Storie originali > Drammatico
Ricorda la storia  |      
Autore: Kiaretta_chan_94    27/01/2009    1 recensioni
“Tu… sei morta?”
“Io non sono morta. Per essere morti bisogna aver prima aver vissuto, e io non sono mai stata viva.”
Si ferma, meditabonda.
“A dire il vero, credo di non essere mai nata”.
Genere: Malinconico, Drammatico, Introspettivo | Stato: completa
Tipo di coppia: non specificato
Note: nessuna | Avvertimenti: nessuno
Per recensire esegui il login o registrati.
Dimensione del testo A A A
La Giostra




-Oddio, ma che sta facendo?

-Vuole buttarsi giù!
-Fermatelo!
-Per l’amor del cielo!
Un passo in avanti, ed è
AriaVentoFreddoPauraLiberazione
TUNF.





Gneek.
Gneek
Le palpebre fremono.
Gneek.
Gneek.
Un cigolio, metallo non oliato bene che stride piano.
Cardini di una porta, un cancello, un motore, un macchinario…
Apro di scatto gli occhi.
Una giostra.
Per la precisione, è una ruota. Una di quelle ruote che si possono trovare in un parco per bambini, che per funzionare hanno bisogno della spinta di un genitore, o della forza delle braccine di più bambini.
Ed è rossa.
Piano, provo a muovere le dita. Provo ad aggrapparmi all’aria, ma mi accorgo che quello che sto artigliando è terriccio della consistenza della sabbia. È allora che mi accorgo di essere sdraiato per terra.
Mi alzo piano, facendo forza con le braccia sul terreno.
La terra sotto di me è sabbia, come avevo creduto. Sabbia giallo chiaro, sporco.
Con una certa sorpresa, mi accorgo che quindi riesco a vedere, che i miei occhi funzionano e quasi si sentono feriti da tutta questa luce, spezzata solo dalla presenza della ruota, qualche metro davanti a me.
Riesco ad alzarmi, barcollando come un ubriaco.
Gneek.
Il cigolio non si ferma, continua, regolare.
La giostra gira.
Sbatto le palpebre per metterla meglio a fuoco, i contorni sono quasi indefiniti, come se mi trovassi nel deserto davanti ad un miraggio.
Mi sento la testa pesante, ma improvvisamente la lucidità torna, mista al panico e al fiotto di adrenalina che senza motivo mi invade le vene a causa dello shock.
Sulla giostra c’è una bambina.
È minuta, con i capelli neri e lunghi, che ricadono oltre la piccola balaustra della ruota, in piccoli riccioli perfetti.
Sta canticchiando, è seduta sul bordo della panchetta di legno all’interno della costruzione, approfitta dello vuoto presente nella balaustra rotta per dare la spinta con i piedi, per far girare la giostra. Poi all’improvviso si ferma, alza di scatto la testa e mi guarda. Ha un viso da bambola, a cuore, gli occhi grandi che si fissano nei miei. Sorride con una fila di dentini piccoli e perfetti.
“Ciao! Ti stavo aspettando”.
Non rispondo, la fisso ancora scosso.
Scende giù con un saltello aggraziato, si dirige verso di me e sembra che danzi, che i suoi piedini camminino sulle punte sulla sabbia, come una ballerina.
“Era tanto tempo che lo facevo!”
Si ferma, sorride ancora. Ha la statura e la corporatura di una bambina di nemmeno sette anni, ma qualcosa in me ha paura di lei, di quei dentini e di quella voce infantile che parla fluidamente, articolando le parole senza esitazione.
“Chi sei?” articolo, la voce rotta, roca. Come se non parlassi da anni.
Lei scoppia a ridere, la risata cristallina si diffonde potente nell’aria. Si volta e comincia a correre, salta sulla giostra e poi sul bordo, sul filo di ferro rosso. Ci cammina in punta di piedi, le braccia in fuori per tenersi in equilibrio, come una ginnasta sulla trave. Poi si ferma, si volta con una piroetta fluida, di nuovo gli occhi nocciola mi scavano dentro.
