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Autore: Calliope49    08/08/2015    2 recensioni
[Seguito di “By any other name”]
La regina di Inghilterra sta per giungere a Parigi da suo fratello, re Luigi. Un sicario straniero viene mandato a ucciderla, un agente al soldo del duca di Buckingham viene mandato per salvarla.
Nel mezzo, i moschettieri, Diane alle prese con il suo nuovo incarico e, ancora una volta, il confine tra “buoni” e “cattivi” che non è così preciso come si vorrebbe…
Genere: Avventura, Azione, Sentimentale | Stato: in corso
Tipo di coppia: Het | Personaggi: Athos, Milady De Winter, Nuovo personaggio, Un po' tutti
Note: What if? | Avvertimenti: nessuno
Capitoli:
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- Questa storia fa parte della serie 'On the side of the angels '
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I
L’ordinario
 
Il compleanno del re si ripeteva tutti gli anni con irreprensibile puntualità, eppure il capitano Treville sembrava doversi imbracare in un’impresa terribile e ignota.
«Devo andare a palazzo» disse, guardando fisso davanti a sé con aria vagamente alienata. «Devo vedere sua maestà e sapere…».
Diane lo afferrò per un braccio e lo trascinò verso la tavola apparecchiata al centro della stanza.
«Sono le otto del mattino» gli ricordò. «Per sua maestà è praticamente notte fonda. Possiamo metterci seduti e fare colazione come tutte le persone normali?».
Treville sollevò su sua nipote uno sguardo dubbioso. «Siamo persone normali? Da quando?».
Il peculiare incarico che Diane svolgeva per la regina era stato per lui fonte di un certo disappunto, non perché ritenesse sua nipote incapace di assolvere a quel compito ma perché era certo che lei vi si sarebbe dedicata con ogni fibra del suo essere e, se l’occasione lo avesse richiesto, con ogni goccia del suo sangue.
Era un uomo di larghe vedute, il capitano dei moschettieri - e ne aveva viste comunque abbastanza da non porre mai limiti alla provvidenza - ma per quella nipote che amava come una figlia avrebbe voluto una vita tranquilla, un matrimonio sereno e una bella casa lontano dal caos e dai pericoli di Parigi. E invece Diane era stata scelta dalla regina come suo agente personale, si era innamorata di un moschettiere dal passato burrascoso e stava attualmente cercando una casetta in affitto nei pressi della guarnigione.
A conti fatti, Treville non aveva niente da obiettare: la fiducia della regina nei confronti della ragazza era lusinghiera, il moschettiere di cui sopra era il più stimato dei suoi uomini e lei aveva di certo tutte le capacità per farcela da sola. A lui però rimaneva l’apprensione acida del vecchio che, non dovendosi più preoccupare del proprio futuro, guardava con una certa ansia all’avvenire dei suoi cari.
Diane era consapevole di tutto questo e sopportava con pazienza la manifesta inquietudine di suo zio.
Spalmò del miele su delle fette di pane e ne porse una a Treville. Quando alzò lo sguardo su di lui, si accorse che la stava fissando come se volesse leggerle nel pensiero.
«Cosa c’è?» gli domandò.
«Niente. Mi sembra che tu sia felice».
Diane sorrise.
Era tornata in Francia una mattina di novembre, spezzata come un riflesso in uno specchio rotto. Era stata cresciuta come una ragazza di buona famiglia, serenamente consapevole del futuro che le spettava, e aveva considerato il suo ritorno a Parigi come una parentesi tremenda e avventurosa prima di tornare sulla retta via. Poi però aveva cominciato a non riconoscersi, a non sapere quale dei mille frammenti di specchio riflettesse la sua vera immagine, era ancora quella ragazza, ma aveva scoperto di non essere più soltanto quello. Rendersene conto era stato difficile, aveva dovuto resistere a terremoti che avevano ridisegnato la geografia del suo essere e quando la terra aveva smesso di tremare, aveva dovuto fare i conti con le tante cose che erano cambiate in lei. A poco a poco lo specchio era tornato intatto, restituendole un riflesso a cui ora sentiva di poter essere fedele.
