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Autore: WhiteWitch    01/08/2015    2 recensioni
Ai caffè seguivano sempre delle chiacchierate molto lunghe. Alle chiacchierate seguivano delle cose molto innocenti, come sfiorarsi le mani. Sheldon aveva un bel modo di toccarmi, molto pacato e pieno di tatto, come se non volesse invadere troppo spazio. Era bello, perché non ha fatto irruzione nella mia vita come un uragano: si è insinuata lentamente, fino a diventare una costante.
Genere: Introspettivo | Stato: completa
Tipo di coppia: Het
Note: nessuna | Avvertimenti: nessuno
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Nda: Buonaseeeera. Dunque, come potete vedere non me ne sono stata con le mani in mano e ho scritto questa One Shot che spero vi piaccia. L'argomento non è dei più leggeri, quindi se secondo voi dovrei inserire come rating il rosso ditemelo e cambio. Ve lo chiedo perché boh, non ero sicura.
Le canzoni sono una parte della storia, ma non sono vincolanti, nel senso che servono più che altro a spiegare meglio. Non lo ho scelte a caso, ci sono per un motivo: se leggete il testo capirete l'attinenza :)
Vi dico fin da ora che la tempistica verbale è stata un esperimento: come vedrete non segue alcuno schema per quel che riguarda la consecutio temporum, dal momento che questa OS è più che altro una sorta di ricordo, un "monologo interiore" come è stato definito, e perciò i tempi cambiano. Si tratta di una scelta voluta, pensata per essere tale. Di solito mescolare i verbi non mi piace, non lo trovo corretto, ma in questo caso non ho potuto fare diversamente: mi sono chiesta come raccontere un'esperienza così e la mia risposta è stata questa. Nel caso vi turbi, vi chiedo scusa :)

Ricordatevi sempre di venirmi a trovare su Gaiman in the T.A.R.D.I.S.
e su Wattpad.


 

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La chiamavano tutti Sheldon ed è morta di overdose da eroina.

Fine. Ecco la storia di Sheldon. Mi piacerebbe poter dire che è una storia diversa e che lei non l'ha mai nemmeno subodorata, quella roba. Vorrei dire che stava benissimo e che non ne aveva bisogno, perché era migliore. Di me. Migliore di me.
In realtà non è vero. Ho imparato che nessuno è meglio o peggio degli altri, siamo tutti una manica di bastardi che su questa Terra nascono e muoiono, uno dopo l'altro, tanti saluti e ciao. Sheldon non era certamente un'eccezione. Eppure fa malissimo, il solo pensiero fa malissimo.
All'inizio ero solo io a chiamarla così, perché studiava quella cosa della teoria delle stringhe, come Sheldon Cooper, quello della serie tv. Il suo vero nome era Greta Stein e viveva a Cambridge, come me, solo che lei abitava in una strada un po' meno infame rispetto a quella dove stavo io.
Me l'avevano presentata per caso una volta. Era un momento in cui ero particolarmente pulito, nel senso che erano almeno due mesi che non mi facevo una pera e se devo essere onesto era una gran noia. Ero sempre incazzato, capite, sempre nervoso. Tutto faceva schifo, non aveva senso. Così quel gran genio del mio amico Chalky mi fa un giorno: «Devi proprio trovarti una tipa, sai».
Era facile per lui, voglio dire, era sempre strafatto. Lui e la sua ragazza, Kelly McCulster, erano sempre così pieni di ero che era un vero miracolo che stessero in piedi. Comunque una sera andiamo in questo locale, un posto un po' di merda a dire il vero, e c'era questo compleanno di una ragazza bionda tutta infighettata. Stava festeggiando insieme alle sue amiche e c'era Sheldon tra loro.
Non ne sono sicuro, ma penso che abbia iniziato a parlare con me perché nessuna delle altre lo faceva. Un po' si era impietosita, ma come darle torto? Non sono un bel tipo alla Louis Tomlinson, con la sua aria sana e pulita, né un tenebroso tipo Johnny Depp. A prima vista sono un mix tra i due: non un bel connubio. E poi Chalcky mi aveva letteralmente piantato tra quell'esercito in minigonna e se l'era svignata. Ero abbastanza terrorizzato.
Quindi Sheldon inizia a parlare con me. Non scatta nessun feeling immediato, chiaro, a lei non piacevo affatto e io avevo gli occhi sulla rossa con i capelli ricci che stava ballando con la festeggiata. La conversazione, tra l'altro, era di una noia assoluta. Che fai tu, che faccio io, bla, bla, bla. Ci scambiamo il numero di telefono, lei se ne va appena può e io vado in bianco.
Ed è strano perché il giorno dopo mi ha mandato un messaggio. Niente di serio e compromettente, era solo un: “Ciao, ti va un caffè?”. E a me andava il caffè, mi andava davvero moltissimo. Scoprire quanto avessi all'improvviso voglia di un caffè mi lasciò praticamente senza fiato.
A quello seguirono parecchi caffè. Ai caffè seguivano sempre delle chiacchierate molto lunghe. Alle chiacchierate seguivano delle cose molto innocenti, come sfiorarsi le mani. Sheldon aveva un bel modo di toccarmi, molto pacato e pieno di tatto, come se non volesse invadere troppo spazio. Era bello, perché non ha fatto irruzione nella mia vita come un uragano: si è insinuata lentamente, fino a diventare una costante.
Da lì ai baci è stato facile e dai baci a qualche carezza meno innocente non c'è voluto molto.
Non posso però dire che stessimo insieme sul serio, almeno all'inizio, perché Sheldon non era una di quelle che lo fanno subito con il primo che trovano. Non che io non volessi fare sesso con lei. Ok, sarò onesto: avevo una voglia che la vedevo, ma è normale, è sempre così dopo un po' che sei pulito dall'ero. Perché con l'ero non si scopa, mai.
E Sheldon... Beh, non vedevo l'ora che decidesse di aver aspettato abbastanza.

Eavesdrop - The Civil Wars

Sapeva che ero stato un drogato.
In parte perché è una di quelle cose che ti restano attaccate addosso, è come se avessi scritto “DROGATO” a caratteri cubitali sulla fronte. La gente se ne accorge, o almeno così penso io. Ho sempre l'impressione che la gente lo sappia.
In parte so che chiese in giro. Incrociò Kelly in una stazione della metro mentre elemosinava qualche soldo per un buco: si ricordò di averla vista nel locale in cui ci eravamo conosciuti, ricordò che era venuta con me e Chalky e due più due fa sempre quattro.
Ero un po' tentato di spararmi una dose, ogni tanto. Anzi, spesso. Però poi mi arrivava un messaggio di Sheldon. “Ho finito le lezioni, mi passi a prendere?”, oppure “Hey, ti va il cinese per cena?”. E allora la priorità non era più la mia pera, ma Sheldon.
Era un po' strano, ma avevo smesso da tempo di chiedermi il perché delle cose. Non aveva senso domandarselo. Non so per gli altri bucomani, ma per me è stata l'ero a farmi piombare in questo stato di indifferenza. Non c'era bisogno di preoccuparsi per il futuro, perché il futuro poteva arrivare sotto forma del buco finale in un qualche cesso pubblico.
Quindi prendevo la mia quotidiana dose di pillole di Sheldon e l'idea era di vedere come andava.

