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Autore: Keep_Running    28/07/2015    5 recensioni
Angie Evans: un metro e settanta di puro sarcasmo, pericolosa scaltrezza, e un innato talento nel non fare niente ed essere stanca comunque.
Una ragazza strana secondo alcuni, molto strana secondo altri.
A fregarla?
La sua incredibile curiosità.
E anche quella feccia terrestre di Michael Clifford, sì.
Ma voi? Voi lo guardereste il vostro futuro?
Ecco dei grandiosi motivi per non farlo.
Genere: Commedia, Romantico, Sovrannaturale | Stato: in corso
Tipo di coppia: Het | Personaggi: Nuovo personaggio, Un po' tutti
Note: nessuna | Avvertimenti: nessuno
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Que sera, sera


2/3
 
 


When I grew up and fell in love,
I asked my sweetheart
What lies ahead?
Will we have rainbows ,day after day?
Here's what my sweetheart said
 
 
 
 
 

La poeticità, nella vita, è importante.
E ok che c’è la crisi, la guerra, il riscaldamento globale e i teenagers razzisti, ma la poeticità regala sempre un momento di pace e tranquillità nella nostra frenetica vita.
Perciò, ripeto: la poeticità nella vita è importante.
E questa grave mancanza, causata dalla mia indole seguace della filosofia ‘alla cazzo di cane’, l’ho sempre trovata una profonda sofferenza.
Ma non c’era proprio niente da fare.
L’avevo capito a sei anni, alle prese con il primo pensierino sulla mamma, ma l’avevo finita con un ‘la mamma è paranoica’.
L’avevo capito a dodici anni, quando Raven cercava di rendermi partecipe dei suoi sentimenti per l’affascinante Sean di seconda c’, ma l’avevo finita col fregarle tutto il gelato al cioccolato, causandole ulteriore depressione.
E l’avevo capito pure a diciassette, di anni, quando per il diciottesimo di Raven, in segno della nostra secolare amicizia, avevo pensato che un pezzo di carta con un grande ‘18’ rosa brillantinato (il suo colore preferito, terrei a precisare) valesse come dedica di compleanno.
Ebbene, a distanza di anni, posso dire che furono proprio queste piccole cose a fottere i grandi momenti della mia vita.
I momenti belli, brutti, strani, divertenti, e anche quelli fastidiosi, sì.
Persino quel momento.
Quel momento in cui avrei potuto dire tante, davvero tante cose, ma non un “Cazzo!” piuttosto soddisfatto.
Tuttavia, c’è una motivazione persino per quell’esclamazione poco signorile.
La prima cosa che notai, quando mi svegliai quella mattina, fu un peso sul corpo.
Un peso particolare.
E no, non era il braccio nudo di un bel ragazzone rimorchiato in discoteca – niente da fare, mi dispiace.
E neanche il fantomatico peso nel cuore di una che ne ha passate tante, forse anche troppe, per avere solo diciotto anni – poca poeticità, ricordate?
Bensì, dopo un momento di incredulità, constatai che sì, erano proprio le mie tette.
Il sorriso raggiante che feci, giuro, non potrà mai essere eguagliato a tutti quelli della mia vita.
Sono cose che, se non si provano, non si possono capire.
Con gli occhi lucidi, la bocca spalancata, e le mani tremanti dall’emozione, mi palpai.
Esatto, mi palpai.
E quando realizzai a pieno che quelle fossero davvero le mie tette – nessun palloncino messo sotto la maglietta per scherzo, e nemmeno palle di carta-igienica! – mi lasciai andare ad un urlo eccitato.
“Mamma, mi sono cresciute le tette!”, esclamai, tanto per rendere la cosa nota a tutto il quartiere.
L’avrebbe notato la signora Freeman, quella stronza della signora Freeman, che mi prendeva sempre in giro per la mia scarna mercanzia.
L’avrebbe notato il nuovo postino (quello biondo zoppo, non quello che frugava tra i miei pacchi), e mi avrebbe fatto gli sconti – certo, Angie.
E già mi immaginavo quando l’avrebbe notato George, il mio vicino di casa universitario sexy, che ci avrebbe provato con me – sempre più credibile, Angie.
Forse anche Kyle avrebbe avuto più rispetto per me.
Le tette grandi mi avevano mandato in pappa il cervello, era chiaro.
Ma ci pensò qualcosa a farmi tornare con i piedi per terra, o meglio, qualcuno.
“Non è vero!”, si sentì una voce, lontana, oltre la porta.
Era una voce maschile, ridente, e familiare in modo agghiacciante.
Se la riconobbi?
Certo che la riconobbi, ma preferii fare finta di niente, ingannando il mio stupido subconscio.
Ma fu quel piccolo dubbio, mentre constatavo la morbidezza del mio seno, a farmi svegliare completamente.
E solo allora mi accorsi di tutto.
Perché David non era in camera a bullizzarmi? – ed erano le 7.35, ragazzi.
Perché mia madre non stava festeggiando con me per le tette grandi?
E ancora, perché poco prima non mi aveva lanciato un’onda energetica per l’imprecazione mattutina?
Ma soprattutto, dove cazzo mi trovavo?
A quel punto, le mie grandiose tette, divennero solo un lontano ricordo.
Mi guardai intorno con il terrore negli occhi.
Certo, era una bella stanza: mura di un tenue azzurro, mobili moderni ma non troppo, un bel quadro dei Pink Floyd proprio sopra la bella scrivania piena di cianfrusaglie, e pure una tv al plasma; ma non era la mia, di stanza.
Dov’erano finiti i vestiti per terra? I poster di Sid Vicious? La pistola ad acqua per cacciare David in caso di emergenza?
Subito, mi alzai sul letto.
Deglutii a fatica il magone che mi aveva bloccato la gola, formatosi durante la contemplazione della stanza.
Ciò che provai fu puro e semplice panico, nella più oscura delle sue manifestazioni.
Non ero terrorizzata, non ero esaltata, niente adrenalina nel mio corpo, purtroppo.
E fu proprio per quello che il mio cuore, lo sentii chiaramente, perse un battito.
Nessun dubbio: quella fu la sensazione più brutta di tutta la mia vita.
Era come se tutte le mie certezze, tutte i miei progetti, fossero andati in fumo.
Come se non esistessi neanche.
Tutto questo solo per una stanza mai vista – avevo il cuore debole, che ci posso fare.
“Ti vuoi muovere? Farai tardi a lavoro!”, continuò, sempre quella voce.
Lavoro.
Avevo diciotto maledettissimi anni, un animo pigro, e una madre paranoica: io non potevo avere un lavoro.
Solo a quel punto la fantomatica adrenalina arrivò. Un po’ in ritardo, ma arrivò.
Così, in piedi in un letto non mio, con una sudorazione sfasata e il respiro affannato, gridai con tutto il fiato che avevo: “CHI CAZZO SEI E CHE CAZZO VUOI DA ME?!”
Io, ragazza tranquilla che prendeva le tragedie con talmente tanta filosofia da trasformarle in commedie da quattro soldi, non avevo mai gridato in quel modo.
D’altronde, non avevo neanche mai provato tutte quelle sensazioni.
Altro che ciclo.
E con il mio super-udito amplificato dall’adrenalina, sentii dei pesanti passi veloci avvicinarsi a me.
Cazzo, ora mi stuprano, poi mi ammazzano, mi danno in pasto ai cani e bruceranno le loro feci.
La porta si spalancò, di colpo, con talmente tanta forza da farla sbattere contro il muro.
“CHE SUCCEDE”
Un Michael Clifford più trafelato che mai, con i capelli molto più normali del solito, e senza una fottuta maglietta, mi si parò davanti.
Lo guardai negli occhi, per un momento che mi sembrò infinito.
E mo’ questo che ci sta a fare qui?
Ma inutile negarlo, signore e signori, la vista della sua brutta faccia mi fece perdere ogni traccia di panico.
Perché persino in quella situazione, doveva essere sempre e solo lui la mia grande costante?
“Dio, Angie!”, fece arrabbiato, ma con un velo di sollievo nei suoi occhi.
Michael Clifford non mi ha mai chiamata per nome, notai.
E fu proprio quel particolare a farmi pensare che forse c’era qualcosa che non andava.
“Lo sai che mi impanico quando urli così”, continuò, quella volta sorridendo apertamente “Sei proprio una stronzetta”, sorrise ancora di più.
