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Autore: blackswan_    05/08/2015    8 recensioni
Bisognò aspettare il quinto giorno perché la ragazza cominciasse ad assumere una certa consapevolezza di sé stessa.
Quello fu il primo giorno in cui uscì; certo, come prima cosa si precipitò in centro e rimase per una buona mezz'ora a fissare la vetrina di un negozio di videogiochi
come un bambino davanti a un negozio di caramelle, ma uscì di casa e prese una bella boccata d'aria.
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Scritta per la sfida "Mettiamoci in gioco" proposta dal gruppo Facebook "EFP famiglia: recensioni, consigli e discussioni".
STORIA #23: Storia di una ragazza che diventa dipendente dai videogiochi escludendo il mondo, poi un giorno si sveglia (per qualche ragione seria) e capisce cosa ha perso in tutto quel tempo.
Genere: Generale, Introspettivo, Slice of life | Stato: completa
Tipo di coppia: Nessuna
Note: nessuna | Avvertimenti: Tematiche delicate
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DISCLAIMER: I fatti e i personaggi riportati nella storia mi appartengono in ogni loro parte in quanto totalmente inventati da me.
Eventuali riferimenti alla realtà sono da considerarsi puramente casuali.
WARNINGS: La One-Shot che leggerete è stata scritta per la sfida "
Mettiamoci in gioco" proposta dal gruppo Facebook "EFP famiglia: recensioni, consigli e discussioni" dove troverete anche tutti gli altri file riguardanti la sfida.


STORIA #23: Storia di una ragazza che diventa dipendente dai videogiochi escludendo il mondo, poi un giorno si sveglia (per qualche ragione seria) e capisce cosa ha perso in tutto quel tempo.
 


Now living.




Era iniziata come un'innocente battuta, una di quelle che chiunque ha detto o sentito dire da qualcuno almeno una volta nella vita. Qualcosa come «Posso smettere quando voglio, anche adesso, e dimostrarti che ti sbagli. Non sono dipendente da un bel niente!».
E invece Nives si era trovata impelagata in una vera e propria scommessa, con sua madre che aveva colto l'occasione per separare la figlia dai videogiochi e provare a farle vivere una vita degna di esser definita tale, ma anche con sé stessa perché avrebbe dimostrato a tutti che si sbagliavano, sul suo conto.

I termini secondo i quali la sfida sarebbe avvenuta erano stati tutti decisi da Angela, sua madre, che glieli aveva elencati in maniera schematica
tenendone il segno sulla punta delle dita di ciascuna mano. «Quattordici giorni a partire da adesso. Non potrai utilizzare nessun videogioco, né computer, cellulare o televisione se non in mia presenza.» aveva detto con un tono duro, categorico e che non ammette repliche. Nives pensava che l'avrebbe vista battere un piede sul pavimento e fingere di far la stessa cosa con il pugno sul palmo dell'altra mano aperta.
«Io cosa ci guadagno?» domandò lei, accettando implicitamente le condizioni precedenti.
Ottenne in risposta una domanda retorica, era ovvio. «Una vita?»
Mosse la testa scuotendola da destra a sinistra un paio di volte, poi parlò di nuovo «Non mi basta e non mi interessa. Voglio un videogioco nuovo, se vinco vuol dire che avevo ragione io e tu torto marcio» per un momento le sembrò di star vivendo uno di quegli insulsi litigi fra bambini, con i piedi puntati a terra dritti in direzione dell'altro di fronte a le, le braccia tese ai lati dei fianchi leggermente sporti all'indietro e i pugni stretti. «Mi comprerai Ghosttown -Final Armageddon, è il terzo della serie. Non faccio niente per niente.» Era seria mentre lo diceva, sicura di sé e soprattutto fiera di come avesse appena trovato una scappatoia per quella situazione.
Sua madre non le avrebbe mai comprato quel videogioco, ne era certa. Tutto si sarebbe trasformato in un enorme controsenso e lei non l'avrebbe permesso: Angela era una donna troppo precisa e autoritaria. Ne fu ancora più certa quando la vide voltarsi e dirigersi a passi rapidi verso la cucina senza darle alcuna risposta, sembrava piuttosto indispettita ma la ragazza diede troppa importanza a quella situazione. Così, rimasta sola al centro della sua stanza, Nives scansò con il piede alcune magliette sul pavimento e tornò a sedersi a gambe incrociate sul proprio letto recuperando il joystick e ricominciando una partita rimasta in pausa per troppo tempo. Un sorriso soddisfatto le nacque spontaneo sul volto.
E invece la donna era entrata nella sua stanza dopo appena una decina di minuti armata di uno scatolone abbastanza capiente e un'aria da combattente. A Nives quel sorrisetto morì immediatamente.
Pronunciò soltanto due parole
«Ci sto.» mentre cominciava a raccogliere dal pavimento, dalla scrivania, dal ripiano della televisione e persino da alcuni cassetti tutti i videogiochi di sua figlia, alla quale aveva deciso di lasciare il tempo sufficiente solo per salvare la partita iniziata; perquisì ogni centimetro della camera in cerca di eventuali dischi nascosti e solo quando si fu convinta che non ci fosse più niente da cercare prese con sé gli oggetti mancanti e finalmente uscì lasciando la ragazza tutta sola.
Era iniziata davvero, adesso.
Nives non avrebbe giocato con i suoi videogames per due settimane. Ce l'avrebbe fatta e sarebbe riuscita ad avere quel nuovo gioco (e a proposito, anche diverse ore dopo, ancora non riusciva a credere che sua madre avesse accettato la posta in palio).

