Serie TV > The Vampire Diaries
Segui la storia  |       
Autore: La Viaggiatrice    07/08/2015    0 recensioni
Penelope Morgan è una strega cattiva, una ragazza a cui la vita non ha mai sorriso. Un passato difficile da gestire l'ha resa oscura, compromessa, portandola in un luogo da dove non sembra esserci ritorno. Dentro di lei abitano Spiriti Oscuri, che la controllano ma che vengono controllati a loro volta pur mantenendo alcune peculiarità che la rendono difficile agli occhi degli altri. La sua vita si intreccerà molte volte con quella dei vampiri di Mystic Falls, pur rimanendo legata a doppio filo con quella degli Originali e di Klaus in particolare. Le sue maschere, il suo carattere, il modo in cui cerca di farsi detestare la porteranno a scoprirsi, finalmente, per la prima volta. Facendole trovare qualcuno che le vuole bene e a cui tenere. Dotata di immenso potere, di un carattere esplosivo quanto pericoloso, sadica e sociopatica, psicopatica e senza rimorsi, ambiziosa e curiosa, con la voglia di essere sempre al centro della scena, di essere amata e stimata, piena di contraddizioni e di problemi mentali, vanitosa e arrogante… insomma un uragano per chiunque la incontri. { Per l'aspetto di Penelope mi sono ispirata ad: Evangeline Lilly }
Genere: Fantasy | Stato: in corso
Tipo di coppia: Het | Personaggi: Un po' tutti | Coppie: Damon/Elena
Note: AU, Cross-over, Lime | Avvertimenti: nessuno
Capitoli:
 <<  
Per recensire esegui il login o registrati.
Dimensione del testo A A A
Quella notte fece un incubo.
Un altro.
Ormai era abituata a soffrire durante il sonno e a dormire poco e male.
Ma faceva male ogni volta.
Si rigirò tra le lenzuola, che si erano appiccicate alle sue gambe sudate, mentre un rivolo di sudore le scendeva lento lungo la tempia e la schiena, i capelli appiccicati alla fronte, lo sguardo sconvolto e sofferente. Si allungò verso la parte vuota e fresca del letto matrimoniale, calciando lontano il cuscino, senza nemmeno rendersene conto. Non riusciva ad uscire da quel sogno, da quelle immagini. L’avevano catturata, presa, e non la lasciavano andare.
Come ogni notte si trovava nuovamente sul tetto del palazzo più alto di Londra. Guardava il vuoto sotto di se, scorgendo la strada lontana in basso, le luci e le macchine che sembravano tante formiche. Visse di nuovo la sensazione di vertigine mentre sentiva il palazzo salire verso il cielo, aumentare la sua altezza e spingerla lontano da tutti, lontano dalla città in cui era cresciuta.
Era di nuovo la bambina che aveva perso la sua famiglia.
Sentiva dolore, percepiva la se stessa stesa sul letto, che iniziava a piangere, ma non riusciva a legarsi a lei abbastanza da svegliarsi, da essere strappata da quelle immagini. Sentiva invece il sogno che la staccava violentemente dalla se stessa reale e la riportava davanti alla sua famiglia.
I suoi cari la salutavano con il sorriso. Un sorriso che presto si spense in un’espressione di odio e disprezzo, disgusto per quello che era.
Cominciarono uno a uno ad allontanarsi da lei. A voltarsi e ad andarsene. Li chiamava, urlava e tendeva le esili e troppo corte braccia verso di loro, per richiamarli e farli tornare da lei, per abbracciarli, ma loro la ignoravano. Sua madre, sua sorella maggiore, sua nonna, suo nonno e sua zia. Infine suo padre.