“Oh, credo che questo dovresti saperlo tu! In fondo, è solo per te che sono qui! Perché tu capisca.”
No, non capisco.
“Io… non lo so”
Inclina la testa di lato.
 “Davvero?” dice, con aria stupita. Poi sembra essere risentita. “Dovrai, se vuoi andare via. Questo in fondo è il momento della verità. Ma come posso? Come faccio, se tu nemmeno sai cos’è che devi comprendere?”
Sembra afflitta, scoraggiata. Ma io lo sono ancora di più, questo posto mi inquieta, i granelli di sabbia si alzano al vento e formano figure che mi sussurrano parole.
Voglio andare via.
“Non puoi”
Sbarro gli occhi.
La bambina salta giù, si dirige verso lo scivolo.
Scivolo?
Quale scivolo?
“Quello…” mormoro con voce strozzata.
Lei sta salendo sugli scalini, è arrivata in cima, dondola i piedi tentennando prima di scendere.
“Cosa c’è?” dice con aria assorta.
“Non c’era! Prima non c’era!” quasi urlo.
Lei non sembra impressionata. Prende un ricciolo e comincia a giocarci, con le dita lo prende e lo stira.
“Sì, invece. C’è sempre stato.”
Silenzio. Sento che il panico va via, inghiottito dal venticello che smuove la sabbia.
Ad un tratto voglio solo andare via.
“Perché sono qui?”
“Non ricordi?” dice lei, sorpresa. “Eppure te la sei cercata! Ti sei buttato da quel tetto. Hai fatto un passo avanti e… giù!” dice, spingendosi in avanti e scivolando fino a terra. Si alza spolverandosi.
“Volevi morire, perché?”
Comincio a ricordare, a fatica, come liberandomi da un bozzolo.
Ho cercato di suicidarmi. Ho scelto tra tutti i tetti uno che spiccava per il comignolo rosso, non nero, proprio rosso, con il fumo bianco che usciva dal buco.
Ricordo di aver gettato uno sguardo all’interno, di essere stato investito da una nube di cenere.
Ricordo di aver tentennato sul bordo, per un lungo istante.
Perché?
Mi sforzo di ricordarlo.
“Non lo so.”
La bambina annuisce. Danza girando intorno allo scivolo, come per gioco.
Forse sta davvero giocando.
“Tu… sei morta?”
“Io non sono morta. Per essere morti bisogna aver prima aver vissuto, e io non sono mai stata viva.”
Si ferma, meditabonda.
“A dire il vero, credo di non essere mai nata”.
Deglutisco a vuoto, arretrando di un passo, per istinto.
Paura.
“Sono morto?” le chiedo ancora.
“Forse sì, forse no. Dipende da te, credo.”
“Dipende da me?”
“Altrimenti non saresti qui”.
“Oh”. Annuisco, non trovando niente di meglio da fare. “Come… come faccio a…?”
“Guarda!” la bambina è corsa all’improvviso vicino alla ruota rossa, gli occhi eccitati, ingranditi nel volto.
Voragini.
“Guarda qui! Guarda qui! Guarda qui!” cantilena, guardandomi.
È un imperativo. I suoi occhi mi costringono a muovermi e ad arrivare fino a quella dannata giostra, a gettare uno sguardo all’interno, a trattenere un urlo di sorpresa.
La ruota ora vortica, gira velocissima. Si intravedono immagini, ricordi, volti. L’aria si riempie di una cacofonia di suoni, di odori.
Urla, urla altissime che mi feriscono le orecchie, le immagini mi si stagliano davanti, sensazioni che si accavallano ovunque, mi si appiccicano al corpo, mi feriscono.
La bambina è davanti a me, mi fissa immobile, i capelli che mossi dall’aria si alzano verso l’alto.
Sto per impazzire, spalanco la bocca ma non urlo, cerco di coprirmi le orecchie con le mani, chiudo gli occhi.
Cado in avanti, nel vortice.
Bianco.