Il primo giorno è sempre il più duro. Scrisse.
Pensò che iniziare a scrivere un piccolo diario l'avrebbe aiutata a superare la prova. L'avrebbe riletto ogni qual volta sentisse il bisogno di correre in soffitta a cercare la sua console. Per convincersi a resistere, per convincersi che ce l'avrebbe fatta.

Domani sarà un po' più facile, dopodomani ci riuscirò ad occhi chiusi.
Poteva già sentire su di sé l'effetto positivo delle parole che stava scrivendo. Ci credeva davvero.

Quella notte non riuscì a dormire perché continuò a girarsi e rigirarsi nel letto.
Neppure la lettura le aveva conciliato il sonno, anzi, il libro che aveva scelto aveva cominciato a piacerle e alla fine aveva iniziato a leggerlo con gusto, curiosa di scoprirne il finale. Comunque non riuscì a finirlo.
Pensò all'ultima volta che aveva letto un libro, dovevano essere passati dei secoli da allora.
La notte successiva fu un incubo. E lo stesso accadde le due notti successive. Di giorno restava a letto, provava a recuperare il sonno che non aveva trovato di notte, con scarsi risultati.
Finì il libro e lo ricominciò una seconda volta.
Scrisse sul suo diario.
È normale, non sono abituata a restarmene a letto tutto il giorno senza far niente. (Qualcun'altro direbbe che è esattamente quello che faceva).
Ogni tanto le capitava di guardare l'orologio appeso al muro, di fianco alla porta: le due, le tre, tre e mezza, le cinque e ogni volta pensava che probabilmente a quell'ora avrebbe potuto avere il joystick tra le mani e un disco blu-ray a casaccio inserito nella console; ormai non li guardava nemmeno più prima di inserirli nella console, li conosceva tutti come le proprie tasche.
Mancano dieci giorni, i primi quattro sono stati uno schifo. Sono sicura che andrà meglio, ma queste due settimane cominciano a sembrarmi un'infinità di tempo.
Di solito scriveva frasi brevi sul suo diario. Lesse quelle poche pagine centinaia di volte.
A volte le davano la carica, a volte le mandavano il morale a terra: era successo il terzo giorno, quando Nives era rimasta a letto tutto il giorno con i capelli sparsi sul cuscino, la coperta che lasciava intravedere soltanto gli occhi e non aveva mangiato nulla. Cominciava a domandarsi quanto a lungo avrebbe retto, forse un giorno o due ancora. 
«Devi metterci tutta la tua forza» le aveva detto suo fratello maggiore, Michael.
Era entrato nella sua stanza vestito di tutto punto - probabilmente perché aveva un appuntamento con qualcuno - e le aveva detto solo quello.

«Lo so che non è facile».
Nives pensò di non averne abbastanza, di forza.