Il disgusto sul suo viso fu quello che le fece più male. Improvvisamente si fece tutto buio. Non riusciva nemmeno a scorgere le sue mani davanti al viso, era un buio nero che faceva male agli occhi e al cuore. Aveva paura. Si sentiva scoperta, indifesa e nuda, davanti a qualcuno che stava per farle del male. Odiava quella solitudine. La faceva sentire colpevole e sporca.
All’improvviso un lampo, una luce arancione e rossa, scoppiò all’angolo del suo campo visivo.
Si voltò rapida, mentre ogni cosa intorno a lei acquistava corpo, e si sfaldava nuovamente.
Ogni cosa procedeva al rallentatore, mentre si voltava, lasciando delle scie di colore dietro di se.
La luce le dava fastidio, non riusciva a tenere gli occhi aperti, vedeva tutto sfocato e sentiva di essere ceca, mentre il fuoco avvampava ancora.
La sua casa, la casa in cui era cresciuta, la casa della sua infanzia, della sua famiglia, la sua famiglia. Ogni cosa bruciava. I ricordi, le foto, gli oggetti che l’avevano accompagnata. Tutto era perduto. Sentiva le sue urla, le sue lacrime, la sua disperazione, ancora come se stesse succedendo tutto ancora. Come se si trovasse in un sadico gioco, in cui riviveva all’infinito quella sera, ancora e ancora e ancora… si ripeteva in uno strano e cattivo scherzo del destino. Doveva riviverlo, per pagare la sua colpa, per non dimenticare mai quello che aveva provocato.
Non sapeva nemmeno come aveva fatto a uscire da quella casa. Era li dentro quando tutto era cominciato, quando le finestre erano esplose intorno a loro, quando le prime fiamme avevano attecchito… quando all’improvviso si era ritrovata sdraiata nel prato dei vicini ad assistere impotente a tutto quello. Si era alzata in ginocchio, con le lacrime che rigavano le sue guance sporche di fumo, un blocco in gola che le impediva di respirare ed una strana rassegnazione. Come se avesse scelto di diventare fredda e cattiva proprio in quel momento. Come se avesse scelto di chiudersi al dolore, di non sentire più niente. Pur continuando a fissare immobile la casa e a piangere. Ma gli occhi erano vuoti. Non c’erano più emozioni dietro quei vetri vuoti.
Aveva provato ad alzarsi, vacillando sulle gambe, e ancora più incerta si era diretta di corsa verso la casa. Ma aveva sentito proprio in quel momento qualcuno stringerla e fermarla.
Sentiva le parole che le sussurrava nell’orecchio, ma non ne capiva il senso, mentre scalciava con i piedi sospesi nel vuoto per scendere da quell’abbraccio e andare in quella casa che bruciava inesorabile. Pochi secondi, solo pochi secondi dopo che aveva cercato di raggiungerla e quelle braccia l’avevano stretta, pochi secondi e la casa esplose, come se qualcuno l’avesse imposto.
Se quelle braccia non l’avessero fermata, sarebbe morta.
Si coprì il viso davanti a quell’esplosione, mentre le lacrime smettevano di scendere per colpa dello spavento e cominciava a singhiozzare, incapace di respirare nel modo giusto. Sentì i piedi toccare terra e la persona che l’aveva stretta la fece voltare verso di sé, abbracciandola.