Michael Clifford stava sorridendo a me, proprio a me, mentre io continuavo a guardarlo come uno stoccafisso.
Ero proprio una deficiente.
Mi si avvicinò lentamente, fino ad arrivare ad un palmo dal mio viso e “Non farlo mai più, fiorellino” disse, accarezzandomi la guancia con dolcezza.
E tralasciando il ‘col dolcezza’…  fiore-cosa?
“Non chiamarmi fiorellino!”, dissi incazzata, staccandogli velocemente la mano dal mio viso.
La paura, scoraggiata dagli addominali del ragazzo di fronte a me, era ormai scomparsa.
C’ero solo io, il ragazzo che avevo sempre odiato, e il mio odio per lui.
“Lo sai che adoro quando ti arrabbi, amore”
Mentre io ero concentrata alla visione del suo petto che, cazzo, da dove erano spuntati fuori quei pettorali?, sentii l’agghiacciante parola.
Amore.
Amore.
Amore.
“Come cazzo mi hai chiamata?!”, ammetto che l’assenza di mia madre mi aveva fatto diventare più sboccata del solito  - quanto ne stavo approfittando, cavolo.
“O andiamo! – si lamentò, quella volta – ti è sempre piaciuto questo, di nomignolo! Sembri essere tornata a dieci anni fa, con quello sguardo”
Oh.
Dieci anni cosa?
“Ripeti”, dissi, senza neanche pensarci.
“Cosa”
“Quello che hai detto”
“Ho detto che sembri essere tornata a dieci anni fa”
Dieci anni fa, eh?
E lì, ricordai: l’appuntamento terrificante, il sorriso inquietante di Ashton Irwin, e quella cazzo di polverina magica di Calum Hood.
Calum Hood, quella puttana.
Era tutta colpa sua, con i suoi discorsi sconclusionati, i suoi ‘Vuoi vedere il tuo futuro? Gngngn, sono un mago vero, gngngn’.
Certo che non volevo vedere il mio futuro!
Era tipo lo spoiler più grandioso di tutti i tempi!
Non avevo mai immaginato che qualcuno potesse prendere sul serio le cazzate che dicevo – ma me lo dovevo aspettare da un disperato che si atteggiava da grande divo.
“Quindi…”, feci, imbarazzata.
E io imbarazzata davanti a Clifford? Mai visto.
“Va tutto bene?”
“Certo”, risposi velocemente, tanto da rendere la mia affermazione più falsa delle tette della Minaj.
E una domanda sorse spontanea: che ci faceva Michael Clifford nella casa della me ventottenne?
“Tu sei tipo il mio giardiniere o cosa?”
La mi stupidità aveva raggiunto i massimi livelli.
Certo, potevo capire che il mio ipotetico giardiniere non mi avrebbe mai chiamata ‘amore’, ma insomma… io e Michael Clifford non potevamo essere quelli.
“Mi stai prendendo per il culo?”, mi rispose invece lui, scoppiando a ridere.
E mi accorsi che Michael Clifford stava ridendo fin troppo spesso in mia presenza, e che mi rivolgeva sguardi fin troppo dolci.
Non potevo più negarlo: tra me e Michael Clifford (del futuro, tengo a precisare), c’era qualcosa.
Abbandonai ogni traccia di stupidità e avventatezza: era arrivato il momento di indagare senza farmi scoprire e senza fare ulteriori figure di merda.
Le opzioni per questo suo comportamento, erano due:
1. Aveva una cotta segreta per me
2. Eravamo – scusate il conato di vomito – fidanzati.
3. Mi stava prendendo per il culo. E si parlava sempre di Michael Clifford, nonostante i muscoli e i dieci anni in più, quindi poteva tranquillamente considerarsi un’ipotesi accreditata.
Ma poteva davvero spiegare la sua presenza in quella che, per logica, doveva essere casa mia?
Per avere una risposta, dovevo prima porre una domanda.
E qual miglior modo di risolvere una situazione del genere se non sembrando stupida?
“Ma se io… tipo… - non potevo credere che lo stessi dicendo davvero – ti dicessi che ti amo… - sputai quelle due parole quasi con disgusto, ma riuscii a mascherarlo bene – come reagiresti?”
“Ti direi che il venerdì degli Oasis lo si passa ad ascoltare Be here now, è il mio turno di decidere, dolcezza
Avevamo stabilito una tabella per decidere la musica da mettere in macchina? – beh, supposi si trattasse della macchina.
Le cose tra me e lui, allora, dovevano essere davvero serie.
“Ma What’s the story (Morning Glory) è assolutamente migliore!”, mi lamentai.
“Oh, lo so bene che preferisci quell’album”, ridacchiò allegro “Ma questa settimana tocca a me decidere”
“E poi cosa farai? Sceglierai Closer nella giornata dei Joy Division?”, lo derisi.
“Oh, ci puoi contare”
Stavo giusto per lanciargli una scarpa (fanculo la storia dei fidanzati), quando lui scappò dalla stanza ridendo come un povero scemo.
Lo ammettevo: mi sorprendeva davvero tanto – forse troppo – sentirlo ridere così spesso in mia presenza.
Non mi sembrava, però, che il nostro rapporto fosse diventato improvvisamente da diabete: cosa era cambiato, allora?
Io? Lui? Entrambi?
Di una cosa ero certa: volevo scoprire più cose possibili.
In seconda elementare, il supplente della signora Jones ci aveva fatto fare un gioco: dovevamo stabilire un piano per risolvere una situazione problematica in un ipotetico viaggio nel tempo.
Io avevo semplicemente creato una storia sulla me di sette anni che creava un impero di dinosauri ammaestrati – e mi aveva messo un misero ‘buono’, la canaglia – ma Raven no.
Raven aveva creato un piano esattamente per la situazione in cui mi trovavo in quel momento.
Divertente come una Raven di sette anni fosse comunque più intelligente della me diciottenne.
Il primo punto, comunque, consisteva nel trovare una persona fidata (possibilmente che si conosca già), per farsi dare le informazioni necessarie alla sopravvivenza.
E anche se Michael Clifford era la mia grande costante, non riuscivo proprio a vederlo come un ipotetico alleato nella guerra che era quella strana giornata.
Dovevo sopravvivere, scoprire quello che volevo sapere, e non sembrare una povera deficiente allo stesso tempo.
Ce l’avrei fatta?
“Ah, ricordati che stasera alla cena c’è pure Vivian. Ti ricordi che Vivian è allergica ai granchi, no?”
Vivian, certo.
“Non penso che qualcuno in questa casa fosse intenzionato a cucinare granchi. Vero, Clifford?”
Io odiavo i granchi, non c’era nulla da fare.
“Smettila di insultare i Magnifici Granchi”
“Magnifici Gra…”
Sì, Magnifici Granchi. E smettila anche di chiamarmi Clifford”
Sbuffai pesantemente alla sua richiesta.
Come avrei dovuto chiamarlo, allora? Michael? Ma per favore.
“Certamente, zuccherino
“Ah, sei incorreggibile”, ridacchiò.
“Proprio così, pupazzetto di neve”
“Pupazzetto di neve?”, fece lui, entrando nuovamente nel mio campo visivo.
Mi accorsi di essere ancora in mutande, ma lasciai perdere – non c’era tempo per quei dettagli.
“Perché sei pallido e non ti piace il sole”, spiegai risoluta.
“Non mi abituerò mai alle tue cazzate”, sussurrò sensualmente, avvicinandosi pericolosamente a me.
Non pensai tanto al velato insulto (io non dicevo mai cazzate), mi preoccupai più che altro alla sua vicinanza.
Non mi piaceva per niente, tutta quella confidenza. E non mi piaceva per niente neanche Michael Clifford.
Io non lo sopportavo proprio, e anche in quel momento non lo sopportavo.
“Prendere o lasciare, scoiattolino mio
“In tal caso – finse di pensarci, picchiettando l’indice sulla guancia destra – prendo prendo”
Non feci in tempo a rispondergli, e neanche a guardarlo male. In realtà, non feci neanche in tempo a respirare, che subito me lo trovai incollato.
Ma proprio incollato incollato.
Mi baciò con un’irruenza talmente dolce da lasciarmi scioccata.
E ci aggiunse pure la lingua, lo stronzo, mentre io, con i miei occhi spalancati, cercavo disperatamente di non prenderlo a pugni.
Se mi piacque?
No, cazzo, no che non mi piacque.
Mi fece davvero schifo – non mettevo in dubbio le sue abilità, certo, ma era pur sempre Michael Clifford.
E io avevo bisogno di tempo per realizzare di poter baciare Michael Clifford senza vomitare – tipo dieci anni.
“Ti aspetto, tesoro”
Tesoro sto cazzo.
 