Bisognò aspettare il quinto giorno perché la ragazza cominciasse ad assumere una certa consapevolezza di sé stessa.
Quello fu il primo giorno in cui uscì; certo, come prima cosa si precipitò in centro e rimase per una buona mezz'ora a fissare la vetrina di un negozio di videogiochi
come un bambino davanti a un negozio di caramelle, ma uscì di casa e prese una bella boccata d'aria. Quando lo raccontò a sua madre, lei fu contenta ugualmente.
Le raccontò anche di una ragazza che aveva incontrato in giro; una sua compagna di classe, una di quelle con cui aveva stretto amicizia quando a scuola ci andava ancora tutti i giorni. Non ricordava il suo nome, Nives fu costretta a chiederglielo e si sentì in imbarazzo per questo; però ricordava bene che quando erano a scuola la ragazza,
«Clarissa» aveva detto di chiamarsi, sedeva dietro di lei e sbuffava sempre per i capelli che Nives lasciava scivolarle sul banco - una volta l'aveva minacciata di darle un taglio netto e accorciarle tutta la lunghezza e una settimana dopo Nives era tornata a scuola con i capelli rasati sul lato sinistro e un ciuffo lungo fino alla guancia tinto di rosso sul lato destro, in netto contrasto con il colore castano scuro naturale dei suoi capelli. Ricordava che quella Clarissa era stata la prima ragazza alla quale aveva mostrato il nuovo taglio: un muto «ora non mi rompere più».
(I capelli Nives li portava ancora in quel modo solo che il ciuffo poi l'aveva tinto di blu e dalla parrucchiera non era più tornata; diciamo perché aveva avuto altro da fare.)
Sua madre, mentre preparava la cena, le fece notare l'entusiasmo con il quale raccontava quello che aveva fatto quel giorno.

«Sembri più entusiasta di quando vieni qui a raccontarmi di aver finito questo o quel gioco» e agitò un po' il coltello in aria indicando un pomodoro e una melanzana già tagliata a cubetti al posto dei videogiochi.
Nives corse a scriverlo sul suo diario e quella notte dormì sul serio, non si svegliò nemmeno un volta e il mattino dopo si sentiva meglio di quanto non fosse mai stata in tutta la sua vita.

Il sesto giorno fu quello in cui Nives uscì per la seconda volta, questa volta insieme a sua madre e suo fratello.
Rimasero fuori per tutto il giorno e Michael regalò a Nives un vestito corto, di un colore violetto molto chiaro e femminile, la forma le risaltava i fianchi poco pronunciati e per un giorno la ragazza fu costretta a mettere da parte le t-shirt troppo grandi con le stampe di fumetti e cose che solo lei conosceva, comprate nei reparti maschili e a indossare quell'indumento che la faceva sentire così strana, scoperta.
A cena scoprì di non essere al corrente di diverse cose, come della nuova ragazza di Michael, uscivano insieme già da quattro mesi, o di tanti altri avvenimenti nel loro quartiere.
Seguirono altri giorni di calma, nei quali Nives non ebbe bisogno di sfogliare a ritroso le pagine del suo diario per farsi coraggio.
Giornate piuttosto tranquille; Nives uscì nuovamente da sola ma questa volta raggiunse il centro soltanto dopo svariati giri e la vetrina di quel negozio di videogiochi la superò senza nemmeno voltarsi a guardarla, il suo sguardo si posò invece dalla parte opposta dove una coppia di genitori passeggiava insieme ai due figli e le tornò alla mente quando anche la sua famiglia faceva cose del genere: il sabato era la serata cinema, da che ne ha memoria, e il giovedì sera andavano a cena fuori, di solito si trattava di una pizzeria che si trovava a un paio di centinaia di metri di distanza da casa.
Mi ricordo dei giovedì sera in pizzeria e dei sabato al cinema. Domani è giovedì.
Papà non ci sarà, andremo soltanto io, Michael e la mamma e spero sarà divertente come prima.

Poi apprese che quella pizzeria vicino casa aveva chiuso da un po' e che al suo posto aveva aperto un ristorante cinese abbastanza frequentato dagli abitanti della zona, ma per la cena trovarono un altro locale un po' più distante ma abbastanza soddisfacente, molto simile all'altra pizzeria per l'aspetto della sala 
che aveva le pareti dipinte di un giallino chiaro coperte in alcuni punti da alcune fotografie in bianco e nero e in altri decorate con motivi astratti di colore rosso.

L'undicesimo giorno fu il peggiore e continuare a leggere e rileggere le parole di incoraggiamento che lei stessa aveva scritto era servito a poco e niente; scriverne altre aveva avuto lo stesso esito e con movimenti quasi automatici aveva raggiunto la soffitta e si era seduta davanti alla scatola.
L'aprì e rimase a fissarla per interminabili minuti: non riusciva a scorgere la console nera perché si trovava sul fondo, ma i suoi giochi c'erano tutti.
Ne prese uno, se lo rigirò tra le mani, osservò ogni particolare della custodia, alla quale in realtà non aveva mai prestato attenzione prima di allora; poi ne raccolse un altro e ripeté gli stessi movimenti automatici con ciascun videogioco contenuto nella scatola e costantemente tentata dall'idea di portarne un paio al piano di sotto e ricominciare la sua quotidianità.
In camera sua ci tornò a mani vuote, alla fine, ma in soffitta quel giorno entrò ancora diverse volte
tentata dalla stessa idea e più di una volta la sua forza di volontà vacillò, ma per fortuna Michael era lì per aiutarla.
Mancano tre giorni, perché sto cercando di rovinare tutto?
Ci sono così tante cose che posso fare per distrarmi, perché non ci riesco?
Non voglio chiedere aiuto a nessuno, né Michael né mamma.