L’ospedale era abbastanza affollato, quel giorno.
Le infermiere si affaccendavano, andavano avanti ed indietro, portavano i carrelli con su i pranzi dei malati, parlavano alle persone in sala d’attesa.
Tra tutti, confusi nella massa di gente in attesa di risposte, due ragazzi.
Lui era alto, magro. I capelli neri erano attaccati alla fronte sudata, aveva un braccio esitante intorno alle spalle della giovane che singhiozzava, attaccata alla sua spalla.
Parlavano.
“Po…possiamo provarci! Abbiamo vent’anni, non è poi così presto! Potremo essere una famiglia, magari potrei… potrei chiedere aiuto… mia madre potrebbe… noi potremmo.. non dobbiamo per forza farlo, non…”
Piangeva, ingoiava parole e lacrime. Una mano era posata sul ventre.
Lui stava in silenzio, il viso contratto.
La mano era vicina al ventre della moglie, alla sua mano tremante.
Non la mosse.
“Signori?”
L’infermiera era davanti a loro, sorridente.
“Tocca a voi”.
Lei l’aveva guardato ancora, aveva cercato un cedimento.
Lui aveva distolto lo sguardo.

Era stato lui.
Forse lei ce l’avrebbe fatta, ci avrebbe provato.
Amava già quella creatura non-nata,
concepita per sbaglio, per errore.
Forse avrebbe potuto essere madre, lei.
Ma lui aveva avuto paura, e non poteva farcela da sola.
L’aveva spinta tra le braccia del medico.
L’aveva spinta tra le braccia della morte.
Aveva tappato le orecchie alle sue mezze suppliche.
Aveva chiuso gli occhi davanti alle lacrime.
Non aveva risposto alle sue obiezioni.