***
 
 
Eravamo in macchina, e lui alla guida.
Mi sembrava poco opportuno usurpargli il posto da autista con la scusa del ‘e chi si fida della tua guida’, così decisi di tentare la sorte e lasciare fare a lui.
In realtà, guidava bene.
Certo, mi aspettavo un veicolo più tecnologico – magari con dispositivi alla Tony Stark al posto delle ruote – ma mi accontentai della nostra Mercedes nera.
Clifford, al mio fianco, non faceva altro che urlare ogni singola parola di Noel Gallagher come a voler sottolineare la sua vittoria musicale – e io ero pure innamorata di lui? Ma andiamo.
Tuttavia, trovai del tempo per pensare – ottima fuga, per chi volesse evitare lo sguardo di un Michael Clifford improvvisato cantante come me.
Ebbene, la prima domanda che mi posi fu: come sfruttare quella giornata?
Perché, ammettiamolo: non era da tutti poter vivere una situazione del genere.
Così, mi risposi, volevo sapere com’erano andate le cose.
Non a me, per carità, ma ai miei amici.
Sapete, le solite cose: se la troietta della scuola era morta di overdose, se il capitano di football era finito a lavorare nell’officina del padre abbandonando i suoi sogni da grande sportivo, se la sfigata odiata da tutti era finalmente diventata una figa da paura con un marito ricco e potente.
Le solite cose, no?
E ok, forse i sopracitati non erano esattamente miei amici, ma ero curiosa.
Per quanto riguardava la mia, di vita, volevo sapere solo una cosa: ero davvero felice?
Per quello, dovevo rivolgermi ad una persona fidata – e chissà se l’avrei trovata! – una ben consapevole delle mie ambiguità comportamentali.
Certo, era una domanda stupida, poco originale, e piuttosto vaga, ma volevo davvero sapere se alla fine, nonostante la poca magnificenza della mia persona, sarebbe andato tutto bene.
Tuttavia, la palla al piede canterina che avevo al mio fianco fungeva da pessimo presagio.
“Stand by me, nobody knows the way it’s gonna beee”
“Sei una femminuccia, Clifford”
“Io ti dedico una canzone del genere e tu mi rispondi così?”, fece lui, con un finto broncio.
Terrificante.
“Sarebbe stato più carino se mi avessi dedicato Wonderwall…”, feci quasi afflitta.
In realtà avrei semplicemente preferito tornare ai cari e vecchi tempi in cui ci dedicavamo scritte offensive nei banchi di scuola – altro che canzoni degli Oasis – ma dovevo mantenere un profilo basso e non destare sospetti.
Più di quanto non avessi già fatto, chiaramente.
“Tu e quel dannato album…”, disse scoraggiato.
“Tu e la tua voce. Sai, potevamo anche evitare tutto questo se non mi avessi svegliata”
Mi lanciò un’occhiata diffidente, per poi prestare nuovamente attenzione alla strada.
Grazie al cielo.
“Ma così saresti arrivata in ritardo a lavoro”
“Per una volta…”, feci la vaga.
In realtà, ero una ritardataria cronica. Tuttavia, in vista del fantomatico diploma, già progettavo una nuova me universitaria super puntuale ad ogni appuntamento.
Ed ero seriamente convinta che ce l’avessi fatta – insomma, avevo avuto dieci anni di tempo.
“Ma per favore! – mi derise invece, lasciandosi andare ad una grassa risata – riusciresti ad arrivare in ritardo persino al tuo funerale!”
Evidentemente mi ero sbagliata.
“Non sarà mai troppo tardi per quello…”
“O peggio – mi ignorò completamente – al nostro matrimonio!”
Mi si gelò il sangue per un secondo.
Ok, forse non era proprio un secondo, ma non mi misi a cronometrare la mia permanenza in quello stato di shock totale.
Non avrei scommesso un soldo, nella nostra coppia.
In realtà mi aspettavo che, nonostante la convivenza e le parole dolci del ragazzo, le cose fra noi due non fossero così serie.
Ma con quelle parole, mi spiazzò completamente, facendomi perdere tutta la fiducia che avevo riposto nell’Angie ventottenne.
Che razza di persona ero diventata?
Avrei preferito vedermi nelle vesti di una narcotrafficante pedofila che mogliettina premurosa di Michael Clifford.
“Ma-matrimonio?”, balbettai.
“Sì però non farmi aspettare sul serio”, sorrise, lui, come se io non stessi tentando di farmi esplodere le viscere con la forza del pensiero.
“Mh”, mugugnai.
“Non sto scherzando – fece, diventando improvvisamente serio – guarda che la cazzata della sposa che ‘deve farsi aspettare’ è una leggenda metropolitana”
“Già”, lo stavo a mala pena ascoltando.
Ero troppo presa da matrimonio, matrimonio, matrimonio…
“Ti giuro, dieci minuti. Ti aspetto per dieci minuti e poi corro a cercarti”, continuò.
“Vorrà dire che mi beccherai con il mio amante e per me sarà più semplice lasciarti. Eviteremo la scenata in chiesa in cui scappo a gambe levate, almeno”
Lui rimase in silenzio un attimo, quasi pensieroso, poi mi lanciò una strana occhiata.
Nuovamente.
Che avessi davvero un amante? Ci contavo proprio, cavolo.
“Sappiamo entrambi che non hai trovato nessuno che ti vuole, a parte me”
E poi riprese a ridere.
Sapevamo entrambi che avesse ragione – scherzi a parte, ci avrei scherzato pure io – ma non era lui quello che mi doveva dire cose come ‘sei la mia vita’, ‘ti amerò per sempre’, ma anche ‘sei la donna più bella che abbia mai visto’?
Che fregatura di marito.
Dovevo proprio fare due chiacchierate con la Angie vecchia.
If you’re leaving will you take me with you? I’m tired of talking on my phone…
Stupido Clifford…
 
 
“Ti senti bene?”
“Mi stai prendendo per il culo?”
“Scusa, non volevo sembrare derisora. Ma stai bene?”
“Sto alla grande, grazie”
Avere una conversazione civile con Michael Clifford si stava rivelando più complicato del previsto.
“Uhm, allora perché siamo davanti all’ospedale, se non stai bene?”
Un oscuro dubbio si insinuò nella mia mente, ma preferii evitare di affrontarlo.
“Perché ci lavoriamo, magari?”
Oh. Oh. OH.
Quello sì, che era un gran bel problema.
Con quella nuova consapevolezza avevo pure soppiantato l’immagine ‘matrimonio con Michael Clifford’ dalla casella ‘tragedie della vita di Angie  Evans’.
Avrei tanto voluto avere una piccola Raven al mio fianco per farle una semplice domanda: quanto poteva andare avanti la farsa del ‘ehi sono strana ma va tutto bene! Non sono mica un’Angie teenager nel corpo dell’Angie adulta ah ah ah!’? Ne sarebbe valsa la pena, persino con il sacrificio di vite umane – ergo, miei ipotetici pazienti?
Per un attimo, la parte sadica di me rispose ‘sì, certo!’, chè già avevo baciato Michael Clifford, mica potevo mandare tutto quanto all’aria.
Poi tornai a me – l’angioletto sulla mia spalla destra con la faccia di mia madre aveva avuto la meglio sul diavolo David sulla spalla sinistra – e mi dissi che, forse, sarei potuta uscire illesa da quella situazione.
O meglio, lo sarebbero usciti i poveri malati americani, se si fossero tenuti ben alla larga dalla sottoscritta.
“Senti”, lo fermai un attimo.
Neanche mi ero accorta che fossimo scesi dalla macchina – che non volava, stupido futuro poco tecnologico… - e che ci stessimo dirigendo verso l’entrata dell’ospedale.
Bella situazione di merda, come direbbero ad Oxford.
“Cioè, prima non dicevo che tu ti sentivi male. Dicevo che io mi sentivo male”, spiegai.
In realtà mi stavo torturando le mani dal nervoso, e stavo pure balbettando.
Per un attimo temetti che mi avrebbe presa per il culo per il resto della mia vita – insomma, era Michael Clifford – poi mi ricordai del nostro matrimonio imminente, e mi tranquillizzai. Beh, più o meno.
“Ah”, fece lui, sospettoso.
Sapevo di non poter fingere di stare male all’interno dell’ospedale: nella casa dei medici mi avrebbero beccata subito – ero super intelligente e l’avevo capito subito, quel problema.
Così mi affidai alla sua ignoranza da non medico – perché figuriamoci se Michael Clifford era diventato un medico!
“Cioè, non mi sento tanto bene – ritentai, facendo una faccia addolorata – potrei uccidere qualche mio paziente!”, e lo dissi con una serietà disarmante.
Fu proprio per quel piccolo motivo, associato alle mie parole, che Michael Clifford cominciò a ridere di gusto – si stava burlando di me.
E io stavo odiando la sua risata ogni secondo di più.
“Fai questa battuta tutti i giorni, ma continua a far ridere”, disse poi, quando si calmò completamente.
Ma quale cazzo di battuta?!, continuavo a chiedermi.
Erano bastate poche ore senza mia madre ed ero diventata la peggiore tra le ragazze sboccate, che vergogna.
“Dai ora entriamo”
Ed entrammo sul serio, maledetto Clifford.
La gente ci guardava come se ci conoscesse davvero, ci sorrideva, poi ci salutava, e infine tornava a fare quello che stava facendo prima.
C’erano troppi camici blu, troppe barelle e un odore di ospedale fin troppo pesante.
Come diavolo facevo a lavorare qui?
“Bene, io sono al decimo oggi. Ricordatelo se volessi… chessò, farmi una sorpresa”
Ma decimo cosa?!
“Ti eviterò come la peste, stai tranquillo”, lo liquidai.
“Ma per favore, pur di stare un po’ con me di faresti i dieci piani a piedi”
Oh, quindi era al decimo piano. E se non era davvero malato come aveva più volte ribadito, allora non c’erano altre possibilità: Michael Clifford era diventato un dannato medico.
Oppure era lo sguattero del reparto pediatrico – ci speravo tanto, in realtà – ma mi sembrava troppo conosciuto per quel ruolo.
Che poi, pure io avrei potuto ricoprire il ruolo di sguattera, ma avevo troppa stima per me stessa per anche solo immaginarlo – che narcisista.
“E disturbarti mentre cerchi di rianimare un paziente con le tue mani da pollo? Non potrei mai”
“Meno male che sono uno psichiatra, allora”, sorrise furbo.
Uno psichiatra… Michael Clifford era uno psichiatra. Non avevo parole per descrivere il mio disgusto.
“Allora divertiti con le urla dei tuoi simili, tesoro”, risposi acida, con la speranza che almeno in quel modo si sarebbe finalmente volatilizzato.
“Il mio lavoro da psichiatra lo svolgo con te, dolcezza – ridacchiò – Passo il mio tempo qui solo per hobby”
E poi se ne andò.
Stupido Clifford.
 