Sheldon si vestiva sempre allo stesso modo. Aveva una specie di fornitura annuale di felpe del Tottenham, che accompagnava a leggins se faceva caldo e a jeans stretti come una seconda pelle se faceva freddo. L'avevo vista con un vestito solo la prima sera, nel locale: un bell'abitino color melone.
Mi piaceva il modo in cui si vestiva, perché era piuttosto confortante. Voglio dire che sapevi sempre come l'avresti trovata. Faceva piacere. È la stessa sensazione che provo guardando Batman Forever, so già che finirà bene. Con Sheldon era così. Era una cosa di cui avevo bisogno, lo ammetto, il sapere sempre che andava bene.
Era sempre profumata. Si lavava i capelli tutte le mattine e odorava di shampoo in modo quasi nauseante, ma mi piaceva un sacco annusarle la testa. Io avevo passato mesi interi senza lavarmi i capelli. Iniziai a usare il suo stesso nauseante shampoo.
Un'altra cosa confortante era la sua crema per le mani. Ne aveva sempre un flacone nella borsa e una sera, dopo averla riaccompagnata a casa, ricordo di averne trovato uno nel cruscotto della macchina, ancora aperto. È come il cliché degli spazzolini nei film alla Bridget Jones, il fatto che ci fosse la sua crema nella mia auto mi spaventò ed elettrizzò al contempo.

Una sera mi invitò a cena a casa sua. Sul momento mi cacai addosso dalla paura, insomma, lei viveva con la famiglia al completo. Nella mia immaginazione vedevo la famiglia Stein come un gruppo di uomini e donne armati di Torah che passano il sabato pregando. Infatti mi sorprese parecchio che l'invito fosse per un sabato sera.
Stavamo insieme da poco – e come ho detto non è che stessimo proprio insieme. Diciamo che io non vedevo altre ragazze e lei non vedeva altri ragazzi. Ma non stavamo insieme. Conoscere la sua famiglia quando non stavamo insieme mi sembrava un po' un azzardo. Decisi che glielo avrei detto subito, non appena avesse aperto la porta, prima di fare una figura di merda con i suoi.
Solo che ad aprire l'uscio dell'appartamento non arriva Sheldon, ma una bambinetta di quattro, cinque anni al massimo. Tutta la mia baldanza scema di colpo e torno a cacarmi addosso.
«Ehm, ciao», le faccio. Santo dio, mi arrivava al ginocchio.
Lei mi guarda con due occhioni verdi e poi si volta. «Greeeeeeeta! C'è il tuo amico!».
Era strano che qualcuno la chiamasse Greta. Non ero abituato a sentirlo. La sua testa di capelli castani e profumati arriva dal corridoio e il sorriso che mi rivolge...
Credo di aver capito in quel momento quanto davvero mi piacesse. Non so se vi è mai capitato di trovarvi nel pieno di un'epifania. Lì sul pianerottolo mi colpisce un'improvvisa ondata di amore profondo nei suoi confronti, un'ondata che mi investe con la forza di un'incudine. E non dico niente quando mi saluta.
D'un tratto mi sento come inadeguato. Lei è vestita bene, ha un vestito nero e le ballerine. Anche la bambina è carina, agghindata come un albero di Natale, una specie di copia in miniatura della sorella. Io ho le Converse e una maglietta dei Black Sabbath.
«Oliver, lei è Esther».
Annuisco. «Ehm».
Mi afferra la mano – Sheldon, non Esther – e mi trascina dentro.
L'appartamento non è nuovo, deve essere almeno degli anni '60, con i pavimenti cerati e la carta da parati color crema. C'è un lungo corridoio sul quale si affacciano alcune porte chiuse, in fondo un arco si apre su una di quelle stanze tipo living, quelle con cucina, salotto e sala da pranzo tutto radunato insieme.
La tavola era rotonda ed era già apparecchiata per cinque. Io, Sheldon, sua sorella e i suoi genitori, o almeno questo credevo all'inizio. Almeno finché non sono spuntate l'altra sorella e la nonna.
Non feci domande, non mi parve il caso. Anche la nonna di Sheldon si chiamava Greta, mentre la sorella di mezzo si chiamava Judith.
Furono molto gentili con me, soprattutto la nonna. Insistette perché la chiamassi per nome e mi trattò subito bene, come uno di famiglia insomma. Avevo temuto che fosse un po' conservatrice, avete presente? La matriarca ebrea che tiene le nipoti in una bolla di vetro. Invece no, mi parve molto contenta di me e di Sheldon.
Le mie paure su quanto stessimo correndo svanirono arrivati al dolce. Sheldon non si comportò da fidanzatina melensa, sempre con la mano nella mia, né la nonna e le sorelle mi trattarono come il suo promesso sposo. Era solo una cena ed io ero solo un tipo che usciva con Sheldon.
L'atmosfera era piacevole, veramente. Era una cosa che non mi capitava da un bel po'. Abitavo da solo, lì a Cambridge, e non partecipavo a una cena in famiglia da almeno un anno. Di solito cenavo con Chalky e Kelly, oppure ordinavo una pizza. Accettai anche una tazzina di uno schifoso caffè al cardamomo che la nonna e le due sorelle più grandi parvero apprezzare senza problemi. Non so dirvi quanto lo abbia detestato, ma allo stesso tempo mi piaceva molto.
Più tardi, quando andai a fare due passi con Sheldon, mi spiegò che la sua mamma era morta due anni prima per un tumore al colon. Suo padre, Ephra, lavorava a Londra e tornava a Cambridge una volta ogni due settimane.
«È veramente difficile», mi disse mentre si sedeva su un muretto. «Insomma, mia nonna ce la mette tutta. Ma Esther non è facile da gestire, è molto capricciosa, e Judith è così scontenta della sua scuola che spesso salta le lezioni. E c'è la casa da tenere in ordine, sai, e la mia facoltà ha l'obbligo di frequenza». Fece una pausa. «Sono un po' stanca».
Non sapevo cosa dirle, quindi non dissi niente.

Un giorno, a pranzo, all'improvviso Esther chiese: «Ma tu sei un drogato?».
Non feci in tempo a sbiancare che Sheldon urlò: «Esther, non capisci proprio un accidente, stupida oca!».
«Perché un drogato?», domandai io.
«Assomigli a quel ragazzo del film che guarda sempre Judith», mi spiegò. «Quello che si droga». Lo disse in modo infantile, si vedeva che non aveva la minima idea di cosa volesse dire drogarsi.
Lei, Judith, mi fissò per un po'. «Parla di Trainspotting. In effetti gli assomigli un po'», concesse, per poi fulminare con lo sguardo la più piccola. «Ma non vuol dire che sia un drogato, aramit*!».
«Judith, non dire queste cose a tua sorella!».
Lanciai uno sguardo a Sheldon: schiumava di rabbia. «Non importa», dissi. In realtà mi importava. Una delle cose belle dell'essere pieni di ero è che te ne frega proprio poco di quello che pensano e dicono gli altri, almeno quando non sei a rota, eppure scoprii che ci tenevo molto alla loro opinione. Non solo a quella di Sheldon, anche a quella della nonna.
Nel pomeriggio mi guardai allo specchio e sembravo proprio Mark Renton. Non nei connotati, chiaro, ma nei capelli e nel modo di guardare la gente. Mi fece talmente paura che iniziai a farmi crescere i capelli. Sheldon rideva parecchio di questa cosa, ma per me divenne una vera ossessione.