“Perché?”
Risalgo a fatica.
Apro gli occhi boccheggiando, alla ricerca disperata d’aria.
Rantolo, provo ad alzarsi e ricado di nuovo disteso, colto da una fitta lancinante alla testa.
Sopra di me, il cielo è bianco.
Non l’avevo notato, prima.
Lentamente riesco a mettermi seduto.
Tossisco. Ho i polmoni pieni di sabbia, in bocca un sapore sgradevole.
“Lei ti lasciò una settimana dopo”.
Mi volto.
Non era più lei. O forse sì, ma non era più una bambina.
Ora era alta, era più grande. Dimostrava quattordici anni.
“Era il sei gennaio. E lei non era riuscita a perdonarti” disse, a mo’ di conclusione.
Era seduta su un altalena, rossa come lo scivolo e la ruota. Lo fissava. I suoi occhi non sono cambiati, sono ancora grandi e profondi.
Arrabbiati.
“Hai avuto paura.”
Non è una domanda.
Striscio fino allo scivolo, mi aggrappo per potermi alzare. Ansimando, ricambio lo sguardo. IL silenzio si protrae, lei dondola guardando per terra.
“Sì” sussurro.
Lei sta ancora zitta, si alza sempre di più. Va verso l’alto, verso il cielo. E poi all’improvviso punta i piedi e si ferma di botto.
Alza lo sguardo ed è improvvisamente furiosa.
Ed io ho paura.
Nei suoi occhi all’improvviso vedo il fuoco, l’Inferno.
Nei suoi occhi vedo la Morte e all’improvviso temo che inghiotta, che mi spinga tra le fiamme e resti lì, sul  bordo, a guardarmi urlare.
“Assassino!”
L’ha detto a bassa voce, ma io provo l’istinto di fuggire, di voltarmi e correre.
Per salvarmi la vita.
Salta giù, viene verso di me, il rancore nelle sue iridi mi paralizza.
Piano si china, fino a rimanere ad un centimetro dal mio viso.
“Perché ti sei ucciso?” sussurra.
La mia bocca trema, non riesco a parlare.
“Sai che giorno era, oggi?” continua. “Oggi era il trenta dicembre”
Mi fissa, negli occhi la rabbia scema piano. Sostituita dall’incertezza.
Riprendo a respirare.
Lei mi guarda, disgustata. Va di scatto all’indietro, mi guarda dall’alto.
“Esattamente cinque anni fa, la tua ragazza abortì per tua richiesta”.
Sono riuscito a riprendermi. Mi rialzo ancora, ho perso il conto delle volte in cui sono caduto.
Guardo la ragazzina negli occhi.
“Non ti sei suicidato lo stesso giorno in cui lei ti lasciò. Perché sei qui? Qual è la verità?”
Un attimo di silenzio.
“Perché sei morto?”
Chiudo gli occhi.
Vigliacco.
Sto piangendo.
Vigliacco. A che serve piangere ora?
Sento un dito sfiorarmi la guancia.
Apro di scatto gli occhi, mi ritiro all’indietro. Lei è rimasta con la mano protesa in avanti.
“Stupido” sussurra. “Rimorso… volevi rivederlo. Speravi di incontrare tuo figlio?”
Non dico nulla. Ingoio le lacrime e il disprezzo per me stesso come aveva fatto Alba cinque anni fa, e rimango in silenzio.
“Stupido.” ripete, sprezzante. “A certi errori non si può rimediare”
“Lo so” sussurro. Lo so, ma ci speravo lo stesso.
La ragazza fa un sorriso strano.
“Sai cos’è tutto questo?”
Scuoto la testa.
“Tutto questo…” apre le braccia, come a indicare lo spazio che la circonda “è un Bivio. Una scelta. Io sono qui perché tu capisca, perché tu decida se tornare o no. Sono qui perché tu avevi bisogno di me” mi guarda “ma adesso il mio compito è finito. Hai visto, hai pianto, ti sei pentito. Puoi morire, o tornare indietro nel mondo.”
La ascolto, sbigottito.
“Non… sono… morto?”
Lei scuote la testa.
“Non ricordi? Dipende da te”
“Posso tornare indietro?”
“Se vuoi, sì. Ma devi dirmi perché.”
Sposto lo sguardo sul terreno. Rifletto.
“Alba. Devo chiederle scusa. Devo farmi perdonare.”
Annuisce. “E poi?”
“Devo perdonare me stesso. Verniciare di bianco lo steccato della signora Perkins.”
Sorrido, tra me e me.
“Gliel’avevo promesso”
Lei mi guarda, gli occhi ora sono quasi lucidi.
“Solo questo?”
Ci penso su, per un attimo.
“Voglio vivere. E quando riuscirò a farlo di nuovo, voglio innamorarmi e avere un figlio” la mia voce trema, su queste parole. “Se mai me ne sentirò degno”.
Il tempo si dilata, mentre lei di nuovo annuisce e poi la ruota comincia di nuovo a vorticare, velocissima.
Il vento la investe e io non so più che cosa sia, se una ragazza, una bambina, una donna.
Mi avvicino e, mentre davanti alla porta del ritorno mi ritrovo a formulare un ultimo pensiero, un rimpianto.
Avrei voluto che lui mi perdonasse.
“Era una bambina”
Sussulto. La guardo, interrogativo.
“Sarebbe stata una bambina.”
Rimango per un attimo paralizzato. Poi all’improvviso, come un flash, la vedo.
Davanti a me un vetro cade e io vedo che lei, la bambina-ragazza-donna, ha i capelli neri e ricci e gli occhi castani.
Come i miei.
Lei sorride.
“Ci rivediamo quando muori. Io resto qui, ad aspettarti. Chissà, forse allora deciderò di fartela pagare…papà.”
Apro la bocca, tendo la mano per cercare di sfiorarla, ma è troppo tardi.
La giostra dietro di me mi inghiotte, mi riporta verso la vita.
Grido, un ultima parola, il suo nome, quello che segretamente avevo pensato quando, dopo anni, mi ero accorto di quanto mi facessi schifo da solo.



Elisa.
Ti supplico, figlia mia, perdonami.




Un ultimo flash, i suoi occhi che mi guardano.
E poi fu buio.








N/A
Perdonatemelo, già so che non può essere perfetta, ma in fondo nulla lo è.
Dite voi.

Chiara
  
Leggi le 1 recensioni
Ricorda la storia  |       |  Torna su
Cosa pensi della storia?
Per recensire esegui il login oppure registrati.
Torna indietro / Vai alla categoria: Storie originali > Drammatico / Vai alla pagina dell'autore: Kiaretta_chan_94