Fu solo quando se ne andò che mi accorsi di essere sola.
Per un momento rimpiansi la sua presenza (giuro, solo per un momento), poi  mi convinsi che ‘meglio soli che male accompagnati, no?’.
Quando mi convinsi anche del fatto che ‘Pff, non è una stupida frase che dicono alla zitella cessa e disperata quando l’unico uomo che l ha calcolata la lascia!’, mi ritenni soddisfatta.
A quel punto, cercai un volto amico. Avevo una tecnica infallibile, per quello: bastava fissare intensamente la persona prescelta. Se codesta persona sorrideva, non mi conosceva. Se faceva una smorfia oscena o mi mandava a fanculo, era la mia migliore amica.
O meglio, funzionava più o meno così.
Pensai di avere tanti amici quando realizzai che tutti rispondevano alle mie occhiate con uno sguardo minaccioso, ma non mi avvicinai a nessuno di loro – ah, la timidezza!
Fu quando ero nel pieno dello sconforto da ‘sono ancora sfigata nonostante i ventotto anni’ che sentii una minuta figura travolgermi.
Ok, non è che mi travolse proprio, ma mi andò addosso. E mi diede anche fastidio.
Sembravamo coetanee, più o meno. I suoi occhi saggi (potevano degli occhi sembrare saggi?) parlavano più dei suoi capelli blu acceso.
Sembrava proprio un’adulta che non aveva ancora accettato il fatto di essere effettivamente adulta.
Ecco, lei era il genere di persona che sarebbe potuta essere identificata tranquillamente come mia amica.
“Angie! Dannata Angie! Muoviti che dobbiamo andare a lavoro!”, quasi mi urlò contro, con la sua voce squillante che si addiceva parecchio alla sua persona così stravagante.
Rimasi così incantata a fissarla, tanto ero presa dal realizzare che cavolo, hai un amico Angie!, da farla solo sbuffare.
Ah, l’amicizia.
“E muoviti! L’obitorio ci aspetta, amica mia. Non possiamo mica far aspettare gli zombie!”, rise.
Così capì: obitorio.
Ero quella sfigata che lavorava in obitorio – beh, insieme alla ragazza coi capelli blu.
Ripensai a Michael Clifford e alla sua risata sulla mia ipotetica battuta.
Mentalmente, risi con lui.
 
 
“E insomma poi lui arriva e mi fa ‘Ashley, devi decidere: o me o lui’. Ma insomma, sta parlando del mio migliore amico! Come posso distruggere la mia amicizia con Alex per Max? così gli ho detto che ci penserò, ma a quel punto Alex se n’era già andato. Dio, spero che non abbia sentito le mie parole… tu che ne pensi, Angie?”
La piccola furia blu , a cui avevo da poco associato il nome ‘Ashley’, non faceva altro che blaterare sul suo triangolo amoroso dove, come da commedia, c’era in mezzo il suo migliore amico Alex e il migliore amico di suo fratello maggiore Max.
Lei aveva due contendenti. Io un Michael Clifford.
Che sfigata, cavolo.
“Non devi permettere che rovini i tuoi rapporti, non è nessuno”, feci risoluta.
“Ma è figo!”
“Allora sei in un bel problema, amica”
“Ah, lo so…”
Eravamo dentro una stanza, fredda. Molto fredda, in realtà, ma avevamo già acceso una stufa.
Le pareti erano azzurrine – proprio come quelle della mia camera da letto, inquietante – e davanti a noi c’era un frigo.
Un frigo molto grande, tanto grande che era quasi sicura che non ci conservassero la coca-cola, lì dentro.
Poi c’erano diversi piani di lavoro, tutti con un taglio piuttosto moderno e dalle fattezze molto serie, e mi sentii molto inopportuna, in quel posto.
C’era anche una scrivania, all’angolo, con un computer – un Mac, per la precisione, addirittura più grande delle ultime versioni.
Ashley continuava a non fare niente, così anche io continuavo a non fare niente.
Ammetto che, nonostante il lavoro potenzialmente inquietante, ero piuttosto felice di non dover uccidere nessuno – erano già tutti morti, evviva!
Eppure, nonostante la mia anima in pace – non mi sentivo tranquilla: potevo considerare Ashley la mia ipotetica alleata per quella pazza giornata?
In realtà, nonostante l’esuberanza e gli interminabili racconti sulla sua vita, non mi fidavo tanto.
Poteva certamente essere persino la mia migliore amica – dove fosse finita Raven, poi, neanche ci pensavo – eppure non riuscivo a parlare del Problema.
Era ormai evidente: se volevo trovare le risposte che cercavo, se volevo davvero dare un senso a quella patetica avventura, dovevo trovare la mia fantomatica alleata (o il mio fantomatico alleato, niente discriminazioni).
E per trovarlo, dovevo già conoscerlo.
Il che restringeva il campo a Michael Clifford, ma non avrei mai raggiunto quel fantomatico decimo piano per niente al mondo.
Quindi, non mi restava altro che cercare i miei vecchi amichetti (e il campo si era ristretto ulteriormente), ma come?
Nella mia mente, una forte voce che gridava a squarcia gola “FACEBOOK” si fece parecchio presente, quindi decisi di darle ascolto.
Certo, dare un’utilità a quell’abominevole social network era un affronto al mio orgoglio, ma non mi restava altra scelta.
Anche perché il mio cellulare (un iPhone 6, così incredibile per me ma così catorcio per il 2025) era fuori uso – o meglio, non avevo idea di quale sarebbe potuta essere la password.
Ma come facevo ad usare facebook se stavo lavorando?
Fingere di stare male in un ospedale, come avevo già accennato, era una pessima idea.
E cosa potevo fare se non sembrare idiota per l’ennesima volta?
“Ehi Ashley…”
“Sì?”
“Ma se io… tipo… non avessi voglia di lavorare?”
“Parliamoci chiaro, Evans: vuoi usare il bonus adesso?”
E io non avevo proprio idea di cosa fosse il bonus, ma annuii comunque.
“Ok, allora vai. Ti copro io”
Sapevo solo che quel bonus mi piaceva tanto.
Sorrisi grata alla mia nuova amica, mentre già puntavo lo sguardo nel fantomatico Mac. Speravo almeno che la Apple non avesse complicato ulteriormente il sistema operativo – non volevo peggiorare ulteriormente la situazione.
“Devi solo firmare un po’ di cose, poi puoi fare quello che ti pare”, disse lei, prendendo una pila di fogli da un cassetto della scrivania.
Cominciò a compilare la prima riga, poi mi porse carta e penna.
Fortunatamente, mi indicò lei dove firmare, con un sorrisetto incuriosito sul viso.
Grazie al cielo, nonostante la mia evidente confusione, non fece domande.
“Oh, vuoi vedere la signora Leeds? Mi hanno detto che è disgustosa!”, rise lei.
Ed ero quasi sicura che si trattasse di un morto, quindi non me la sentii proprio di ridere.
Anche io ero come Ashley? Anche io ridevo per i morti?
Certo, gli zombie mi piacevano, e avevo una cotta per gli scheletri di Tim Burton; ma davvero queste mie stranezze mi avrebbero portato a quel punto?
“Forza, vieni!”, si avvicinò al grande frigorifero (in cui preferii non sbirciare – e ne tirò fuori una barella.
Quello era decisamente un cadavere, sì. E non mi andava proprio di scoprire la creatura ‘disgustosa’ dal telo bianco candido che la ricopriva.
“Dicono che la dobbiamo dissezionare!”, gongolò.
Non sapevo che razza di mondo ci permettesse di fare una cosa del genere su un corpo umano, ma proprio non mi andava di indagare.
Inoltre, il fetore che emanava era tanto forte da farmi quasi svenire.
Era così che passavo le mie giornate?
Poi, mi illuminai. Letteralmente.
E il motivo era uno solo: l’utensile che Ashley aveva appena afferrato.
Era la mia anima nerd ad agire, lo giuro, non fui io.
Fatto sta che di fronte a quella meraviglia della tecnologia non potetti fare a meno di ridere e rubargliela tra le mani.
Signori e signore, ebbene sì: nel 2025, per dissezionare i cadaveri, si usavano le spade laser.
Ma non semplici spade laser, no: erano un plagio bello e buono di Star Wars, e come potevo non fare niente a riguardo?
“Sfidami, Ashley. Io faccio la Jedi e tu fai il S…”
“E magari rischiamo il licenziamento come l’altra volta. Già hai rischiato di farti arrestare al Comic Con l’anno scorso, vuoi pure perdere il lavoro, adesso?”
E lì realizzai una cosa importante. Tralasciando il fatto che le spade laser vere dal vivo fossero l’ottava meraviglia del mondo, scoprii una cosa molto importante della Angie ventottenne: nonostante gli anni fossero passati, ero rimasta una grande testa di cazzo.
E pure intelligente, dato che ero laureata in medicina.
Può sembrare stupido, ma non ho paura di ammetterlo: in quel momento, per la prima volta in tutta la mia vita, mi sentii fiera di me.
E tutto grazie ad una spada laser.
 