Decise di uscire e fare un giro nei paraggi, magari avrebbe raggiunto il parco e si sarebbe seduta su una panchina a respirare l'aria fresca della sera e avrebbe portato il diario e una penna con sé, per scriverci sopra di qualche ricordo che quel posto le avrebbe fatto riaffiorare.
Una volta raggiunta la destinazione scelta trovò quel luogo quasi desolato, ad eccezione di un paio di ragazzini più piccoli di lei  ma con due sigarette strette tra le labbra. Ricordava quel parco molto più affollato, un tempo. Quando Michael la portava lì  c'erano un sacco di bambini e bisognava fare la fila per salire sullo scivolo, lo stesso che ora aveva perso il suo colore giallo acceso, sostituito da un giallo un po' opaco e triste e con un enorme buco alla fine della discesa.  
C'era questo scivolo, al parco; da bambina Michael mi portava sempre lì  e c'erano così tanti bambini  che bisognava fare la fila  per salirci  sopra e io mi arrabbiavo sempre  perché aspettare non mi piaceva e cercavo di superare gli altri.
Oggi tornarci è stato strano, c'erano soltanto dei ragazzini, massimo quattordici anni, che cercavano di sembrare più grandi fumando sigarette.
Questo particolare, dei ragazzi che iniziano a fumare per mettersi in mostra, non me lo ricordavo. Forse è una delle cose che mi sono persa stando a casa per tutto questo tempo. Mi sento così strana.

Ed era vero che si sentiva strana. Aveva ammesso per la prima volta a sé stessa una grande, gigantesca verità: aveva perso qualcosa.
Il tempo. Ne aveva perso così tanto che si era trovata a diciassette anni, diciotto tra pochi mesi, senza essersene resa conto.
Cos'altro? Due anni di scuola erano andati, uno a causa dei voti bassissimi in quasi tutte le materie, uno a causa delle assenze frequenti che le avevano fatto superare il limite poco dopo le vacanze di Natale e lei aveva deciso di non tornarci più perché tanto sarebbe stata bocciata ugualmente e almeno restando a casa avrebbe fatto qualcosa di interessante. Il motivo di base era sempre lo stesso, troppo impegnata con i suoi videogiochi per preoccuparsi della scuola o delle preghiere di sua madre che la spronava a studiare, lasciar perdere quegli stupidi affari elettronici.
Una vita sociale non ce l'aveva da diverso tempo, anche più di due anni.
Lasciò scivolare la penna che cadendo rotolò vicino alla sua gamba sinistra e per la prima volta fissò il suo sguardo su una sola parola, mai scritta prima su quel quaderno.
Forse è una delle cose che mi sono persa.
Pianse.

I tre giorni mancanti trascorsero in totale tranquillità e quando si rese conto di quanto poco tempo le mancasse per vincere la scommessa lasciò che le riflessioni dei giorni passati passassero in secondo piano  permettendo al suo obiettivo iniziale, Ghosttown - Final Armageddon, di tornare in prima posizione tra le cose di cui le importava davvero qualcosa.
In quei tre giorni uscì più volte diretta verso il centro e non accadde mai che dimenticasse di voltarsi a guardare la vetrina del negozio di videogiochi, mai - si fermava lì, soltanto per un paio di minuti, e scrutava la vetrina in cerca di quel videogioco, con gli occhi si muovevano da un angolo all'altro mentre premeva le mani sulla vetrina e vi schiacciava contro il naso per riuscire a guardare meglio, quando riusciva a trovarlo un sorriso spontaneo le nasceva sul volto e lei si sentiva davvero felice pensando che presto sarebbe stato nelle sue mani.
Il quattordicesimo azzardò ad entrare nel negozio per avvicinarsi al premio che avrebbe ricevuto l'indomani.

«Domani sarai mio» parlò a voce bassa, non voleva che nessuno la sentisse, mentre con gli occhi lucidi per la gioia di quel momento si rigirava l'oggetto sottile tra le mani, «domani».