Era qualcosa di cui era consapevole, ma non sapeva dirlo a parole.
Scosse il capo e si versò un po’ di latte.
«Sto bene, zio. Mai stata meglio». Era una rassicurazione minuscola ma sincera.
«Mh» Treville annuì. «Non sarò così indiscreto da chiederti quanto di questo bene sia merito di Athos».
A Diane andò di traverso il latte e rischiò di sputarlo sulla tovaglia di lino.
Nelle due settimane trascorse da quando il moschettiere aveva confessato al capitano le sue intenzioni, zio e nipote non ne avevano mai parlato. La ragazza pensava che lui provasse un certo imbarazzo nell’affrontare apertamente la questione, e poi conosceva Athos abbastanza bene da non avere domande sul suo conto.
La giovane tentò di riaversi. Morire soffocata da un goccio di latte sarebbe stata una ben misera fine.
«Conosci Athos…» disse titubante. «È il tipo di persona che mette estrema cura in tutto quello che fa».
Treville scansò qualche briciola con aria distratta. «Se fossimo persone normali, dovrei invitarlo a cena».
Diane provò a figurarsi la scena.
Dio, aiutami…
Alzò la testa di scatto. «Se fossimo persone normali, indugeremmo in questa conversazione» disse. «Ma dato che non lo siamo, adesso andremo a prepararci per andare a palazzo». Si alzò di colpo e corsei fuori dalla sala da pranzo, prima che a suo zio venisse in mente di aggiungere altro.
 
Quella mattina sembrava che il re si fosse alzato dal letto con il piede giusto.
La sala delle udienze era tutto uno scintillare di sorrisi e di una luce calda e dorata, sorprendente per una giornata di marzo. Diane credette che la gente ne sarebbe rimasta abbagliata, ma poi il suo sguardo incontrò la macilenta figura del cardinale, ritto accanto al re e lei pensò che ci fosse sempre la giusta dose di ombra a bilanciare l’eccesso di luce, così che il mondo non andasse a fuoco.
Richelieu stava ancora raccogliendo i frutti del suo successo. L’arresto del conte Legrand era un’altra medaglia nella sua collezione di trofei più o meno immeritati, ma se la cosa lo aveva rinvigorito nello spirito, nel corpo Sua Eminenza continuava ad essere giorno per giorno sempre più stanco e deperito.
«Non vedevo l’ora che arrivaste, capitano. Ho delle grandi notizie da darvi» trillò il re, agitando tra le mani una lettera a cui il cardinale lanciava di tanto in tanto un’occhiata esasperata.
Il capitano Treville e sua nipote si inchinarono, poi lei si dileguò prima che il sovrano attaccasse bottone.
Il suo quartetto preferito di moschettieri aveva fatto rapporto al palazzo quella mattina e Diane fu contenta di vederli schierati accanto alla parete laterale - fu più contenta di  quando non lo fossero loro nel trovarsi lì.
Sgusciò verso i soldati e si nascose alle loro spalle.
«Buongiorno, signori» bisbigliò. Le risposero con leggeri cenni del capo.
«Mio zio è preoccupato per il compleanno del re» aggiunse. «È davvero una cosa così terribile?»
«Sì, se devi montare di guardia tutta la notte» le rispose Athos.
«E noi montiamo sempre di guardia tutta la notte» aggiunse Aramis.
«E poi il re è felice» squittì Porthos. «Guardalo quanto è felice: dà i brividi».
Diane soffocò una risata.
Sua maestà si alzò con uno scatto dal suo scranno e sgambettò per la sala, avvicinandosi a Treville.
«Al vostro servizio, maestà» disse il capitano dei moschettieri, osservando con malcelata ansia la faccia del sovrano che si tendeva verso di lui.
«La prima notizia è che per il mio compleanno ho deciso di dare un ballo in maschera» annunciò Luigi.
Il cardinale Richelieu nascose il viso nel palmo della mano, affranto.