 

Quando avevo preso posto nella scrivania, Ashley mi aveva lanciato uno sguardo diffidente.
Forse perché non ero ancora uscita dalla camera dei morti nonostante avessi usato il bonus (Dio benedica il bonus, di cui ancora non avevo colto la natura), forse perché avessi esultato quando avevo constatato che sì, facebook esisteva ancora, o forse perché continuavo a ridere davanti allo schermo ogni tre secondi.
E no, non stavo guardando video divertenti di gattini vestiti da persone – quello era il compito di Raven, ricordate? – ma stavo girovagando su facebook.
Avevo aperto il diabolico social network con l’intenzione di trovare il mio Alleato (con la ‘a’ maiuscola, perché ormai era diventata una questione di vita o di morte), poi mi erano venute in mente una serie di cose: la strafiga della scuola, il capitano di football, la sfigata secchiona…
Ebbene, feci le seguenti scoperte:
Hayley Houston, ragazza dai facili costumi, era diventata una modella di discreto successo che pubblicizzava delle calze rimodellanti per una agenzia di Denver.
Michael (un altro) Jhonson, grande sportivo, insegnava basket (non football, basket) in una scuola media dell’Ohio.
Vicki Wilson, il piccolo genio inglese emigrato in America per una serie di sfortunati eventi, aveva guadagnato soldi con una piccola invenzione di cui ancora mi erano oscure le utilità, e con i soldi guadagnati si era rifatta le tette. Poi era caduta in miseria, e in quel momento lavorava in un supermercato in Florida.
I futuri che trovai, lo ammetto, non furono tanto entusiasmanti; eppure, era diventata una droga: avevo cominciato a cercare tutte le persone che mi venivano in mente.
Danny faccia da rospo, a discapito delle leggende cinematografiche, era rimasto grasso e brutto; tuttavia, era il direttore di un negozio di antiquariato, sempre nella periferia di Boston.
Louise la stilista, invece, era morta l’anno prima di cancro – il che mi fece pensare che ‘diavolo, non hanno ancora inventato una cura per il cancro?’, poi pensai che ‘Oh, ma anche io sono medico…’, conclusi sorridendo perché ‘Le spade laser sono proprio una figata’.
Jennyfer la ragazzina antipatica che se la tirava tanto, invece, si era sposata con un vecchio ricco che anche lui, pover’uomo, era stato fregato dalla sfiga e l’aveva finita senza un soldo. La biondina faceva la commessa in un centro commerciale del Texas.
E così, tanti altri.
Cercai pure Raven: si era trasferita in Norvegia, lei, ed era felicemente (o almeno si sperava) sposata con un bel ragazzo del posto. Lavorava come imprenditrice lì. La forte consapevolezza che forse la nostra amicizia era spezzata da un pezzo si fece chiara, ma fui felice della sua felicità.
Luke Hemmings, invece, aveva il profilo privato. Tuttavia, mi concessero la visione della sua immagine del profilo: era diventato persino più figo di dieci anni prima, e sorrideva insieme ad una bellissima ragazza dai capelli rossicci e gli occhi verdi. Erano davvero bellissimi, quei due.
Dopo il divertimento, però, pensai al dovere.
Come trovare una persona che già conoscevo, strana, credulona e abbastanza andata da starmi ad ascoltare e rispondermi pure?
Il suo nome arrivò, quasi subito.
Lo cercai.
Lo trovai.
E risi, risi davvero tanto – e fanculo le occhiate strane di Ashley.
Risi, perché cazzo, io sapevo fin dall’inizio come sarebbe andata.
E risi ancora.
 
 
 