Si ritrovò a respirare attraverso morbidi ricci castani, che profumavano di cannella e biscotti al cioccolato. La nonna di Bonnie.
In quel momento, qualcosa la riportò al presente, si alzò a sedere nel letto, l’espressione stravolta, un urlo represso che non riusciva ad uscire e il viso bagnato di lacrime. Stava tremando e aveva inspiegabilmente freddo. Non aveva più sentito freddo da quando aveva sentito quelle fiamme sul viso, come se quella notte le fossero entrate dentro, modificando il suo essere.
Si rannicchiò su se stessa, abbracciando le gambe e portandole al petto, scossa dai singhiozzi e dal pianto. Fissò il vuoto nero davanti a se, notando appena i contorni dei mobili tra le lacrime che le bagnavano le iridi verdi. Non riusciva a mettere a fuoco niente, era tutto tremolante e scostante, niente era reale, come se si trovasse ancora in quell’incubo orribile.
Non riuscì a dormire per tutto il resto della notte. L’alba la sorprese in quella stessa posizione, gli occhi fissi e vuoti, le lacrime ormai asciutte da tempo. Si voltò appena alla luce e se ne ritrasse subito, spostando il corpo spaventata, come se quei raggi fossero fuoco e potessero ferirla.
Deglutì, tirando su con il naso, e poi si pulì il viso violentemente, con i pugni chiusi, quasi colpendosi volontariamente e si alzò stizzita, in piedi. Perché lei era ancora viva, perché lei era una strega e loro erano morti? Perché aveva dovuto vivere tutto quel dolore? Perché aveva dovuto rimanere sola e perdere tutti? Perché aveva dovuto intraprendere quel cammino che la recludeva al resto del mondo?
Si fermò alla finestra e scostò le tende di qualche centimetro fissando la vita nella città in quella giornata che cominciava. Le richiuse stizzita e si lanciò nuovamente sul letto. Non sarebbe uscita da li quel giorno. Non aveva la forza necessaria per aprire la porta e camminare in mezzo a tutti quegli stupidi ignari che continuavano le loro vite come se niente fosse, senza dolore o perdite, senza sapere cosa voleva dire. Vivevano e se ne fregavano di tutto e di tutti, a loro importava solo di loro stessi. Come a lei d’altro canto. Era tremendamente egoista e lo sapeva, ma sentiva che poteva avere il diritto di esserlo, senza sentirsene in colpa. Specialmente quel giorno.
Erano undici anni precisi che poteva esserlo. E non aveva voglia di sentire paternali, di rimpiangerlo o di combattere ed essere diversa. Non sarebbe andata in nessuno stupidissimo cimitero quel giorno, quell’anno era lontana da casa. Se mai avesse potuto chiamare quella città casa. Non aveva una casa che riconosceva come tale, viveva solo in un luogo o in un altro. Semplice. Quella sera sarebbe stata l’undicesimo anniversario di quella fottuta sera.
L’unico pensiero che il suo cervello riuscì a formulare prima di ridursi all’impotenza e lasciarla vuota a fissare il pavimento, fu Kol. Avrebbe tanto voluto che ci fosse lui, li con lei. Non capiva perché ma sentiva che solo i suoi occhi cattivi e privi di pietà avrebbero potuto farla allontanare da quel dolore. Solo la sua strafottenza e il suo insensibile senso dell’umorismo avrebbero potuto farla sorridere di nuovo per davvero. Ma allontanò quei pensieri e quei sentimenti. Lei non li tratteneva mai a lungo. Non più.
 