Non piacevo alle sue amiche e loro non piacevano a me. A parte la rossa con i capelli ricci, che oltre ad un bel visino era anche sveglia. Studiava biologia marina e sapeva una montagna di cose sulle balene. Mi sono sempre piaciute le balene, hanno l'aria placida e tranquilla, e quindi per estensione mi piaceva anche la rossa.
Le altre, però, credo proprio che mi odiassero. Ricordo che una sera si avvicina una di loro, con i capelli neri come quelli di Sheldon, e mi dice chiaro e tondo che ho una pessima influenza su di lei eccetera. Beh, io non rispondo, mica voglio discutere con Sheldon perché ho insultato una sua amica. Però non mi ha fatto piacere. Nemmeno quando ha nominato il fatto che prima mi facevo di eroina mi ha fatto piacere, voglio dire, non piacerebbe a nessuno, no? Anche se era vero.
Pensai che forse avrei dovuto smetterla di vedere Chalky e Kelly. Non perché a Sheldon non piacessero, credo anzi che trovasse Kelly divertente, in qualche modo. Però loro continuavano a dirmi che dovevo troppo tornare nel giro, perché c'era un tale che vendeva roba davvero grandiosa, che lavorava lungo il Cam, e che l'ero che vendeva era di prima qualità. Ed era molto facile dire di sì, bastava pensare: “Ma sì, una pera cosa può farmi?”. Forse era per questo che Sheldon veniva sempre con me, quando incontravo Chalky, per impedirmi di fare una cazzata. Ma io ero pulito e continuavo a dirle che no, col cazzo che mi rimettevo a farmi.

Summertime Sadness - Lana Del Rey (Cover) by Daniela Andrade & Gia Margaret

Una notte facemmo l'amore. Era la prima volta che lo facevo da quando avevo smesso e non vedevo l'ora. Penso che Sheldon si dovesse sentire proprio al massimo con un ragazzo per farlo. Era il tipo di persona che ha i suoi tempi e se non ti vanno bene puoi anche sloggiare, ma a me piaceva proprio tanto anche per quello.
Non me lo aspettavo, insomma, erano mesi che stavo con Sheldon e al massimo ci toccavamo. Per me andava abbastanza bene, diciamo che c'era un equilibrio e la cosa piaceva a entrambi. Per questo ci rimasi un po' di sasso.
Stavamo vedendo un film alla tv, a casa mia. Mi piaceva che Sheldon stesse a casa mia ogni tanto, magari anche a dormire, perché quella casa era una merda ma a lei non interessava. Era molto piccolo ed era anche bruttino, ma con Sheldon dentro assumeva tutto un altro aspetto.
Non avevo il divano – l'avevo venduto un anno prima per pagare affitto ed eroina – e quindi avevamo messo questo materassino da yoga per terra con dei cuscini e lei si appoggiava a me e io mi appoggiavo al muro.
Poi di colpo Sheldon mi bacia e fin qui tutto ok, normale, ma poi mi bacia di più. Non so se è chiaro quello che intendo, sono quei baci che lo sai cosa vogliono dire. E mi assale un panico orrendo perché erano almeno nove o dieci mesi che non facevo sesso. Mi dicevo: e se non lo so più fare? E se poi non le piace e mi pianta in asso? Sentivo che stavo annaspando, avevo una paura proprio brutta tipo quella che mi viene quando sono a rota, e mi mancava l'aria.
Allora Sheldon si porta su di me, a cavalcioni sulle mie gambe, e mi prende il viso e continua a baciarmi ed era la cosa migliore del mondo. Avevo i suoi capelli in faccia e mi piaceva sempre di più quel profumo. Ricordo che avevo le mani sulla sua pancia, come se la volessi spingere via, ma era l'ultima cosa che mi sarebbe piaciuta. Mandarla via, intendo. Avevo sempre pensato che non mi serviva che Sheldon mi stesse appiccicata addosso, ma in quel momento anche allontanarla di un centimetro sarebbe stato come morire. Era come se stessi morendo, un po'. Sentivo la sua lingua nella bocca e mi veniva proprio da piangere, non so.
Ci sdraiammo sul materassino e lei non pesava nulla, nemmeno io pesavo nulla, il mondo non c'era più e saremmo morti nel momento stesso in cui avessimo smesso di farlo.
Sheldon sapeva bene cosa fare, il che potrebbe dare adito a speculazioni più o meno piacevoli su come avesse imparato. O magari mi sembrava così perché erano mesi che non quagliavo e quindi può darsi che non fosse un granché. Però era... Non so. Era bello. Dolce, sì, molto dolce. Era come quando un bambino va a letto senza cena e la mattina dopo per colazione ha il permesso di mangiare tutta la marmellata che vuole. Era come quando dopo aver viaggiato tanto per lavoro si torna a casa. Era come tornare a casa, con Sheldon che si muoveva su di me. Nel buio, con la tv che non so quando o come ma l'avevamo spenta, la vedevo ed era bellissima.
La cosa bella, ancora più bella del sesso, erano le sue mani che stringevano le mie. Le cercava, mentre lo facevamo, non sempre ma a tratti, e le prendeva e se le portava alle labbra e le stringeva così forte da farmi sbiancare le nocche. Ma faceva bene a tenermi, perché altrimenti sarei scivolato via di sicuro e sarei sprofondato e sarei affogato. E io non volevo affogare.
Ero così tutto preso da me che non capii cosa avesse significato per lei. Sheldon, però, non me lo fece pesare. Non era una che ti faccia pesare queste cose.
Mentre lei dormiva io piansi un po'. Non sono il tipo che si strugge troppo, di solito, quindi fui contento che lei non lo abbia mai saputo. Però mi rendevo conto di non essere ancora a posto. Pensavo che comunque non mi serviva più drogarmi, che era acqua passata, ma in quel momento mi rendevo conto in modo piuttosto lucido che invece no, che bastava il pensiero di una dose a convincermi che una sola non mi avrebbe certo ucciso. Non ero uno di quelli che smettono quando vogliono – sempre che ne esistano. Per questo un po' piangevo, perché avevo un gran bisogno che qualcuno mi impedisse di rovinarmi e volevo davvero che quel qualcuno fosse Sheldon.

«Mia sorella Judith», mi dice un giorno. «Ti spiacerebbe andare a prenderla a scuola, oggi?».
Io dico di sì, certo che ci vado. Perché era saltato fuori che Judith schifava la scuola perché i suoi compagni schifavano lei. C'erano un paio di tizi che la squadravano in modo ambiguo e Sheldon si stava agitando.
Piccola parentesi sulla mia auto: un vecchio cassone, una Ford così vecchia da essere antica. Judith fece i salti di gioia quando la vide e balzò in auto con un entusiasmo che non capii subito. Mi chiese di andarla a prendere il giorno dopo e in poco tempo finii per passare davanti al suo liceo tutti i giorni – all'epoca lavoravo davvero poco.
Il fatto è che agli occhi di una quindicenne è davvero figo che un trentenne dall'aria vissuta vada a prenderla fuori da scuola in macchina. Nessuno dei suoi amici aveva la macchina e nessuna ragazza usciva mai con gente “grande come te, Oliver”. Non mi dispiaceva che lei si sentisse così, insomma, era felice perché c'era chi la rispettava per questo. Judith non era così idiota da pensare che bastasse un fidanzato trentenne con l'aria marcia per renderti una persona migliore, ma almeno avevano smesso di tormentarla. E i ragazzi che la guardavano avevano smesso perché avevano paura che li pestassi, così Sheldon divenne più tranquilla e se lei lo era potevo dirmi soddisfatto anche io.