***
 
 
Ci fissavamo, senza dire una parola.
Io cercavo ancora di trattenere una risata (non mi sembrava il luogo adatto per lasciarsi andare), mentre lui mi guardava quasi incredulo – sembrava felice della mia presenza, comunque.
Indossava una tuta arancione  - così come tutti gli altri, d’altronde – e pensai che proprio quel colore non gli donasse per niente.
Si schiarì la voce, e io con lui.
Poi, mi sorrise; fossette abissali comprese.
“Come stai, Angie?”, era allegro, il ragazzo.
Fece pure per abbracciarmi, ma una delle guardie lo fermò severo.
Lui ubbidì.
“Alla grande Ashton. Tu?”
Mi sembrava una domanda piuttosto stupida, la mia, ma lui non ci fece neanche caso.
“Bene, mi sono ambientato ormai”, gongolò “All’inizio mi sentivo a disagio, nelle docce. Poi il mio compagno di stanza era piuttosto burbero, e anche un tantino violento. Ma ora con me c’è Fred, e Fred è simpatico”
“Davvero?”, feci, interessata “Sono felice che tu stia bene con Fred”
“Oh sì! – esultò, allargando il suo sorriso – ha ucciso una ragazza, in macchina, ma lui dice che non l’ha fatto apposta e io gli credo. Fred è una brava persona”
Una persona grandiosa, Ash.
Me lo chiesi, eccome se me lo chiesi. Mi credete stupida, per caso? Certo che me lo chiesi: in che cazzo di guaio ti stai cacciando, Angie? Stai davvero chiedendo aiuto ad Ashton Irwin?
“Se lo dici tu…”
“E comunque, avevi ragione”, si riscosse improvvisamente.
“Riguardo a cosa?”
“Riguardo a Heaven. Heaven non mi amava”
E ci credo bene, Irwin, ti hanno dato quattro anni per stalking, amico.
“Però ancora non ho capito dove ho sbagliato…”
“Beh – cominciai, cercando sempre di non ridere – la seguivi di notte continuamente, non va bene. Poi hai picchiato suo fratello pensando fosse il suo ragazzo… per non parlare di quando sei entrato in casa sua di nascosto… e insomma, vi siete lasciati da parecchi anni. Sono cose che le ragazze trovano… poco attraenti, ecco”, cercai di spiegarmi.
Lui sospirò, e sembrò riflettere seriamente sulle mie parole.
Poi “Già, forse hai ragione”, commentò, con lo sguardo basso.
Si riscosse nuovamente, puntando i suoi smeraldi su di me e sorridendo nuovamente.
“Mi sei mancata, sai? Da quando sono entrato, mi sei venuta a trovare solo una volta. Ed eri con Michael e lo sgridavi dicendo che ‘guarda con chi mi hai fatta uscire, allocco’, e ridevate, e non abbiamo parlato di Heaven e io volevo parlare di Heaven…”
Per un attimo mi immaginai la scena descritta da Ashton, e capii che eravamo davvero crudeli, io e Clifford. Pensai pure che, se non fossimo stati noi due, avrei definito i due una bella coppia.
Ma eravamo noi due e non eravamo una bella coppia.
“Ashton – lo richiamai, nuovamente – ti ricordi della nostra uscita?”, decisi di cominciare Il Discorso.
Era arrivato il momento.
“Sì, le luci di quel Luna Park erano proprio belle”
“Già, bellissime – lo liquidai velocemente – ti ricordi Calum Hood?”
“Calum Hood?”
“Sì, Calum Hood”, ci pensò un po’.
“Era il tizio delle giostre? Quello che fumava canne in faccia ai bambini?”
Sbuffai “No, quello è Bob. Calum Hood è – cioè, era il sensitivo maschio, ricordi?”
“Oh! – esultò – quello che tu prendevi per il culo?”
Stupido karma…
“Sì, proprio lui. Ecco, ti devo parlare di una cosa che è successa…”
E così, gli parlai di tutto.
Descrissi tutto nei minimi dettagli, da Michael Clifford con dei pettorali veri al colore delle trapunte, descrivendo persino il mio stato d’animo.
Parlai della mia conversazione con Calum Hood, della spada laser, e anche dei capelli blu di Ashley.
Parlavo, senza mai fermarmi, come un fiume in piena, e lui ascoltava attento ogni mia parola.
Non mi rise in faccia neanche una volta, anzi, dopo ogni parola si faceva sempre più interessato.
Non l’avrei mai detto a voce alta, mai, ma quel giorno Ashton Irwin si rivelò molto più di un Alleato: fu la mia ancora di salvezza.
Non pensavo che viaggiare nel tempo fosse così stressante (anche il fattore ‘ma sono diventata scema?’ non è da sottovalutare), ed esprimere tutte le mie parole a voce alta mi levò un peso dal cuore.
Ashton Irwin, quel giorno, fu il mio migliore amico.
“Wow”, sussurrò.
“Già”, gli diedi ragione, quasi con il fiatone. Ero quasi sicura che il mio discorso non avesse molto senso, ma a lui sembrava andare bene lo stesso.
E io non avevo bisogno d’altro.
“Sono felice che tu abbia pensato a me, Angie – disse, felicemente – sai, avevo l’impressione di non starti molto simpatico”
Dici, Ashton?
“Ah, che sciocchezze”, ridacchiai, accompagnando l’esclamazione ad un gesto disinteressato della mano.
“Pensavo che avresti chiamato Michael, in una situazione del genere”
“Chi Clifford? – lo derisi, quasi – e chi si fida di lui”
“Dovresti. Lui ti ama molto, Angie”
Inconsapevolmente, mi stava dicendo proprio quello che volevo sapere.
Eppure, sentirlo finalmente, mi fece uno strano effetto.
Una parte di me era felice: mai avrei pensato di trovare una persona che mi amasse davvero, mai.
L’altra parte di me, tuttavia, continuava ad urlarmi ‘Ma è Michael Cazzone Clifford!’, ed era una parte piuttosto convincente.
Mi schiarii la voce e “Vorrei sapere proprio di questo…”, sussurrai.
“Vuoi sapere come ti vanno le cose? Vuoi sapere come vi siete messi insieme, quando? Vuoi sapere con chi uscite, cosa vi piace fare? Vuoi sapere come ti ha chiesto di sposarlo? Come avete scelto casa vostra? Oh, questa è una storia piuttosto divertente ti piac –“
“No – lo interruppi, nonostante la curiosità mi stesse mangiando viva – non voglio sapere queste cose”
“Oh… allora cosa vuoi sapere? Risponderò a tutto!”
Mi sorrise. E il suo sorriso aveva perso una parte della sua inquietudine, il che fece sorridere pure me.
“Io… ecco, io sono felice?”, gli chiesi, quasi timorosa.
E anche se era piuttosto stupido chiedere quelle cose ad un carcerato, era l’idea migliore, in quel momento.
“Tu sei molto felice. Sia per il lavoro che con Michael”, disse felice “E io sono felice per te”
Mi si sciolse il cuore, a quelle parole, ma cercai di non darlo a vedere: avevo una reputazione, io.
“Pensi che la me diciottenne sarebbe fiera di me?”
“Sarebbe onorata di essere te, Angie”
Allora ridacchiai “Mi diverto?”, mi guardò confuso, allora mi spiegai meglio “Voglio dire: ho un fidanzato, un lavoro stabile… ma mi diverto? Vado ancora ai concerti, alle fiere, viaggio in giro per il mondo?”
“Beh – cominciò, con uno sguardo divertito – ai concerti ci vai, ma fanno sempre sold out in dieci secondi, le band. Quindi tu ti imbuchi sempre. Per il mio compleanno mi hai spedito un libro scritto da te: 1001 modi per imbucarsi ad un concerto”
Una sensazione di fierezza mi riempì il cuore di gioia, e quasi mi scese una lacrima.
Quasi, perché la scacciai con la mano prima ancora che cominciasse il suo percorso.
“Alle fiere? E’ più probabile vederti con indosso qualche costume strano di qualche personaggio dei fumetti che in jeans e maglietta. E non ti perdi neanche una fiera di qualche cibo nel raggio di 200 km”
Ergo, non avevo mai smesso di cosplayare. Mi aveva dato un assaggio Ashley, di questo mio aspetto, ed averne un’ulteriore conferma mi rendeva ancora più felice.
“Se viaggi? Hai passato il natale in India, a cavalcare elefanti. Mi hai mandato una cartolina dove dicevi ‘guarda, sto cavalcando Heaven!’. Va bene che è ingrassata, ma è stato poco carino da parte tua, Ashton”
Dentro di me esultavo, cercai di nasconderlo  “Hai ragione, Ashton. Sono stata una sciocca”
“Ti perdono, non temere”
“Ti ringrazio. Ma ora, ecco… mio fratello?”, la mia famiglia mi interessata parecchio.
Non volevo chiedere di mia madre, avevo paura di saperla morta da chissà quanto tempo, ma con mio fratello me la sentivo di rischiare.
“Tuo fratello? – rise – è proprio dietro di te”
Non feci neanche in tempo a girarmi, che sentii un braccio stringermi le spalle, con fare rassicurante.
Avrei riconosciuto quella presa da rammollito ovunque: era proprio il mio fratellone.
Avevo proprio voglia di abbracciarlo, ma non lo feci: che figura avrei fatto? Poi me l’avrebbe rinfacciato a vita, ne ero certa.
“Sei venuta a trovare la tua vecchia fiamma, Angie? Corro a dirlo a Michael, adesso”, mi prese in giro.
“Preferisco lasciargli la sorpresa il giorno del matrimonio, non temere”
“Sei proprio crudele. Come fa quel ragazzo a sopportarti, poi, non lo so”
“E’ l’avvocato di Fred” spiegò Ashton, come se qualcuno li avesse davvero chiesto qualcosa.
Tuttavia, apprezzai l’intervento.
“Oh, ti occupi di grandi personaggi tu, eh?”
“Disse quella che passa il suo tempo con i cadaveri”
“E spade laser, prego”
“Non me ne hai ancora regalata una, stupida. Le cene di Natale sarebbero tutte più divertenti così, ma tu non mi dai ascolto…”, mi rimproverò.
“Sono quasi sicura che sia illegale”
“E io sono quasi sicuro di essere io, la legge”
“No, non credo”
E mentre lui si perdeva in uno dei suoi lunghi discorsi senza senso, tra le risate di un Ashton più felice del solito, gli lanciai uno sguardo sulla mano sinistra.
Una fede, aveva una fede.
Il mio fratellone era sposato, allora.
E io non mi sentii mai felice come allora, in tutta la mia vita.
 