 
 
°°°
 
 
 
Stesa a pancia in giù, le braccia stese accanto a se e la punta delle dita a giocare sul pavimento freddo, non si accorse del tempo che scorreva, nemmeno del sole che compiva il suo circolo nel cielo azzurro e si abbassava sempre di più sull’orizzonte, nascondendosi dietro la parete della pensione sulla quale si apriva la finestra della sua camera. Gli occhi bagnati e lucidi, ben aperti, fissavano senza vederla, la porta della camera. Non percepiva niente, nemmeno se stessa, nemmeno il lenzuolo sotto la sua guancia, nemmeno le pieghe che gliela stavano rigando, nemmeno l’intorpidimento che l’immobilità forzata le imponeva ai muscoli. Semplicemente era li, ferma immobile, il respiro lieve e quasi inesistente, i battiti del cuore rallentati dalla calma in cui si era imposta di stare. Cercava di non pensare ne provare niente. Di non esistere. Di non essere.
Sarebbe dovuta morire quel giorno, insieme alla sua famiglia, ma qualcosa le imponeva di essere felice di essere sopravvissuta. E ogni volta che lo pensava, si sentiva ancora più in colpa e voleva essere morta anche lei. Era un guscio vuoto, un errore in un disegno che sarebbe potuto essere perfetto, era uno sbaglio che non sarebbe dovuto essere fatto. Era qualcosa in più, che non ci sarebbe dovuto essere. Tirò su con il naso, sbattendo un paio di volte le palpebre umide di lacrime. Si leccò le labbra a fatica, ormai secche e increspate, quasi tagliate, dal silenzio che si era imposta e sentì il sapore salato delle lacrime che aveva pianto senza accorgersi. In silenzio, senza singhiozzi, senza sentirle scorrere e solleticarle le guance.
Le mancava il profumo della pelle di suo padre, la felicità che provava ogni volta che lo avvertiva su di se, o vicino a lei, ogni volta che la stringeva e lo sentiva scorrere su di lei. Ogni volta che suo padre le era vicino era come svegliarsi la mattina. Sentire il profumo della colazione e sorridere. Era famigliare e sapeva di casa. Di un luogo fatto per te.
Aveva odiato il latte caldo dal giorno in cui aveva perso suo padre. Non poteva nemmeno sentirlo che andava su tutte le furie.
Le mancava anche l’odore di fiori di sua madre e il sorriso buono di sua nonna. Il sapore di menta e di tabacco del nonno e i capelli biondi e luminosi, pieni di riflessi quando erano colpiti dal sole, di sua sorella. Si sentiva sola. Sentiva che non poteva avere nessuno, che non meritava qualcuno accanto, non poteva amare nessuno perché poi lo avrebbe perso. Sentiva che non poteva appartenere a nessuno e nessuno poteva appartenere a lei. Se solo avesse abbassato le difese e lasciato che succedesse, avrebbe perso ogni cosa, avrebbe sofferto e costretto altri a soffrire. Non avrebbe potuto permettere mai a nessuno di avvicinarsi. Lei era sbagliata.
Lei era cattiva.
 
All’improvviso nella sua mente si insinuò una musica. Qualcosa di leggero e lieve. Non si mosse per capire da dove provenisse, sia perché non aveva la forza di alzarsi a sedere, ne la voglia di farlo, sia perché sapeva da dove arrivava. Veniva fuori da un ricordo.
Era la musica del carillon che le avevano regalato quando era nata. La musica che amava e che sua sorella suonava sempre al piano per farla contenta. Avrebbe potuto suonare molte melodie, ma sceglieva sempre quella e non si stancava mai di ripeterla. La sceglieva per lei. Per vederla sorridere. Lei si alzava e cominciava a ruotare su se stessa, con le braccia alzate e gli occhi lucidi.
Quando era più piccola e ancora non camminava, era l’unica cosa che la calmava quando piangeva. La rilassava, si zittiva e si addormentava sempre. Era l’unica cosa che riusciva a fermare il suo animo inquieto.
Avrebbero dovuto avere più tempo.
Si costrinse a zittire quel pensiero, a non sentire più quelle note. Spense l’immaginaria radio che produceva quella musica, la chiuse in una scatola e la sigillò, spedendola lontano con un calcio. Chiuse gli occhi e si costrinse a percepire solo il silenzio, che la avvolse ingigantendosi, dandole le vertigini e facendola annegare in qualcosa di vischioso e profondo.
«Mamma mi manchi! Papà, dove sei? Ho bisogno di te, di voi!»
Bisbigliò quelle parole, quasi controvoglia, quasi senza rendersene conto, quasi senza volerlo.
Si sentiva una bambina indifesa, che ha paura del temporale e che chiama mamma e papà. Solo che non sentiva nulla. Non sentiva emozioni, paura e spavento erano più lontano che mai da lei. Si sentiva fredda e vuota. La sua stessa voce le era suonata estranea.
Le tornò improvviso e potente il solito mal di testa, accompagnato anche dal dolore al collo provocato dalla posizione e dalla rigidezza a cui si era trovata a sottostare. Ma non riusciva a muoversi, ad abbandonare quella posizione. Voleva che quella giornata finisse, senza che lei se ne accorgesse. Voleva ripartire dalla mattina dopo, come se quel giorno non fosse mai esistito.
Rimaneva immobile in quella stanza, che a poco a poco diventava più buia e fredda, attendendo che la notte passasse, che la luce della Luna ormai praticamente piena, che illuminava il pavimento se ne andasse lontano da lei. Che la luce del sole e il grigiore dell’alba, venissero a chiamarla. Sperava solo di non cadere ancora negli stessi incubi di sempre. Cercava di non esistere, immobile e ferma, per non dormire, per non sognare.
E la notte passò.
 