Erano passati un paio di mesi da quando l'avevo fatto la prima volta con Sheldon quando andai in un bar per chiedere se avevano un lavoro perché, hey, non si vive di solo amore.
Mi si avvicina questo tizio e giuro che ci metto un po' a capire che è Chalky: non sembra più il mio vecchio compagno di siringa. Perché Chalky, pur avendo una dipendenza da ero peggiore della mia, almeno aveva la parvenza di un ragazzo pulito. Non so come facesse, si bucava ovunque, perfino nella pelle tra le dita, ma a guardarlo in faccia sembrava il ritratto della salute.
Nuovo Chalky sembrava un barbone, puzzava come un cassonetto. Mi si avvicina tutto agitato e mi mette in mano un sacchettino.
«Dammi una mano, amico», ansima Nuovo Chalky. Aveva una voce che faceva davvero paura e gli occhi iniettati di sangue, la pelle nera che era pallida in modo grottesco. «Quello mi ammazza, capito?».
«Eh?».
«Non fare lo stronzo, Olly! Prenditi questa roba! Ma non usarla, ok, non faccio la carità!».
«Perché vuoi darmi la tua eroina?c.
«Ricordi quel tizio che spaccia sul Cam? Beh, si è un po' stancato di farmi credito. Sono settimane che non posso pagarlo e non mi va di mandare Kelly a fare porcate in stazione, capito?».
«Va bene, ma perché mi lasci questa?».
«Perché è sua! Del tizio del Cam! Gliel'ho rubata. Non sa che sono stato io, ma mi serve che me la tenga qualcuno che è fuori dal giro o mi becca e mi fa fuori». Non gli rispondo. «Oh, dai, Olly!».
«Ok», rispondo. Me la metto in tasca e guardo Nuovo Chalky sparire fuori dalla porta.
E così dico al tizio dietro al bancone che ho visto l'avviso in vetrina, spiego che non ho mai lavorato in un bar e lui mi dice che non fa niente, che si impara in fretta, e che se gli porto delle referenze sono dentro. Gli dico che gliele porto. Poi esco, vado a casa e prendo il mio kit da drogato, preparo tutto, mi stringo il braccio con la cintura, scaldo il cucchiaio con dentro l'acqua, diluisco con il limone. Ho un po' paura, perché bucarsi dopo una pausa così lunga è sempre un po' traumatico, è come se fosse di nuovo la prima volta.
Trovo la vena subito, ormai lo so dov'è, e mi sparo una dose. Così, puff, come un vaccino, come quando l'infermiera mi fece il prelievo a otto anni, non hai sentito troppo male, eh, piccolo Olly? Ti regalo una provetta prima che tu vada a casa.
Aspetto. Bastano otto secondi.
Il flash arriva all'improvviso e io ho una faccia tipo da orgasmo, meno male che nessuno mi vede. E di colpo so che sono sdraiato sul mio cazzo di linoleum, che dio santo che odore è questo, non è il mio detersivo, ma non mi interessa perché oh com'è bello starsene qui a fluttuare e perché mi preoccupo tanto della gente, poi? Manica di schifosi, tutti quanti, tranne Sheldon. Lei la amo.
E comunque non ti agitare, Oliver, che tanto adesso stai meglio. È come se oscillassi, non vedo più niente ma fa lo stesso, mi sento come quando si va in altalena con gli occhi chiusi e ti prende questa cosa che proprio ti verrà da vomitare, ma non vomiti.
E poi non so quanto tempo è passato, ma divento d'un tratto consapevole del pavimento sotto la mia testa. La ripresa di coscienza è così improvvisa che per un po' non riesco a smettere di tremare e ho il cuore che praticamente è nell'esofago.
Sapete, ci misi una vita a capire che quello che mi aveva svegliato era il mio cellulare, perché sentivo il suo squillo che veniva da molto lontano, lontanissimo, anche se era nella mia tasca.
«P-Pronto».
«Oliver?». La voce di Sheldon. «Senti, scusa, non voglio romperti le palle... Ma sono ore che ti chiamo e non rispondevi, ero un po' preoccupata».
Lei non lo disse, ma capii subito che era preoccupata che tornando dal bar oltre che un lavoro avessi ottenuto anche della roba. Abbassai lo sguardo: avevo ancora la siringa nel braccio. Mi sentii sporco e molto brutto.
«No, scusa», risposi. «Dormivo e non sentivo niente».
Chissà perché, ma il vuoto silenzio di Sheldon mi fece capire che non era così facile farle credere qualcosa che non fosse vero. Mi appoggiai al mobile dell'ingresso – non ero nemmeno arrivato al salotto – e raccolsi le gambe al petto. Avevo freddo.
«Davvero, Sheldon, non è successo niente».