La mattina del quindicesimo giorno erano già le undici passate quando si svegliò, la sfida conclusa da diverse ore, stando all'accordo con sua madre.
Iniziò la giornata correndo in soffitta ancora in pigiama, per recuperare tutti i suoi averi, gli stessi che sua madre, prima di uscire per il lavoro aveva rimesso al proprio posto. Nives non se n'era nemmeno accorta.
Quindi corse di nuovo al piano di sotto ed entrando nella sua stanza ne percorse con lo sguardo ogni centimetro, accarezzò con la punta dell'indice, sfiorandoli appena, ciascun videogioco fino a raggiungere Il videogioco, quello che bramava di ottenere dall'inizio di quella scommessa.
Dimenticando la fatica dei primi giorni pensò che quelle due settimane erano passate in fretta, alla fine, e che il suo premio se l'era meritato.
Non esitò ad inserire il videogioco nell'entrata della console nera e pulita e iniziare una nuova partita, febbricitante d'eccitazione.
Il gioco non le piacque, Nives non sentì niente giocando. Nessuna scarica di adrenalina, assolutamente niente, assomigliava a tanti altri videogiochi che ormai conosceva a memoria e che non la interessavano più perché troppo noiosi.
In quei casi le bastava cambiare disco e iniziare un nuovo gioco, uno nel quale avesse ancora poche esperienze, uno che non aveva ancora finito o che la intrigava in maniera particolare; ma ora era quello il nuovo gioco. Perché non le piaceva?
Tirò fuori il videogioco dalla console e lo ripose nella propria custodia, poi decise di uscire e l'aria fresca che mezz'ora più tardi le colpiva le guance rendendole più scure di qualche tonalità le provocò molto più piacere di quel gioco che aveva deciso di portare con sé, ben riposto nella sua confezione.
Salire sull'autobus e timbrare il biglietto le provocò quella scarica d'adrenalina che desiderava e seduta su quel mezzo, esaminando il paesaggio e le persone che ne agitavano la scena attraverso il finestrino capì che con Ghosttown - Final Armageddon non avrebbe più giocato e lo riportò indietro accontentandosi dei soldi che ottenne per averlo restituito come gioco di seconda mano.
Sua madre e suo fratello furono fieri di lei quella sera, quando raccontò loro della sua decisione di iniziare a vivere una nuova vita, abbandonando quella precedente fatta di mondi virtuali, comandi e trucchetti, per sostituirla con una vera.

Mia madre lo sapeva, o lo sperava con tutte le sue forze, che avrei smesso di giocare.
Grazie per questa sfida, questa vita mi piace di più di quella che avevo prima.

Scrisse pochi anni più tardi su quel diario, che aveva ritrovato in fondo ad un cassetto della sua scrivania, prima di partire per l'università e iniziarne un'altra ancora di vita e se possibile ancora più bella.


 
Conteggio, 3051 parole.


Note dell'Autore.
Volevo scrivere un paio di cose riguardo questa OneShot, scriverla mi ha portato via un sacco di forze e il sonno: per più di un paio di notti sono rimasta in piedi davanti al computer cercando le parole giuste per esprimere un concetto che avevo in testa o l'ispirazione improvvisamente scomparsa. Comunque, non voglio trasformare queste NdA in un'altra Shot, quindi utilizzerò un elenco il più breve possibile.
1. Sono consapevole del fatto che la sfida/scommessa non sia una motivazione chissà quanto seria per indurre una ragazza a smettere di giocare ma la quantità di angst e tristezza che sarebbe venuta fuori dall'idea originale non avrei saputo come gestirla, così come non avrei saputo tener testa alla lunghezza della storia.
2. Spero non mi sia sfuggito nessun errore, ho ricontrollato più volte ma probabilmente c'è qualcosa di cui non mi sono accorta.
Nel caso, segnalatemeli e provvederò a correggerli.
3. Ghosttown - Final Armageddon, credo sia giusto dirlo, è un nome che ho inventato mescolando indieme la canzone di Madonna (Ghosttown) che stavo ascoltanto proprio in quel momento e il nome di uno dei Gormiti (chissà se qualcuno se li ricorda) di mio fratello. Non so se esista un videogioco con un nome simile.
4. Il nome del negozio non è mai citato per non far pubblicità a niente, nonostante la mia cerchia di lettori sia piuttosto ristretta.
Spero vi sia piaciuta, altrimenti assicuratevi che i pomodori non siano marci.
blackswan_
 

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Baci xx.

 
  
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