La luce grigia dell’alba entrò timida dalle tende tirate, creando uno strano gioco sul pavimento ai piedi del suo letto. Si rigirò, finalmente in grado di muoversi, e si mise a pancia in su, cominciando a fissare il soffitto grigio di quella stanza, con lo sguardo perso e vuoto che a poco a poco riacquistava colore, insieme alle sue guance. Si alzò a sedere e si diresse nel bagno, in mutande e canottiera. Si fissò nello specchio. Una ragazza innaturalmente pallida le stava restituendo lo sguardo. Si lavò immediatamente la faccia con dell’acqua fredda anche se non aiutò a togliere le occhiaie bluastre che cerchiavano i suoi occhi verdi, gonfi per le troppe lacrime e arrossati per il troppo sonno perso.
Si ravvivò annoiata i capelli mossi e si vestì con una maglietta lunga abbastanza da sembrare un vestito. Si trattava invece di una vecchia maglietta di uno dei ragazzi che avevano dormito con lei, uno dei tanti. Cercava compagnia per non restare sola in balia dei suoi incubi. Si illudeva di non essere sola almeno per quelle ore, e cercava di non cadere nei suoi incubi.
Molto spesso rifuggiva la compagnia delle altre persone, ma a volte ne aveva bisogno.
Per quella giornata scelse degli stivaletti corti con il tacco. Li usava spesso per ovviare la sua bassa statura. Le gambe nude e perfette sembrarono subito più slanciate e lunghe.
Si truccò il viso per nascondere i segni del dolore provato la notte prima e si diresse di nuovo verso il Grill. Moriva di fame e aveva bisogno di buttare giù qualcosa nello stomaco, se voleva riacquistare energia.
Prima di uscire dalla camera, la mano stretta intorno alla maniglia, si impose di vestire il suo solito sorriso allegro, nascondere ancora quello che provava era l’unica salvezza possibile per lei. Doveva costantemente vestire una maschera se voleva sopravvivere. Non poteva mostrarsi debole a nessuno, se voleva continuare a vivere serena, se non voleva essere sopraffatta da tutto quello che la circondava ogni secondo. Sarebbe stata soppressa dalla stessa magia che la teneva in vita, se lo avesse fatto. Non poteva mollare nemmeno per un secondo, mai.
Sorrise ed uscì, di nuovo se stessa, di nuovo forte e sicura.
 