Dust to dust - The Civil Wars

«Dammi quella roba, Olly, subito».
«No! Mi serve, mi serve!».
Sheldon sapeva essere davvero spietata e crudele anche in situazioni normali, perché aveva una mente molto inquadrata, scientifica anche nei rapporti con la gente, ma in quel momento io ero a rota e proprio non mi piaceva il suo tono.
Dopo quel buco ne erano venuti altri. Chalky non si era mai venuto a riprendere la sua roba – che tra l'altro era davvero buona come aveva detto – ed ero riuscito a farmela bastare per un po'. Poi avevo iniziato a lavorare al bar e più o meno metà del mio stipendio finiva in ero. Sheldon mi aveva tenuto d'occhio, ma nei primi tempi ero stato proprio bravo e non mi aveva beccato, non finché non era piombata a casa mia mentre cercavo di diluire l'ero con il limone. Aveva dato un colpo alla mano, che aveva perso la presa: tutta la mia roba sul pavimento proprio mentre stavo per andare completamente fuori controllo. Orribile.
Mi veniva da piangere.
«Sheldon, ti prego...».
«Ti prego un cazzo, Olly».
Ero seduto nel cesso di casa mia, nel senso che me ne stavo accucciato tra il water e il muro, schiacciato e stretto perché le stanze troppo aperte mi davano fastidio.
«Fa malissimo... Per favore, Sheldon...».
Dovete sapere che stare a rota è la peggior cosa che vi possa capitare. Almeno secondo me. Perché non stai bene in nessun modo: seduto, in piedi, sdraiato, non importa. Le ossa fanno male come se avessi fatto la maratona di New York con le ginocchia sui gusci di noce, vomiti da morire e chissà che non ti venga pure la dissenteria, ti svuoti proprio. Insomma, diventi un roito umano e la cosa peggiore è che lo sai, che stai malissimo ed è tutta colpa tua, cazzo, sei tu che ti ci sei messo, ma in quel momento ti sembra che sia colpa degli altri, che il mondo sia ingiusto eccetera e che basterebbe una dose, una sola e starai benissimo, dopo smetterai di farti, ovviamente, ma nel frattempo ti serve proprio quella dose per farti passare la rota. Quando starai meglio, quando quella meraviglia bianca sarà in circolo, quando riprenderai a oscillare e il dolore sarà sparito, allora sì che potrai smettere di farti, è così facile, smetti quando vuoi, vero?
Ma quella dose ci vuole, ci vuole proprio.
«Sheldon...».
La mia roba ce l'aveva Sheldon, però. Aveva la scatola con il mio kit da drogato e dentro c'era tutta la mia ero. Non riuscivo a sopportare che ce l'avesse lei, le avrei anche dato la luna, chiaro, ma non la mia scatola. Amavo la mia scatola, tutta la mia vita ruotava intorno alla scatola.
La scatola.
Feci uno scatto in avanti cercando di prenderla, ma il movimento mi fracassò tutte le ossa e mi venne di nuovo da vomitare. Mi limitai a girarmi e a infilare la testa nella tazza, ma ormai non avevo quasi più liquidi a furia di rimettere e fu davvero una cosa penosa, tristissima.
Alla fine stavo tossendo, mi ricordo solo che stavo tossendo nel cesso e non so bene cosa fosse quello che stavo rimettendo. Mi bruciava la gola e anche il naso sembrava in fiamme e avevo gli occhi pieni di lacrime. Vi siete mai chiesti perché si piange quando si vomita? Io sì.
Forse però stavo piangendo un po' troppo e avrei davvero dovuto smetterla, c'era la mia ragazza e io sono un uomo, santo Dio, eppure non riuscivo proprio a smettere.
Sentii che appoggiava la scatola in corridoio e che la allontanava con il piede, poi sentii la sua mano tra le scapole.
«Non toccarmi...».
«Olly».
«No, dai... Puzzo da morire, per favore...».
Sheldon non si avvicinò, ma non tolse la mano da lì. «Non ho intenzione di baciarti, suvvia, ma ce la posso fare».
Tremavo alla grande, insomma come se fossi immerso nel ghiaccio. E avevo ancora la faccia rivolta al water. Allungai una mano e a tentoni trovai la catenella. Per un attimo sperai che fosse tutto uno scherzo, che la mia ragazza non mi stesse davvero vedendo in quello stato, ma poi mi venne in mente la scatola in corridoio e chi se ne frega del resto.
«Sheldon, la mia...».
«No».
«Ti supplico, Sheldon, mi serve... Ne ho bisogno...».
«Oliver, no».
Mi rannicchiai in posizione fetale sul pavimento freddo. Avevo male alle spalle. Chiusi gli occhi, la luce mi dava fastidio. «Vorrei del valium, per favore».
«Sì, l'ho preso. Kelly mi ha detto che voi fate così». La sentii esitare un po'. «Olly, devi anche mangiare qualcosa e bere un po' d'acqua».
«Non voglio mangiare!». Sentivo la mia voce che stava urlando. «Voglio la mia cazzo di roba!».
«No, Olly, non te la do».
«Sheldon, ti avverto...».
«Cosa? Cosa farai? Mi vomiterai addosso?».
Mi sembrò veramente ridicolo e mi sentii davvero una merda. Non era giusto, proprio no, io non le avevo mica fatto niente. Io volevo solo la mia scatola, tutto qua. Le bastava chinarsi e prenderla, era chiedere troppo?
Mi rimisi a piangere. Stare a rota ti fa piangere proprio tanto, quando non ti fa incazzare come un bestione.
«Sheldon, dai, per favore!».
Si sedette sul pavimento, la schiena al muro, e ammetto con un po' di ansia che mi rannicchiai contro di lei come un bambino o un malato. Sheldon fu molto in gamba perché io non è che profumassi.
«Cosa succederà adesso? Dico, per l'astinenza».
Non volevo aprire gli occhi, ma sentivo il suo fianco teso contro la mia fronte. Era abbastanza bello starsene lì, pur nell'assurdità totale della situazione, non so se mi spiego. «Beh, ho smesso di sudare, quindi tra un po' inizieranno i sudori freddi e i tremori».
Sheldon rimase un po' in silenzio. Poi disse: «Ti preparo la vasca da bagno».
«Non voglio», esalai mentre lei si alzava. Cercai di trattenerla. «Non mi serve un bagno, mi serve un buco!».
Lei riuscì a districarsi dalla mia mano e scosse il capo. Non sentii più niente se non l'acqua che scorreva nella vasca. Ancora non volevo aprire gli occhi, forse se non lo avessi fatto l'astinenza sarebbe andata via da sola.
La rota va sempre così: prima sudi come un animale, sei irritabile e magari vai al cesso un po' più del solito, il che non è necessariamente disturbante se sai che appena puoi ti fai una dose. Ma Sheldon non me la faceva fare ed io sapevo che sarebbe cominciata presto la fase nera, con quel sudore freddissimo che ti si ghiaccia addosso, brividi come se avessi la febbre e quei cazzo di tremori che se non stai attento ti mozzi la lingua con i denti. Non erano ancora arrivati, ma il vomito e il dolore alle ossa sì, quindi sarebbe successo di lì a poco.
E poi, visto che Sheldon avrebbe buttato via la mia roba, la febbre, mal di stomaco e ancora vomito, crampi terribili, spasmi, per non parlare di quel senso di depressione tipo “nessuno mi ama e sono solo”.
Col senno di poi ammiro Sheldon. Non le fece schifo, o meglio sì, ma rimase con me per tutto il tempo. Mentre ero nella vasca con l'acqua tiepida, mentre cercavo di strofinarmi con la spugna senza che questa mi scappasse dalla mano, rimase seduta sul bordo della vasca a fissarmi. Sospetto che volesse evitare che mi mettessi a sniffare sapone o che tentassi di uccidermi strozzandomi con il tubo del doccino.
Alla fine non riuscivo più nemmeno a lavarmi. Me ne stavo seduto nell'acqua con le gambe al petto, senza riuscire a fermare il tremore del corpo. Piansi un sacco, perché avevo male dappertutto, non c'era un solo centimetro del mio corpo che non mi facesse desiderare di morire. Ogni tanto sobbalzavo quando mi prendevano crampi troppo dolorosi. Mi veniva ancora da vomitare e Sheldon aveva la pazienza di farmi alzare per raggiungere il cesso.
Non so come facesse a guardarmi ancora in faccia. Francamente è uno spettacolo orrendo, fa abbastanza cagare. Anche al suo meglio, il corpo di un eroinomane non è il massimo, diventi uno scheletro. A me andavano grandi tutti i pantaloni.
Alla fine del secondo giorno stavo ancora malissimo e il terzo fu tutto un lagnarsi di come la vita fosse ingiusta, Sheldon tu non mi ami, io mi faccio schifo, non sono nemmeno capace di smettere di drogarmi senza star male. Sheldon, aiutami. Sheldon, dammi la mia scatola. Sheldon, perché il mondo è così terribile e crudele? Sheldon, dammi la mia cazzo di scatola. Ti amo, Sheldon.
Alla fine Sheldon aprì tutte le finestre, lavò il bagno e mi cambiò anche le lenzuola del letto. Io ero esausto, non vedevo l'ora di chiudere gli occhi e dormire, ma in qualche modo volevo anche rendermi utile, perché non era lei che doveva fare quel lavoro, dovevo farlo io. Non era giusto, non volevo che mi facesse da badante o da mogliettina sottomessa, Sheldon non doveva servire nessuno.
Credo che per lei sia stato agghiacciante. Più tremendo di quanto non le piacesse ammettere. Sembrava tranquilla, ma Sheldon aveva sempre quell'aria da “non mi importa nulla di nessuno”. Io però so che non era vero. So che a Sheldon importava di tutti quelli che conosceva. Per questo mi chiedo cosa abbia provato, cosa stesse pensando mentre si prendeva cura di me. Deve essere stato una specie di trauma, qualcosa che non si sarebbe mai più dimenticata.