I moschettieri inspirarono con un singulto, come se si fossero fatti male e Treville, che aveva il re a mezzo metro dalla faccia, si sforzò di non avere alcuna reazione.
«Molto bene, sire. Che altro?»
«Mia sorella mi ha scritto, che verrà a trovarmi». Sua maestà agitò la lettera sotto al naso del capitano. «Non è magnifico?»
«Indubbiamente, sire. Di quale delle vostre sorelle stiamo parlando?»
«Di Enrichetta Maria, naturalmente. Maria Cristina è impantanata nella Savoia con quel pallone gonfiato di suo marito il duca, figuriamoci…».
«Ed è meglio che ci resti» bisbigliò d’Artagnan, come un pensiero ad alta voce.
«Cos’ha Maria Cristina che non va?» chiese Diane, che conosceva ancora poco le storie di palazzo.
«Tutto, a cominciare da suo marito». Nella risposta di Aramis vibrò una nota di freddezza sprezzante che acuì la curiosità della ragazza.
«È una delle storie che ancora non mi avete raccontato?» domandò lei.
«È una delle storie che non c’è bisogno che tu conosca» replicò Athos. Significava che era troppo pericolosa e che lei non avrebbe potuto fare niente per convincere i moschettieri a raccontargliela.
Diane non insistette oltre. «E di Enrichetta Maria cosa mi dite?»
«Due parole: bella e stupida» fece Aramis.
D’Artagnan finse un’espressione oltraggiata. «Si può parlare in questo modo della regina di Inghilterra?».
«Naturalmente» proseguì il re, attirando di nuovo l’attenzione dei presenti. «Mi aspetto, capitano, che vi occupiate voi di scortare mia sorella a palazzo. Mi auguro che non ci siano incidenti»
«Naturalmente» disse Treville.
«Naturalmente» bofonchiò Porthos.
Aramis sospirò. «Scorta e festa di compleanno, poteva mettersi peggio di così?».
Diane gli batté una mano sul braccio con fare incoraggiante. «Andiamo, signori» disse. «È una bellissima giornata, il re sprizza entusiasmo da tutti i pori, non può che andare tutto benissimo».
Aramis voltò appena il capo per guardarla da sopra la spalla. «L’amore ti fa male, amica mia» osservò.
Athos sollevò la testa ma non disse niente. I moschettieri erano troppo gentiluomini per fare commenti inopportuni, ma la ragazza era certa che, in sua assenza, quei tre non dessero tregua ad Athos nemmeno per sbaglio.
«Male abbastanza da farmi dimenticare perché sono qui». Diane abbassò lo sguardo per controllare che il vestito fosse ancora in ordine. «La regina mi starà aspettando».
«Brava. Chiedile se può intercedere per la storia del ballo» borbottò d’Artagnan.
La ragazza sghignazzò sommessamente. Sfiorò la mano di Athos mentre gli passava vicino e lui le strinse le dita tra le sue prima di lasciarla andare.
Per i corridoi del Louvre, la corte del re si muoveva in piccoli gruppi, come branchi di pecore avvolte in strati di seta e pizzo; fazioni che continuavano a rivaleggiare nella lotta perenne per l’attenzione dei sovrani.
Diane salutò con un cenno cordiale ogni signore e ogni dama che incrociò mentre raggiungeva le stanze della regina, ma le occhiate che loro le rivolgevano erano stilettate piene di veleno. Ognuna di quelle pecore aveva cercato di attirarla al proprio ovile, ora che la ragazza - la nipote del capitano dei moschettieri e del duca ambasciatore del cardinale - aveva ottenuto la simpatia della regina, era per i cortigiani un bottino di guerra che ognuno voleva per sé. Decidendo di non dare corda a nessuna pecora imbellettata e a nessun gregge infagottato di pizzo, Diane aveva finito per inimicarsi più o meno tutto il palazzo e in tempi anche piuttosto brevi.
Era solo per timore della regina che non avevano cominciato a far circolare pettegolezzi fantasiosi, calunnie velate.
