McLeod e sono l’ultimo degli Immortali.
Perché? Perché si u.u Anche se li ho attribuiti al
contrario, Connor è il più vecchio dei due immortali, ma io l’ho dato ad Eleven
che il più giovane tra i due Dottori xD
Per il resto della storia: spero non siate rimasti delusi
dalla vera origine del piccolo Colin. Non è figlio biologico di Clara, ma devo
ancora raccontare qualcosa su di lui. Inoltre, il prossimo capitolo sarà
interamente dal punto di vista del Dottore e concentrato totalmente su di lui e
ciò che davvero gli accade; quindi come al solito, vi chiedo di non dare nulla
per scontato né in questo capitolo né nel prossimo.
Altra premessa che faccio è questa: credo di aver fatto un pò di confusione con gli appunti che avevo preso per questa storia (pezzi scritti non in ordine cronologico da inserire in capitoli successivi) e che per errore ho preso, modificato ed incollato non ricordo dove in You're in my Soul e... ho fatto un pò di casino. Quindi se notate qualche somiglianza (non dovrebbero essercene però perchè il contesto è completamente diverso) in alcuni punti Twelve/Clara con questo capitolo e qualcuno di quella storia, bè.... fa caldo, ho la testa confusa, non ho la pazienza di controllare quale parte ho confuso e non modificato come dovevo. Tanto nel caso ho copiato me stessa xD
Grazie infinite comunque a tutti voi che seguite
ancora la storia. Spero che abbiate goduto di questo capitolo. Al prossimo
spero ci sarete ancora <3