Elastic Heart - Sia

Sheldon era stanca. Lo vedevo sempre quando veniva al bar. Perché veniva sempre a controllare cosa stessi facendo. Un paio di tizi che stavano sempre nel tavolo in fondo dicevano che avevo la fidanzatina apprensiva, ma non capivano un cazzo di niente. Sheldon veniva a controllare che stessi bene, che non mi stessi facendo di nuovo.
E io non volevo che venisse a controllarmi, non tanto perché avessi qualcosa da nascondere – anzi, ammetto che questo suo interessamento era proprio dolce. No, io non volevo perché lei stava proprio male.
Sua sorella Judith si era rimessa in carreggiata a scuola, ma aveva anche iniziato a frequentare un gruppo di amici che non erano proprio il massimo dell'affidabilità. Stava fuori ore, la sera, e Sheldon cercava davvero di stare sveglia per aspettarla ma non ce la faceva. Esther era troppo piccola per dare una mano e la nonna non è che ringiovanisse. C'era la casa a cui pensare, la pensione non era sufficiente, l'università costava e con l'aumento della crisi suo padre perse il lavoro. In più lei ci teneva tanto a studiare, capite, le piaceva davvero molto e avrebbe studiato per tutta la vita, se avesse potuto, ma non aveva tempo e saltava troppi corsi, non riusciva a sostenere il ritmo.
Per questo non la volevo al bar: perché erano minuti preziosi in cui avrebbe potuto fare qualcosa di più importante.
Ed era un bel casino di merda, perché io continuavo a pensare che una pera mi avrebbe aiutato, Cristo santo, ma non ne ero certo dipendente. Figurarsi, io non ero dipendente da niente, avrei smesso in qualsiasi momento.
Una cosa che mi sono sempre chiesto è come mai io abbia iniziato. Nel senso che se si parla del problema della droga di solito la si associa ad ambienti degradati e a ragazzi tristi e soli, oppure allo scintillante mondo dei ricconi annoiati. Due grossi stereotipi, insomma. Beh, io non ero né l'una né l'altra cosa. Perché avevo iniziato?
Chalky aveva iniziato perché poteva e Kelly perché era la sua ragazza e aveva pensato che se lo faceva lui poteva farlo anche lei, credo. Conoscevo uno che per smettere di bere aveva iniziato con gli acidi e poi era passato ad altro, mdma e simili e infine l'ero. Ma io non avevo nessun problema: la droga stessa era il problema.
Continuai a pensare che la droga era una merda anche quella sera, più tardi fuori dal bar, quando mi feci una pera discretamente buona. Sheldon non era venuta, non so perché, e quando avevo visto Kelly avevo pensato che no, non potevo farlo perché Sheldon si fidava davvero di me e non potevo certo bucarmi. Ma d'altro canto era solo un buco: uno solo, no? Non poteva farmi male un solo buco.
Dovetti restare seduto in un ripostiglio per farmela passare, ma quando mi ripresi e il mondo smise di sembrare così soffice e morbido pensai che era davvero il caso di andare a casa.
Mi trascinai fino al mio appartamento a piedi, perché l'aria della notte non poteva che farmi bene, e quando finalmente arrivai avevo i piedi che piangevano dentro le scarpe da ginnastica.
Entrai e vidi Sheldon che studiava. Già, non ve l'ho detto: studiava da me per poter avere un posto tranquillo in cui stare, perché a casa sua suo padre era nervoso e alzava la voce con Judith, così Greta lo sgridava e Esther piangeva. E non si poteva studiare, lì.
Così mi avvicinai, ma una seconda occhiata mi disse che si era addormentata studiando. Aveva i suoi quaderni di appunti tutti aperti, pieni di schemi, formule, parentesi quadre e altre cose. Poi notai dei disegnini a margine.
Mi avvicinai e sorrisi. Erano dei cuoricini rosa intorno al mio nome.
Era infantile, considerando che parliamo di una ventiquattrenne nel pieno di una laurea da cervelloni, con un modo di fare un po' freddo e dalla mente razionale.
Forse per quello lo trovai stupendo, perché era strano. Non mi aveva mai detto apertamente cosa provasse, ma il mio nome e tutti quei cuoricini erano il massimo. Mi sentivo un uomo completo.
E subito dopo mi sentii una vera testa di cazzo, perché lei aveva tutte quelle cose a cui pensare e io non ero stato nemmeno capace di dire di no a una pera.
Per un po' rimasi pulito, mi bastava pensare ai cuoricini sul quaderno di Sheldon per declinare quando il tizio del Cam mi telefonava per sapere se ne volessi.

«Smetto di studiare».
«Cosa?».
«Olly, non abbiamo più soldi. Devo trovarmi un lavoro».
«Ma... Ma tu adori studiare! E ne capisci davvero!».
«Non ci sono più soldi in casa».
«Ma tra la pensione e il sussidio...».
«Non bastano». Sospiro. «E non possiamo nemmeno chiedere aiuto alla comunità, perché come avrai capito mia nonna non è esattamente legata al rabbino».
«Sheldon...».
«Senti, l'ultima cosa che vorrei è rinunciare. È il mio sogno. Ma è finita, basta, facciamo finta che sia stata una mia decisione».
«Te la potrei pagare io, la retta... Almeno una parte».
«Olly, il tuo stipendio basta a malapena per il tuo affitto e per farti mangiare qualcosa».
«Beh, ma...».
«Non fa niente». Singhiozzo. «Davvero». Silenzio, poi: «Non è giusto, però, Olly, non è proprio giusto...».
«Non devi fare tutto questo per forza...».
Altra pausa di silenzio.
«Oliver?».
«Sì?».
«Quella... Quella roba che usi... Cosa fa?».
«Oh, ehm, l'ero? Niente, giuro, proprio niente...».
«Ma se la usi vuol dire che serve a qualcosa».
«Non essere ridicola, Sheldon, non ti ricordi l'altra volta, quando ero a rota? Senti, io sono pulito da un paio di mesi. Non voglio che cominci tu».
«Non comincio». Pausa. Risatina nervosa. «Non potrei permettermelo, comunque».