Diane si voltò verso il corridoio alle sue spalle e li vide, quei piccoli greggi silenziosi che pascolavano in mezzo al marmo e ai velluti, la fissavano fingendo di guardare altrove. La fissavano e sembravano aspettare di vederla cadere.
Si sentì piccola e sola in mezzo a quella selva di sguardi. Deglutì e si convinse a bussare.
Trovò la regina ancora in veste da camera, stesa su un sofà. La vestaglia si apriva sul davanti rivelando la curva morbida della pancia.
Siete una visione, Anna, pensò Diane sorridendo.
Sua maestà si scostò per farle posto accanto a sé. Le sue dame rabbrividirono quando la ragazza andò a sedersi sul bordo del divano dove la regina era distesa.
«Il dottore mi ha visitata stamattina, il bambino ha scalciato per la prima volta» disse Anna, raggiante. Prese una mano di Diane e se la poggiò sulla pancia. «Dice che sta andando tutto bene e che nascerà a maggio e dalla forma della pancia è sicuro che sia un maschio».
La giovane avvertì la sensazione di calore sotto il palmo della mano e l’eco leggerissima di un movimento.
Il futuro re di Francia, il delfino della casata dei Borboni. Il figlio di Aramis.
«Sarà bello come il sole, maestà» sospirò.
«Devo affidarvi un compito ingrato, Diane» dichiarò la regina dopo qualche momento.
Non c’era nessun compito al servizio di sua maestà che Diane avrebbe potuto trovare ingrato. La lealtà dei moschettieri verso il re rasentava il fanatismo, la sua fedeltà alla regina non nasceva dal dovere ma da un affetto sincero che andava oltre un’uniforme, un giuramento o una corona.
Anna si sollevò per avvicinare il viso a quello della ragazza. «Conoscete monsieur Masson?» chiese.
«Temo di no»
«È il più rinomato profumista di Parigi, produce una colonia che il re apprezza. Ho commissionato al mio gioielliere un’ampolla con intarsi d’oro e pietre: vorrei che andaste a prendere l’ampolla e la portaste da Masson per farla riempire con quella colonia. È il mio regalo di compleanno per sua maestà»
«Consideratelo fatto. Ma, perdonate, perché ne stiamo parlando come se fosse un segreto di stato?»
«Perché al re non piace aspettare per sapere quali sono i suoi regali di compleanno, se non faccio tutto nella massima segretezza non sarà una sorpresa e non intendo dargliela vinta, ecco».
Diane ridacchiò per quella curiosa bega coniugale.
«Ah, poi avrete saputo del ballo in maschera e della visita della sorella del re» aggiunse la regina, gettandosi all’indietro con la testa sulla pila di cuscini.
«Sì, maestà»
«Mia cognata è… adorabile, ma non andiamo molto d’accordo».
Diane si chiese quante volte in vita loro si fossero mai viste le due sovrane e nella sua testa cominciò a prendere forma un’idea non proprio gradevole della sovrana d’Oltremanica.
«Ma non voglio angustiarvi con le nostre vicissitudini famigliari. Piuttosto ditemi, Diane, avete già un accompagnatore per il ballo?».
La ragazza rischiò di cadere dal divano. «Cosa? Il ballo?»
«Il ballo, sì»
«Non sono invitata al ballo». E non voglio esserlo!
«Ma certo che lo siete. Vostro zio ci viene tutti gli anni. Be’, lui ha sempre l’aria di uno che sta andando al patibolo, ma lo comprendo. Voi, invece, non mi direte che non vi piacciono le feste»
«Mi piacciono, maestà. È che non ritengo di essere… uhm, adatta, a un ballo per il compleanno del nostro re»
«Siete molto adatta» puntualizzò la regina, perentoria. «Inoltre, vi proibisco di lasciarmi da sola con le dame di corte e con mia cognata»
«L’idea non mi ha mai sfiorato la mente, maestà» rispose Diane con prontezza. Nella sua testa c’era una bambina indemoniata che urlava.