 
***
 
 
Non mi trattenni in prigione a lungo.
Dopo aver conosciuto Fred – che continuava a guardarmi in modo strano, se devo dirla tutta – decisi di dover proprio andare.
Non avevo neanche pranzato, il che mi sorprese parecchio.
Eppure, non avevo per niente fame.
Ero tornata a casa in taxi (grazie al cielo avevo controllato l’indirizzo, prima di seguire Michael Clifford in macchina, quella mattina), e avevo passato tutto il tempo a frugare tra le cose.
Avevo persino trovato uno ‘scatolone dei ricordi’, ma avevo preferito non guardare.
Mi ero tenuta alla larga anche dalle foto appese per tutta la casa, combattendo contro la me curiosa fin troppo spesso – ma era la stessa me che mi aveva messa in quella situazione di merda, quindi mica mi fidavo tanto.
Ad un certo punto della giornata, poi, un Michael Clifford piuttosto incazzato mi aveva chiamato al telefono gridando un ‘Dove cazzo sei?!’ spaventoso. Si rilassò solo dolo un ‘Shallati’ dall’accento giamaicano e con un voce molto simile a quella di Bob Marley.
E mi ero quasi dimenticata, io, della famosa serata con Vivian allergica ai granchi (Magnifici Granchi, prego) e altri sconosciuti.
Ero preoccupata di avere a che fare con ulteriori personaggi sconosciuti.
Ma mai quanto lo ero nel vedere Michael Clifford intento a cucinare.
Io mi ero occupata di apparecchiare la tavola inconsapevole del fatto che quella mia manovra avrebbe portato un’oscura conseguenza: sarebbe stato Michael Clifford ad occuparsi del cibo.
Sembrava a suo agio, tra fornelli e pomodori, ma continuava a non convincermi affatto.
“Ho un’idea”, feci.
Ero seduta in un posto del tavolo, e continuavo a fissarlo pensierosa, continuando a mangiare dei grissini.
“Puoi smetterla di mangiare? Ti rovini l’appetito così”
“Lo dici solo perché vuoi una moglie magra”, sbuffai.
“Se avessi voluto una moglie magra ti avrei già lasciata da un pezzo”
“Che maleducato” dissi, scuotendo la testa.
“Disse quella che continua ad insultare la mia cucina”, mi accusò.
“E in tal proposito – feci saggia – vorrei stabilire alcune regole”
“Tu e le tue stupide regole…”
Lo ignorai “Regola numero uno: se bruci qualcosa, paghi tu”
Si fermò un attimo, rivolgendomi un’occhiata confusa e “Sei così tragica”, mi disse.
Lo ignorai ancora.
“Regola numero due: se fai esplodere qualcosa, paghi tu”
“Non ti preoccupi di eventuali danni alla nostra salute?”, ridacchiò.
“No. Regola numero tre: se rompi qualcosa –“
“Pago io?”
Annuii soddisfatta, smettendo finalmente di mangiare quei dannati grissini.
Altro che moglie grassa, si sarebbe ritrovato una balena sul letto, quel Clifford.
“Impari in fretta”, feci finta di adularlo.
“Zitta e vai ad aprire, donna”
Ero quasi sul punto di prenderlo a colpi con il mestolo che stava utilizzando proprio in quel momento, ma non me la sentii di far aspettare ulteriormente la gentaglia alla porta.
I suddetti intrusi, infatti, stavano bussando con un’enfasi più spropositata del lecito.
Potetti giurare di aver sentito pure un ‘smettetela di limonare e muovetevi!’, per cui Michael Clifford ridacchiò.
Rideva, lo stronzo, capite?
Peccato che neanche il mio odio per l’essere mi distrasse dalle mie azioni: stavo andando ad aprire ai miei amici.
E sicuramente avremmo cominciato conversazioni pazzesche su tante avventure passate e, oltre a spoilerarmi vita morte e miracoli, sarei passata per quella idiota che non si ricordava niente e che si limitava a sorridere.
Una cosa positiva, però, c’era: a furia di stare a stretto contatto con Michael Clifford, avevo perso ogni timidezza nei confronti del genere umano; ergo, avevo già toccato il fondo, quindi ero capace di dare confidenza anche ad un sasso.
Almeno così, i miei amici non avrebbero avuto niente da ridire sul fronte affettivo.
Mi ero avvicinata emotivamente persino a Michael Clifford (erano litigate innocue, le nostre), il che era tutto da dire.
Così mi feci coraggio, e aprii la porta.
“Era ora, piccola Angie!”, un uragano più alto della porta mi travolse, stringendomi in un forte abbraccio.
Quasi non sentii il ‘Ehi, giù le mani dalla mia donna!’ di Clifford, tanto ero incredula di fronte a quella dimostrazione d’affetto.
Ma non tanto dal gesto in sé, ma dalla persona in questione.
Ebbene, non era niente popo’ di meno che il grande Luke Hemmings.
Neanche speravo, di vederlo. Eppure eccolo lì, con la sua altezza spropositata, i suoi cappelli biondi naturale e il sorriso di uno che mi è stato amico per tanto, tanto tempo.
Era cambiato, nel corso degli anni – grazie al cielo, sarebbe stato strano il contrario.
I lineamenti erano molto più maturi, la barbetta era diventata un must del suo stile, e non aveva più il piercing al labbro – Michael l’aveva tenuto, invece, quello al sopracciglio.
Eppure, i suoi grandi occhi azzurri erano rimasti assolutamente immutati.
E fu guardando quelle perle preziose che ricambiai la stretta del biondo, quasi con più forza della sua, e mi sentii così felice.
Ero davvero felice di vederlo, già.
Poi pensai che ‘Davvero Michael Clifford e Luke Hemmings sono rimasti amici per tutto questo tempo?’, e mi emozionai ancora di più.
Michael Clifford era una persona di merda, e Luke Hemmings era una persona troppo dolce.
Eppure, insieme, erano la coppia perfetta. E lo erano anche nel 2025.
“Ora lascia la sposina a me, Lukey”
“Oh, tesoro, dovevi solo chiedere. Lo sai che farei di tutto per te”
Sentii una risatina femminile, prima che il caloroso corpo di Luke Hemmings mi abbandonasse.
E allora, scorsi una chioma rossiccia, e due fari verdi; la riconobbi subito (una bellezza del genere non si dimenticava): era la ragazza della foto del profilo.
E molto probabilmente era anche la Vivian a cui non piacevano i Magnifici Granchi – brava ragazza.
“Angie, come stai?”, anche lei mi abbracciò, ma con un tocco ben più delicato del biondo.
Profumava di lavanda.
E tutta quella perfezione, mi intimidì.
“B-bene, tu?”, balbettai. E sembravo proprio scema, quando balbettavo.
“Alla grande!”
E poi passai all’ultimo ragazzo rimasto, ma quello non l’avevo mai visto.
“Troppe coppie felici”, disse, poi mi abbracciò.
Alla sua pseudo-lamentela risposi con una semplice risatina.
Era alto pure lui, forse un po’ più basso di Clifford. Aveva i capelli rossi e gli occhi verdi pure lui, al che pensai fosse imparentato in qualche modo con Vivian.
Effettivamente anche i loro lineamenti del viso si assomigliavano un po’, ma lasciai perdere le indagini – avevo ben altro a cui pensare, per esempio come passare la serata senza complicazioni.
Tutto quello di buono che potevo tirare fuori da quella giornata l’avevo tirato fuori con Ashton Irwin: la missione era compiuta. Dovevo semplicemente tenere fede al secondo comandamento della lista di Raven e tutto sarebbe andato bene.
“Non stai cucinando granchi, vero?”
“Non potrei mai”, rispose Clifford. E quasi mi arrabbiai quando non fece anche a lei la partaccia sui Magnifici Granchi, ma preferii non commentare.
“Ah, Angie… - mi richiamò Luke, mentre fissava divertito le performance di Clifford alle prese con della carne – non avresti mai dovuto regalargli quel corso di cucina…”
Ognuno aveva preso posto nel tavolo apparecchiato, lasciando due posti vicini l’uno all’altro.
Mi sedetti anche io.
“Ma doveva! – intervenne il sosia di Ed Sheeran (che fine aveva fatto, poi, Ed Sheeran?) – era l’anno dei regali di Natale di merda!”
L’anno cosa? Che nel corso degli anni fossimo diventati ancora più strani? Era forse possibile?
“Effettivamente conservo ancora la scultura di grucce che mi avevi regalato”, fece Hemmings, guardando il ragazzo misterioso divertito.
“Ehi, quella è arte”
“Sì, lo dicono tutti…”
“Zitti, ora, non siamo qui per questo!”, li interruppe subito la ragazza, ma non sembrava affatto arrabbiata.
Anzi, era più elettrizzata che altro.
Mi rivolse un sorriso dolce, e ancora non riuscii a rimanere indifferente davanti a tutta quella perfezione.
Non mi sorprendeva affatto che Luke Hemmings si fosse fidanzato con una ragazza simile.
“Dobbiamo parlare del matrimonio del secolo e prendere grandi decisioni su Michael e Angie!”, continuò.
E al diavolo la bellezza paradisiaca e gli occhietti dolci, bella merda di serata.