Sospinse il suo corpo verso il muro trascinandosi dietro il barista del Grill che aveva conosciuto due giorni prima. Le sue mani sul suo corpo, sui suoi fianchi, nei suoi capelli. Gli stessi punti che toccava il barista sul suo corpo formoso, mentre la baciava con passione e trasporto. Aveva gli occhi chiusi ma poteva vedere che anche al barista piaceva quanto a lei. E a lei piaceva abbastanza.
Non aveva resistito, aveva bisogno di compagnia, di avere qualcuno che la stringesse, per cancellare il dolore e la paura del giorno prima. Per dimenticare ogni cosa, per lasciarsi andare di nuovo e non sentire niente. Ovviamente sentiva qualcosa per il barista, non era quel tipo di ragazza che non provava niente in certe situazioni, ma non voleva sentire niente del resto.
Voleva abbandonarsi a quelle sensazioni ed emozioni per cancellare il resto.
Si trovavano sul retro del locale, tra gli scaffali delle scorte. Certo, non era il più romantico tra i posti, ma avevano fretta di trovarsi da soli e al momento non ci avevano pensato molto.
Sentì le mani sicure e forti del barista scivolare su di lei, alzarle la maglietta e posarsi sulla sua pelle, che si riempì di brividi mentre le veniva la pelle d’oca. Saltò e lo strinse con le gambe, mentre lui posava le mani sulle sue cosce per sostenerla. Scese a baciarle il collo mentre lei tirava la testa indietro e poi alzò le braccia mentre lui le sfilava la maglietta dalla testa.
Gli posò di nuovo le mani sul viso e poi lo abbracciò attirandolo maggiormente a se, riprendendo a baciarlo, gli sfilò la maglietta con il nome del locale e posò di nuovo le labbra sulle sue.
Le girava la testa mentre l’eccitazione cresceva e le magliette cadevano insieme sul pavimento.
Fuori da quelle porte il locale era deserto. Non c’era nessuno, avrebbero potuto farlo anche su quei tavolini di legno. Ma aveva preferito spingerlo verso il retro.
Nascondersi dal mondo, mentre ne sfuggiva. Mentre si riparava da tutto, agendo di istinto, senza ragione e senza motivo. Mentre allontanava tutto da sé.
«Sicuro che non arriva nessuno?»
«Si, sono sicuro»
la voce provata dalle emozioni intense che stavano vivendo, la paura che si sommava al desiderio accrescendolo. Toccò nuovamente terra mentre gli slacciava con mano esperta la cintura dei pantaloni, gli occhi ancora chiusi e le labbra incollate. Sbottonò i pantaloni e glieli fece scorrere lungo le gambe, poi lo strinse ancora con le gambe mentre si rimetteva in braccio al ragazzo.
Non ricordava nemmeno come si chiamava. Al momento era troppo impegnata per ricordarselo.
Le labbra del ragazzo si posarono nuovamente sulla sua gola, provocandole uno strano brivido dietro l’orecchio che scese lungo la schiena. La baciò posandole una mano sul viso, scendendo poi lungo la gola arrivò al seno e proseguì sulla pancia nuda e piatta.
La strinse ancora di più a se, mentre le slacciava il reggiseno, leccandole la gola e riprendendo a baciarla con più passione e desiderio.
Si muoveva dolcemente ma impaziente contro il corpo del ragazzo, che cominciò a sudare per l’eccitazione, mugolando lievemente. Tirò indietro la testa lasciandosi andare completamente.
 
 
 
°°°
 
 
 
Uscì dalla porta sul retro del locale tornando dietro al bancone, abbassandosi la maglietta sulle cosce nude, e dopo poco fu seguita dal ragazzo che si stava riallacciando la cintura dei pantaloni.
Si guardarono sorridendosi e gli diede un altro lieve bacio sulle morbide labbra color pesca, che sembravano aver mantenuto anche la sensazione vellutata di quel frutto.
«Ci sentiamo eh?»
gli disse strizzandogli un occhio e dirigendosi di nuovo verso l’esterno.
Sentiva lo sguardo del ragazzo su di se, sentiva anche che le stava fissando il culo, ma non si voltò. Si diresse verso l’uscita sorridendo soddisfatta e compiaciuta.
Ora stava meglio.
   
 
Leggi le 0 recensioni
Segui la storia  |        |  Torna su
Cosa pensi della storia?
Per recensire esegui il login oppure registrati.
Capitoli:
 <<  
Torna indietro / Vai alla categoria: Serie TV > The Vampire Diaries / Vai alla pagina dell'autore: La Viaggiatrice