«Bene, quindi, dobbiamo trovarvi un cavaliere»
«Sono certa che mio zio sarà felice di assolvere a questo compito. Accanto a lui potrei vestirmi da boia».
Anna scoppiò a ridere, attirando su di sé gli sguardi rapaci delle sue dame che se ne stavano a ricamare accanto alla finestra. Tentò di nascondere quello scoppio di ilarità nel palmo della mano, ma quando anche Diane cominciò a ridere sembrò che la cosa fosse impossibile da arginare.
«No, sul serio, dobbiamo trovarvi un cavaliere» insistette la regina quando riacquistarono un po’ di contegno.
«Non mi serve, maestà. E non ho pettegolezzi da offrirvi»
«Ah, capisco. E chi è il fortunato e perché non può venire al ballo con voi?»
«Verrà al ballo, ma sarà impegnato a fare altro. E credo che se gli chiedessi di danzare mi sparerebbe»
«Che intendete? Oh… avrei dovuto immaginarlo: un moschettiere»
«Già…»
«Athos?»
«È così evidente?».
La regina sorrise, poi un’ombra di malinconia le increspò le belle labbra a cuore. «Non sono un’esperta in fatto di uomini, ma c’è un tipo di sguardo che ho imparato a riconoscere. L’ho visto, una volta…» ammise.
D’impulso, Diane le prese la mano e guardò con freddezza le dame appollaiate sotto al davanzale come cornacchie.
La regina spalancò gli occhi e ricambiò la stretta guardando la giovane con un moto di stupore. Lei le sorrise e scosse il capo senza dire niente.
«Voi…» sussurrò Anna con voce strozzata.
Diane si alzò in piedi e fece un profondo inchino per prendere congedo.
«Come per il regalo del re, i vostri segreti sono al sicuro. Fino alla tomba, vostra maestà».
 
*** 
 
Un cielo violetto ingoiava gli ultimi scampoli di sole.
La vita di Parigi scorreva davanti al suo sguardo velato dall’ampio cappuccio della mantella di velluto.
Aveva passato quasi cinque anni in quella città, riconosceva le strade come si riconosce la pelle di un amante, ma non provava nessuna emozione nel rivedere quel posto. Non le apparteneva, o meglio era lei che non apparteneva a quel luogo, come non era mai appartenuta a niente e a nessuno. Il suo nome dimenticato tra la polvere di un passato avviluppato dalle ragnatele e dalle ombre, un oggetto in disuso a marcire in una soffitta, come il suo cuore.
Milady si fermò all’angolo della strada. I tetti del palazzo del Louvre svettavano contro le ultime luci del tramonto.
Nel suo camminare senza meta, non si era accorta di essere giunta fin lì. Una stilettata di gelo le trapassò il petto quando vide di fronte a sé l’arco del portone della guarnigione dei moschettieri.
Doveva aspettare la sera, certi affari si facevano al buio.
Aveva in tasca una manciata di informazioni lasciate da Buckingham, aveva davanti troppo poco tempo.
Mentre aspettava l’ora adatta, quella in cui i mostri escono dalle loro tane, aveva camminato alla cieca, protetta dalla folla asfissiante della capitale francese. Era finita lì senza accorgersene, vicina ai suoi nemici come se ne sentisse il richiamo, come se qualcosa dentro di lei, nel suo sangue, la spingesse continuamente verso l’orlo del precipizio. Aveva dimostrato di avere una volontà ferrea per resistere alla vertigine, si era consumata il cuore a forza di restare in piedi davanti a quel vuoto che la chiamava.
Di istinto si ritrasse confondendosi alle ombre che si addensavano tra le case.
Una risata le montò in gola come l’insistere di mani che graffiano.
Eccoli lì. Non li avrebbe incontrati neppure a cercarli di proposito.
Athos, Porthos, Aramis e d’Artagnan attraversarono il portone e si persero nel viavai serale. Camminavano spalla a spalla, il ritmo dei loro passi che si accordava con una cadenza precisa, come se fossero fatti per andare insieme dovunque. Quella loro amicizia era un muro che nemmeno lei era stata in grado di scalfire, durissimo e puro come il diamante.