 
“No!”
“Ti dico di sì, invece”
“Michael, non affitteremo un cavallo rosa”, sbuffai, per l’ennesima volta.
“Il nostro viaggio romantico verso il ricevimento merita un cavallo rosa, Angie!”
“Sai cosa non merita? La pausa cacca, ecco cosa non merita”
Ci lanciavamo sguardi di sfida, e quasi mi sembrò di tornare indietro ai cari bei vecchi tempi del liceo.
Poi lui mi sorrise dolcemente, e rovinò tutto ancora una volta.
Sbuffai.
“Quindi – Vivian ci guardava divertita – cancelliamo il cavallo rosa dalla lista di Michael?”
Per quanto mi costasse ammetterlo, quella si stava rivelando una grandiosa serata.
Non mi ricordavo neanche l’ultima volta che avevo riso così tanto.
Avevano scelto un gioco carino: io e Michael dovevamo scrivere una lista ciascuno in cui decidevamo dei particolari del matrimonio. Luke e Vivian leggevano i punti della lista, e poi ne discutevamo.
Infine, Wade, si limitava a ridere rumorosamente, con la sua birretta in mano, e commentava ogni tanto.
La cena era finita da un pezzo (ed era pure deliziosa, maledetto Clifford), eppure nessuno di noi era intenzionato a porre fine alla serata.
“Ma bruciala direttamente, quella lista”, feci alla ragazza, che di tutta risposta rise insieme al suo fidanzato.
“Ancora non ho capito perché ti ho chiesto di sposarmi”, sbuffò invece Michael, nonostante avesse un gran sorriso stampato in faccia.
Ero stufa di quello stupido sorriso, ma feci comunque finta di niente.
“Perché sa ballare il tip tap!”, e dopo la grande battuta, Wade riprese a ridere senza freni.
Era proprio uno strano ragazzo.
“Quartetto d’archi per la marcia nuziale”, lesse Luke.
“No!”, urlò invece il mio fantomatico marito, alzandosi di colpo dal divano su cui ci eravamo stabiliti.
“Dobbiamo far cantare ‘Ave Maria’ a zia Mary!”
E io la conoscevo, quella zia Mary. Dopo aver fatto fallire il suo negozio di fiori, si era dedicata al canto lirico.
Eppure, le sue performance sembravano più parodie che altro.
“Non ci penso neanche!”, risi di gusto, solo immaginandomi la mitica zia Mary alle prese con un brano del genere il giorno del mio matrimonio.
“Ma sarebbe trooooppo divertente”, rise anche lui.
E allora “Cavolo, hai ragione – mi costò tanto ammetterlo – vada per zia Mary”
Lui mi diede il cinque, soddisfatto, per poi puntare lo sguardo su un Luke incredulo e una Vivian divertita.
“Siete proprio strani”, commentò Wade, alla sua quinta birra.
“E riprendiamo la lista di Michael: acrobati cinesi vestiti di giallo”
La ragazza, dalle risate, fece pure fatica a dire quelle parole.
“Perché vestiti di giallo?”, chiesi invece, cercando di ignorare un Wade che si stava soffocando con la sua birra.
“Non credo che sia questo il punto”, sussurrò Luke.
“Ma il giallo stonerebbe troppo”
“E’ per creare distacco con i colori pastello”
“Ma allora facciamoli rossi, no?”
“Siete molto strani”, fece ancora Wade.
“Perché rossi?”, mi chiese Clifford, più interessato che mai.
“E’ un colore più figo, no? Lo spettacolo sarà più coinvolgente con un colore così forte, no?”
E gli acrobati cinesi erano davvero divertenti, anche se abbastanza assurdi in un matrimonio, ma questo non lo dissi.
“Non vedo l’ora che mamma Karen veda questa lista”, disse Luke, scuotendo la testa divertito.
“Abbiamo noi il potere – rispose Michael, mettendomi un braccio intorno alle spalle – non può combattere il volere dei protagonisti”
E cercando di ignorare quel fastidioso peso sul mio corpo, pensai alla famosa Karen.
“Io dico che può”
“E lo sappiamo tutti – rise ancora, Vivian – ma ora andiamo avanti con la lista… la torta con la faccia di David Bowie si fa o non si fa?”
 
 
Avevamo deciso tante cose, del matrimonio: ci sarebbe stato un invitato strano ad ogni tavolo (in quello dei genitori avevamo scelto un imitatore di Jackie Chan, per noi invece un Elvis preso dalle strade di Las Vegas), per il rcevimento ci sarebbe stata una cover band dei Franz Ferdinand (e ‘quanto siete antichi!’, ci avevano detto), inoltre avevamo deciso di mettere cupcake colorati per tutti i tavoli.
Lasciarono la casa che erano le 2.30, con un Wade ubriaco e Vivian con la ridarella.
Meno male che c’era Luke, sempre con la testa sulle spalle, e aveva risolto lui la situazione.
“Non vedo l’ora di leggervi il mio discorso da testimone”, ci aveva detto, prima di uscire.
E anche io volevo sentirlo, magari con un altro marito al mio fianco.
Gli avevamo augurato la buonanotte, e una volta chiusa la porta, mi sentii in imbarazzo.
Sapevo cosa dovevo fare: andare nel letto insieme a Michael.
Lui già era entrato, in camera. Io con la scusa del ‘devo bere’ mi trattenni qualche momento in cucina.
E lì sì, che arrivarono i problemi, quelli a cui non avevo pensato per tutto il giorno.
Quelli che arrivavano con la notte, e ti spaventavano, tanto.
‘E se non mi svegliassi nel 2015, domani? E se rimanessi ventottenne per sempre? E se mi perdessi i miglior anni della mia vita? E se non mi conoscessi nemmeno? Cosa avrei fatto, allora?’
Avevo dato per scontato che mi sarei svegliata nella mia realtà, eppure, in quel momento i dubbi furono tanti.
E avevo voglia di scappare, di trovare Calum Hood, di guardarlo dritto negli occhi e poi picchiarlo, picchiarlo forte.
“Angie”, sentii una voce chiamarmi, lieve, e subito dopo una figura.
Michael Clifford indossava dei pantaloni grigi, probabilmente di una tuta, e una maglietta a maniche corte dei Radiohead, parecchio scolorita.
“Tesoro”, mi raggiunse, e mi abbracciò forte.
Passò la mano sulla mia schiena, con dolcezza, quasi volesse portare via così il velo di tristezza nei mie occhi.
Chiaramente non sapeva di essere lui stesso la causa della mia tristezza, ma era meglio così.
E lui mi guidò fino alla nostra camera, ancora stretto a me, con mosse davvero impacciate che mi fecero ridere.
Lui rideva insieme a me.
Quasi fui tentata di chiedergli di andare a dormire sul divano – ma dopo quella serata non mi sembrava davvero il caso.
“Buonanotte, Angie”, mi sussurrò ad un orecchio.
Eravamo messi a cucchiaio, e il disgusto per quella posizione soppiantò per un attimo i miei timori.
Le cose non erano cambiate: io odiavo ancora Michael Clifford, nonostante l’incredibile giornata. E avrei continuato ad odiarlo.
Quindi, in nome di quella stupida polverina, speravo di avere almeno dieci anni di tempo per convincermi a sposare quello strano ragazzo.
E saperlo al mio fianco, in quel momento, paradossalmente mi diede più forza di sperare.
Speravo, speravo tanto.
E intanto pensavo agli acrobati cinesi.
“Buonanotte, Clifford”
Ma non sembrava esattamente una notte buona, quella.
Io, in un modo o nell’altro, continuavo a sperare.
 
 
 


Que sera, sera
Whatever will be, will be
The future's not ours to see
Que sera, sera
What will be, will be



 
Angolo autrice

Cioè, ragà, sono tornata. Alzi la mano chi se lo aspettava!
No sul serio, questa volta ho la scusa migliore del secolo.
In pratica le mie due più grandi amiche (ho amici, lo giuro, ma solo loro due shhh) sono state investite lo STESSO GIORNO in due parti completamente diverse della città e boh, dopo un momento in cui ho riso tanto perchè 'ah, che sfigate!', c'è stato il panico e sono andata a trovarle in ospedale. Ebbene, la Fede si è solo fatta un po' male al piede ma è una scenosa pazzesca, invece la Vane si è rotta la gamba e l'hanno operata povera.
E insomma, ero troppo occupata a fare la buona amica offrendo pranzi e pranzi della Mc alle due sfigate e non ho scritto niente. 
Che poi, con le mie battute di humor nero sono diventata bff con il dad di Fede, mentre la madre della Vane non ha apprezzato tanto e mi ha cacciata dalla camera della figlia wtf. Ebbene sì, non posso più andare a trovare Vane quando c'è la madre perchè mi trova "inopportuna" - la storia della mia vita.
 

MA PASSANDO AL CAPITOLO 

Non sono soddisfatta, per niente, ma contemporaneamente sentivo di non poter migliorare le cose.
E' stato un PARTO cavolo, neanche vi immaginate. Ma vi prego di non odiarmi.
Non so se vi aspettavate un cambio d'idea su Michael durante il capitolo, ma sappiate che non ci sarebbe mai stato.
Poi che le cose tra Mike e Angie sarebbero andate così, mi sembrava piuttosto ovvio.
COMUNQUE, grandi notizie: il sequel non ci sarà più. 
Quindi potete evitarvi altre merde, investimenti, Michael Clifford con cAPelli NOrMALI coSa e viaggi nel tempo.
Quindi con il prossimo capitolo finisce la storia.
Al massimo scriverò qualche one-shot (una o due) su questa serie, ma niente di più.


PER QUELLI CHE SEGUONO SIA EUROPE CHE QUESTA, I need consigli:
Aggiorno prima questa, con il finale, o Europe? perchè tipo che quella non la aggirono da più di un mese e mmmmhhh, però dai, decidete voi. Sappiate che in un modo o nell'altro non so quando aggiornerò bc ho la fantasia di un sasso e faccio skifo srry.

Quindi grazie a tutti della lettura, a presto (spero) :)
  
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