Non so bene come ha cominciato.
So solo che io ero pieno di acidi e di altra roba che non so proprio dire, arrivai a casa e quando la vidi pensai “Ora muoio” perché mi sentivo così bastardo e cattivo perché lo avevo fatto di nuovo che certamente mi sarei ucciso.
Mi appoggiai alla porta, convinto che comunque lei mi avrebbe odiato, perché odiava vedermi così, e che mi avrebbe lasciato. Mi sentivo come un sacchetto vuoto, avevo le spalle curve che proprio non volevano star su e le mani formicolavano. Ma ero così fatto che non pensavo molto.
E di colpo Sheldon stava piangendo e mi si era fiondata contro, piangeva contro di me e io non sapevo cosa fare, mi facevano un po' paura le ragazze che piangono. Ma lei sembrava inconsolabile, come se qualcosa si fosse rotto.
E mi disse che suo padre aveva alzato le mani su Judith, perché lei non faceva che spendere soldi in cazzate, ma Sheldon non voleva proprio, capiva che lui era nervoso e che lei si stava ribellando perché era infelice, ma non era giusto, proprio no, e sua nonna aveva portato via Esther perché non vedesse.
Ma io ero abbastanza perso, ero nel pieno di un trip atroce e psichedelico, le luci erano abbaglianti ed era come se avessi messo la faccia in una delle insegne dei casinò a Las Vegas, anzi, no, come se i miei occhi fossero due caleidoscopi. Quindi forse, se non fossi stato così perso, non avrei preso la mia scatola – non quella vecchia, Sheldon l'aveva buttata, questa era nuova. Ma avevo proprio bisogno di una pera.
Sheldon continuava a piangere e anche a me veniva da piangere perché il mondo era proprio una merda se una ragazza come lei, che era sempre stata felice e contenta, doveva essere così disperata. Sì, faceva tutto immensamente cagare, solo Sheldon si salvava, solo lei era perfetta.
Lei e una pera ben piazzata.
Allora, la prima volta che ti fai una pera è davvero una cazzata, nel senso che sembra davvero di venire sventrati dall'interno, vomiti di solito e ti fa davvero sballare. La mia prima pera fu qualcosa di unico, il mio flash durò qualcosa come un secolo, davvero. Mai provato una roba del genere, direi quasi che ne valeva la pena se non capissi di cosa sto parlando.
Sheldon cacciò un urlo assurdo quando le strinsi il braccio della cintura, ma era così che bisognava fare, se proprio voleva farsi. Ma non capivo un cazzo. Non mi sto giustificando, tutt'altro, dico solo che la droga è così.
Presi la mia scatola nuova e preparai tutto per bene, perché nel trip privo di senso che stavo vivendo desideravo davvero che il primo buco di Sheldon fosse una cosa speciale.
Però qualcosa di lucido era rimasto e, con la siringa pronta, aspettai a iniettarle la roba.
«Sheldon, è una cazzata, basta», dissi, «metto via tutto».
Il che tradotto voleva dire che la siringa me la sarei sparata io. Ma lei scosse il capo.
«Ho chiesto a Kelly», pigolò. «Dice che questa cosa la fa stare molto meglio. E io ho bisogno di stare meglio».
La fissai per un po'. «Non lo so».
«Se non mi aiuti tu andrò da qualcun altro».
«Ma non è questo il modo!».
«Proprio tu lo dici?». C'era qualcosa nella sua voce che mi spaventava da morire. Era qualcosa di frantumato, come se l'avessero passata nello schiacciasassi.
«Finirai a rota come me».
«Non mi importa! Voglio solo dormire per sempre...».
«Sheldon...».
«Tu sei un drogato, ma io ti amo lo stesso!», sbottò, il viso pieno di lacrime. «Tu non puoi amarmi in ogni caso?».
Non sono stato abbastanza uomo da dirle di no. Non ci sono riuscito. Una parte di me forse voleva che lei cominciasse, che lei capisse. Forse il lato merdoso di Oliver voleva che lei si facesse con me. E invece l'altra parte, quella sana di mente, era già stordita per gli acidi: lo sguardo supplice di Sheldon abbatté le altre resistenze.
Quando la siringa si immerse nella sua pelle quasi mi sentii meglio, ormai era fatta e in un certo modo mi diede sollievo. Sheldon di sicuro sarebbe stata meglio, lo sapevo.
Di buono c'è che usai un ago pulito. Pensai che, se avessi usato un ago nuovo ogni volta per fare la siringa di Sheldon, lei sarebbe stata meno peggio. Di certo non le avrei dato la mia, che usavo e riusavo il più possibile prima di cambiarla e ormai era completamente otturata.
Mi svegliai la mattina dopo ed eravamo ancora sdraiati nel corridoio dove ci eravamo bucati. Lei dormiva, o almeno penso che dormisse, perché respirava bene ed era tranquilla.
La guardai. Sembrava calma, aveva un braccio intorno alla mia pancia e la testa vicina alla mia. Ci aveva messo un po' a farle effetto, non nel senso che il flash non arrivava ma nel senso che la sensazione di vomito ci aveva messo più del normale a passare. Ma poi era come andata in tilt, era proprio al settimo cielo e non parlava più, si limitava a guardare il soffitto con aria persa.
Non mi ero mai fatto una pera con una ragazza, a parte Kelly, e fu un po' strano svegliarmi con lei in quel modo. Non era bello. C'era qualcosa di grottesco e davvero malsano. Mi sentivo come se l'avessi picchiata o roba simile.
La abbracciai, perché non sapevo cos'altro fare, ero d'un tratto consapevole di avere due braccia e di quanto fossero inutili. So che si svegliò, lo so perché sentii il suo respiro cambiare. Mi sembrava un po' come se potessi in qualche modo cancellare quello che avevo fatto stringendola, quasi non le davo modo di respirare.
«L'unica e l'ultima, chiaro?».
Sheldon mi accarezzava un fianco. «Per entrambi».
«Ok». Ero così spaventato da quello che era successo che non ci pensavo nemmeno un po', a farmi di nuovo. «Ok, basta adesso. Quella era l'ultima. Dopo butto via tutta questa roba».
«Sì, dopo puoi farlo».
«Bene, dopo».

La cosa precipitò in fretta, troppo in fretta. Sheldon ormai pensava solo all'eroina. Disse ai suoi che veniva a vivere con me: dovevate vedere suo padre. Si vedeva che mi avrebbe ucciso con le sue mani, che gli stavo portando via la sua bambina. Che avevo l'aria losca, poco raccomandabile. Beh, aveva ragione.
Anche Greta – la nonna – non mi voleva più troppo bene, ormai doveva aver capito che qualcosa in me era storto. Ma aveva altro per la testa, con Esther che non riusciva a dormire e Judith che scappava di casa un giorno sì e un giorno pure. Quindi in parte era contenta che Sheldon si allontanasse dall'ambiente domestico, anche se avrebbe voluto che se ne andasse con qualcun altro.
Peccato che non mi importasse più. Se prima mi ero interessato del loro giudizio, beh, fanculo, non era più affar mio. Sheldon disse che voleva trovarsi un lavoro, ma non sapeva fare nulla a dirla tutta: aveva passato la vita a studiare, non aveva idea di come si facesse a lavorare.
La nostra casa – nostra, non mia – divenne un vero e proprio accampamento. Ne eravamo così dipendenti, dall'ero, che poche ore senza bucarci erano un delirio. Spesso volevo morire, perché era colpa mia se ora Sheldon era come me.
Siamo riusciti a ripulirci, a un certo punto, e allora mi sono detto che basta, basta così, dovevo prendermi cura di lei e impedirle di ricaderci.
Non esiste niente di più nocivo di un eroinomane che vuole aiutarne un altro: non ce la farà mai.
Rimasi pulito. All'epoca mi sentivo tutto orgoglioso, guardavo Chalky dall'alto al basso perché a Kelly era venuto qualcosa tipo AIDS e invece a Sheldon non era capitato niente. Ripulimmo casa, buttammo via gli aghi e il cucchiaio, ci imbottimmo di valium e fingemmo per qualche giorno che il mondo fuori non ci fosse.
Non ci ricascai per un bel pezzo, che bravo, finché non beccai Sheldon che si faceva una pera alle mie spalle. Mi sentii un po' offeso: perché non aveva condiviso? L'eroina non è una cosa da condividere: i consumatori di erba condividono, i bucomani no. Ma in fondo la capivo, a parti invertite anche io forse mi sarei nascosto, se non avessi avuto abbastanza roba per entrambi. Le concessi di farsi la sua dose e le dissi che dopo quella doveva smettere.