Li osservò da lontano, lo sguardo appuntato sulle loro spalle, fino a quando non furono più visibili, macchie tra le facce anonime di una città traboccante di vita.
Solo quando li perse di vista si rese conto che il cuore le batteva da spezzarle il petto.
 
 
***
 
I moschettieri si lasciarono cadere seduti, vinti dalla stanchezza.
Il sole era tramontato, spandendo sulla città una cappa di freddo. Il tempo mutava così facilmente in quel periodo dell’anno e la taverna era un bozzolo accogliente di luce e calore.
Si erano attardati nell’ufficio del capitano per ricevere tutte le istruzioni sull’arrivo della regina d’Inghilterra.
Li aspettavano giorni faticosi, ma Athos pensò che era preferibile un incarico noioso a una missione pericolosa - o almeno era quello che diceva a se stesso fino a quando la noia non lo strozzava e lo obbligava a rimpiangere sparatorie, zuffe e inseguimenti. Ma quella sera era davvero convinto che qualche giorno faticoso e tranquillo a Parigi avrebbe giovato.
Rilassò i muscoli della schiena contro la spalliera della sedia.
D’Artagnan versò da bere per tutti.
«Non mi avete più parlato della sorella del re» disse. «Com’è?»
«Immaginati Luigi con la gonna» gli rispose Athos.
Il giovane arricciò il naso. «Avevate detto che è bella»
«Sì, sì, ma assomiglia in tutto e per tutto al fratello» intervenne Porthos.
«Con l’aggravante che è femmina» concluse Aramis.
Athos mandò giù un lungo sorso di vino. «Dobbiamo solo accompagnarla dal porto al Louvre, ce la caveremo».
Se la sarebbero cavata, non c’era niente che poteva andare storto.
In silenzio terminarono il secondo giro di vino. Il chiacchiericcio degli avventori era un ronzio indistinguibile, il tepore che emanava dal camino intorpidiva la testa, ma era una sensazione piacevole.
«Abbiamo un problema». La voce piovve in mezzo a loro come se qualcuno avesse picchiato un pugno tra i boccali mezzi vuoti.
I moschettieri si riscossero per vedere Diane trascinare con sé una sedia e sistemarla accanto al tavolo. Indossava abiti più comodi e semplici di quelli che aveva portato al mattino. Si sedette e li guardò in viso, constatando che erano abbastanza sobri per starla a sentire. 
«Tuo zio sa che vai in giro per le taverne?» domandò Porthos.
«Mio zio è alla guarnigione e credo ci rimarrà fino a domani» rispose lei. «E comunque, credevo avessimo superato questa fase mesi fa, nel momento in cui avete deciso di insegnarmi a sparare e tutto il resto».
I moschettieri si scambiarono un’occhiata.
«Qual è il problema?» chiese Athos. Non aveva voglia di mettersi a discutere delle uscite serali della ragazza, ma una parte di lui non aveva mai smesso di pensare che quello di farsi carico del suo addestramento era stato il peggior errore della loro vita.
«Eh?»
«Hai detto che abbiamo un problema»
«In verità, io ho un problema»
«Ma noi ti siamo amici e quindi i tuoi problemi sono i nostri problemi» bofonchiò d’Artagnan con un’enfasi da teatrante.
Diane fece cenno all’oste di portarle un bicchiere.
«La regina mi ha invitato al ballo in maschera» sbuffò.
«Delizioso. E con ciò?»
«Non voglio andare a quel dannato ballo con tutta quella gente che mi odia»
«Chi ti odia?» esclamò Aramis, genuinamente scandalizzato.
«La corte al completo. Non mi perdonano lo starmene alla larga dai loro circoli»
«Startene alla larga dai loro circoli è esattamente quello che devi fare» puntualizzò Athos.
Quando Diane ebbe il suo bicchiere si versò una generosa dose di vino.
«E comunque, non devi badare ai cortigiani, sono invidiosi perché vali più di tutti loro messi assieme» disse d’Artagnan.
Gli occhi di Diane scintillarono. «Grazie»
«Prego»
«Prendi nota, Athos» trillò Aramis con un sorriso da spaccare a pugni.
La ragazza sorrise, si inclinò di lato per appoggiare la testa sulla spalla di Athos, lui allungò il braccio per cingerle il busto. Aramis aveva ragione, non era bravo con le parole, sperava solo di riuscire a farsi amare abbastanza perché Diane potesse comprendere i suoi silenzi.
«Non capisco perché ti turbi tanto una festa da ballo, sei la nipote di un duca» osservò Porthos.
«La casa di un duca non è la corte del re di Francia» sospirò lei.
«Se non sai ballare ci sono un sacco di altre cose che si possono fare a un ballo: bere, mangiare, ciarlare di cose inutili, sventolarsi col ventaglio anche se fuori c’è mezzo metro di neve…»
«So ballare, Porthos, ma non so nemmeno da che parte si entra a una festa da ballo a corte… non ho un vestito adatto, non so come ci si comporta». Diane si scompigliò i capelli. «E se farò qualche pessima figura - come sperano i pecoroni incipriati - metterò in imbarazzo mio zio e anche la regina».
«Ha detto pecoroni incipriati?» sghignazzò d’Artagnan. «La nostra compagnia le fa più male di quello che credevo».
La ragazza gli rifilò un’occhiataccia.
«Per il vestito può aiutarti Constance» aggiunse il guascone, correggendo il tiro.
«E comunque, potrai sempre fingerti svenuta a metà serata, così potremmo portarti via» osservò Porthos, fin troppo convinto.
«Oppure potresti andare al ballo e divertirti. Non hai niente da dimostrare, a nessuno, nemmeno a tuo zio o alla regina» disse Athos.
Lei gli prese la mano da sotto al tavolo. Lui avrebbe voluto stringerla e basta.
«Be’, penso di non avere poi molta scelta, in realtà» concluse la ragazza, versandosi altro vino. Si sistemò meglio contro la spalla del moschettiere, i suoi capelli gli solleticarono il collo e lui inspirò il suo odore buono di sapone.
Rimasero a parlare in mezzo al brusio degli avventori. A beneficio di Diane e di d’Artagnan, tirarono fuori vecchi aneddoti sulla sorella minore del re mentre la sera scorreva come un nastro fuori dalle finestre appannate.
In mezzo ai suoi compagni, con il peso piacevole di Diane sulla sua spalla, Athos sentì un senso di calma sconosciuto, una sicurezza che non provava da troppo tempo. Era come una nave approdata nel porto dopo la tempesta, un veliero spezzato dal temporale eppure al sicuro nel luogo a cui apparteneva.
Era già tardi quando la ragazza si alzò. «Meglio che vada» disse, lisciandosi la stoffa della gonna. «Signori, grazie della compagnia».
I moschettieri sollevarono i bicchieri in cenno di saluto. Quando Diane sfilò via tra i tavoli, Athos la seguì.
Fuori il tepore della taverna sfumava verso il freddo della sera e la ragazza si strinse nella mantella.
«Mi dispiace avervi importunato con le mie sciocchezze» disse lei, stringendo le labbra in un’espressione da bambina.
«No, mi fa piacere che tu sia venuta». Athos le prese la mano e le sfiorò le labbra. «Ma non voglio più sentirti dire che non sei all’altezza di qualcosa»
«Credo di non poterti accontentare. È tutto così nuovo per me, devo ancora abituarmici».
Se solo potessi vederti con gli occhi con cui ti vedo io…
«Non serve che mi accompagni a casa» aggiunse poi Diane, lasciandogli la mano.
«Lo preferirei: quando tornerò dentro, quei tre mi massacreranno» le rispose lui.
La ragazza sorrise. Athos continuò a vedere il suo sorriso brillare anche quando sparì tra la gente.


 
  
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