Non era più la mia Sheldon, negli ultimi tempi. Non era più così bella, i suoi capelli non profumavano più e sembravano malati, quasi morti. Divenne magra come uno scheletro, nelle sue felpe ci navigava letteralmente dentro.
Fingevo che non fosse vero. Fingevo che andasse tutto bene e fingeva pure lei.
Una sera mi dice: «Olly, voglio morire».
Sapevo perché: non era solo per via del padre o per l'università. Era perché, nei rari momenti di lucidità, si rendeva conto di essere solo lo spettro malato di chi era prima. Lo sapeva. E si faceva schifo, così schifo che la morte era l'unico modo per porre fine a quella sensazione di lerciume.

Long Way - 77 Bombay Street

Ero pulitissimo quando morì. Ero andato a comprare per l'ennesima volta il valium. Salii le scale del condominio, come sempre, e impiegai un po' a far entrare la chiave nella serratura difettosa, come ogni giorno.
Lei era sdraiata sul pavimento, su quello stesso linoleum su cui io ero ricaduto nel tunnel così tante volte.
La cosa peggiore è che non mi ricordo come fosse. Non ricordo la sua espressione, la posizione del suo corpo, nulla, perché il dolore che provai... Non ve lo sto nemmeno a spiegare. Ricordo solo i lividi sulle ginocchia quando mi lanciai sul pavimento e il suono dell'ago, ancora nel suo braccio, che si spezzava quando colpii la siringa.
E non so, mi trovarono i vicini di casa che urlavo e mi disperavo e non volevo proprio lasciarla, continuavo a stringerla e a morire dentro un po' di più, secondo dopo secondo.
Vorrei ricordarmela. Vorrei ricordare l'espressione vuota dei suoi occhi vitrei. Vorrei davvero ricordami di lei in quelle condizioni, per potermi torturare un pochino con la sua immagine. Perché è stata colpa mia, lo so, ne sono certo.
Ecco cosa ricordo: l'espressione di sua nonna e di Judith quando sono andato a casa loro a dire che l'avevano portata in ospedale solo per routine, e che sarebbe passata nel giro di un'ora nella camera mortuaria. Esther che mi fissava e non capiva – o forse capiva, non lo so. E suo padre che si è seduto sul divano e non ha aperto bocca.
Di loro mi ricordo. Mi ricordo del modo in cui evitavano il mio sguardo, preferendo studiarmi di sottecchi, come se il solo osservarmi potesse contagiarli. E mi ricordo della pietà che nonna Greta usò per dirmi: «Riguardati».
Riguardati. Così, fatto. Un calcio in culo avrebbe fatto meno male. E con quella parola mi hanno detto addio e hanno fatto bene, anzi, spero di non averli contaminati troppo.

La sua amica, la rossa simpatica che studiava le balene: iniziò a evitarmi anche lei.

All'inizio volevo davvero uccidermi. Comprai così tanta eroina da stendere un muflone. Volevo proprio spararmi il buco definitivo, quello che avrebbe deciso tutto.
Da un lato mi sentivo troppo in colpa per continuare a vivere, perché se io non fossi stato un tossico forse non avrebbe cominciato. Forse non le sarebbe passato nemmeno per l'anticamera del cervello. O forse sì: forse, se non fossi stato io, sarebbe stato un altro.
Dall'altro sentivo di meritarmelo. Ero io che l'avevo uccisa, io che l'avevo spinta sull'orlo aspettando di vederla cadere. Ero io che non avevo reagito, io che avevo solo goduto del fatto di essere pulito senza pensare che avrei dovuto portarla via, lontano, in campagna o che ne so, ma lontana dagli spacciatori del Cam. Quindi sì, dovevo morire.
Un po' mi disturba il fatto che nessuno si sia chiesto il perché dei buchi di Sheldon. Tutti hanno visto me ed era ovvio che fossi stato io. Nessuno si è soffermato a pensare a Judith e alla valanga di problemi che aveva e che portava, a Esther che è ancora piccolina, alla nonna che era troppo vecchia per occuparsi di tre ragazze in difficoltà. Nessuno ha pensato al padre che aveva perso il lavoro.
Ma va bene. In un certo senso non mi importa di prendermi tutto il merito. Anzi, lo trovo quasi giusto.
Sheldon era l'unica cosa bella e l'ho bruciata.
Sheldon era qualcosa di magico.
E io la amavo. So che, nel profondo di me stesso, l'amavo. Nessuno mi crede, se lo dico, perché so che non era il modo di dimostrarlo. Se l'avessi amata davvero, direste, non le avresti permesso di diventare così e di morire. E a volte mi convinco che è vero, che non potevo amarla sul serio o l'avrei salvata.
Ma allora perché fa così male? Se non sentivo niente per lei, perché ora sto così?
Per questo non mi lascio morire: non voglio, non posso morire, perché sarebbe troppo facile.
Dico sul serio, è facile spegnersi la luce. Basta poco: una dose eccessiva, un coltellino che taglia i polsi in verticale o un salto dal balcone del nono piano. O basta sdraiarsi sui binari della metro. È facile, se lo si vuole davvero, il che ammetterete che è spaventoso.
È vivere che è difficile. Quindi mi merito di vivere, no? Mi merito di tormentarmi, notte dopo notte, al pensiero di averla uccisa. E mi merito di svegliarmi di soprassalto convinto di aver sentito la sua voce. Di sentire il profumo del suo shampoo agli angoli delle strade. Di provare questo senso di vuoto e di panico, perché era lei che mi salvava e non il contrario.
Restare pulito è difficile, quindi mi merito di non calarmi più nemmeno una dose. Sarebbe troppo semplice: scappare, rifugiarsi nella mollezza di un trip, dimenticare. Non posso dimenticare.
Quando Sheldon se n'è andata, se n'è andata anche la parte buona di Olly. Certo, aveva iniziato a sgretolarsi molto, molto tempo prima del suo arrivo, ma stava guarendo con il suo tocco, con il suo respiro nell'orecchio, con il suo cuore che batteva col mio. Oliver stava meglio e poi lei è morta.
Vivere mi spaventa più che morire di overdose. Mi spaventa più di qualsiasi altra cosa, perché ogni passo in più, ogni respiro, ogni raggio di sole mi ricorda che lei c'era. Lei c'era, esisteva. E ora è finita.

Mi sento colare addosso ogni minuto. Tic. Tac. Tic. Tac. Orologio del cazzo. Sto qui, seduto sul pavimento. Aspetto. Non so cosa aspetto, so solo che ogni volta che la lancetta si muove io sento il mio cuore che si lacera.
Accendo una candela. La guardo fisso. Tic. Tac. Tic. Tac. Si spegne, soffocata dalla propria cera, ed io la accendo di nuovo. Siamo io e lei, io e la candela nel mio salotto spoglio e altrimenti buio.
E piango. Quando mi rendo conto che sto aspettando invano e che lei non tornerà. Perché sono sempre stato abituato a pensare che si può aggiustare tutto, le ossa rotte si mettono a posto e la rota passa.
Ma Sheldon non torna.

E nessuno la chiama più Sheldon. Dopo che avevo iniziato lo facevano quasi tutti, ma ora tutti parlano di lei come di Greta Stein, poverina, traviata dal fidanzato, portata sulla cattiva strada. Per me sarà sempre solo Sheldon. Ed io sarò sempre lo stronzo che non si è accorto, che non ha capito quanto l'ossigeno fosse secondario per vivere, rispetto a lei.

 
* ארמית - aramit - idiota
 
   
 
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