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Autore: Cassandra Bane    09/08/2015    0 recensioni
La città dei mille templi è una storia incentrata sulla solitudine giovanile, la protagonista, Kyoko, è infatti rimasta sola all'età di undici anni dopo la morte di entrambi i genitori. In lei si è formato un vuoto talmente grande da portarla a trasferirsi in un'altra città, Kyoto. "Kyoto è per me una compagna di vita, una fonte di ispirazione, quel qualcosa di nuovo, di inaspettato e di insolito che ho sempre desiderato" è così che la protagonista descrive la sua amata città. Kyoko, dopo aver vissuto quattro anni a Kyoto, è però costretta a ritornare a Tokyo per trovare un lavoro. La protagonista torna a vivere in quella casa che aveva abbandonato all'eta di quindici anni, in quella casa che ora le sembrava infinita. Sullo sfondo dell'immensità del paesaggio giapponese, si svolge la storia di una ragazza che vive la solitudine in maniera insolita e che riesce a colmare il vuoto dentro di sé grazie alla sua ossessione per la città dei mille templi.
Genere: Drammatico, Generale, Introspettivo | Stato: in corso
Tipo di coppia: Het
Note: nessuna | Avvertimenti: nessuno
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“La solitudine è indipendenza: l'avevo desiderata e me l'ero conquistata in tanti anni. Era fredda, questo sì, ma era anche silenziosa, meravigliosamente silenziosa e grande come lo spazio freddo e silente nel quale girano gli astri.
- Hermann  Hesse 

Vi sono numerosi modi per descrivere la solitudine. Alcuni la identificano come il prodotto della timidezza o dell’apatia, altri come una scelta consapevole. Altri solitari sono invece costretti ad isolarsi perché ostracizzati dagli altri essere umani oppure per vicende personali di vita. Ci sono quindi anche tanti tipi di solitari e di solitudine. Quest’ultima appare come un concetto semplice, è abitualmente associata alla tristezza e alla paura. Ma la solitudine il più delle volte viene assimilata ad un fantasma dal quale cerchiamo di liberarci o semplicemente dal quale cerchiamo di sfuggire. Ma, la solitudine è una malattia? Ma, c’è un modo per districarsi da essa?
Queste sono due delle domande che mi pongo più frequentemente, forse ogni giorno? Forse ogni ora? Forse ogni minuto? Ma la parte più difficile viene nel darsi delle risposte, delle valide e concrete risposte. E allora mi chiedo, dovrei parlarne con qualcuno? Con uno psicologo? Con un amico? E poi ricordo. Non c’è nessuno.
Sono passati diciannove anni, diciannove lunghi anni. Ma, cosa ho fatto in questi diciannove anni? Ho conosciuto qualcuno? Sono mai stata innamorata o affascinata da qualcuno? Forse non me lo ricordo. Forse in questi interminabili anni non ho fatto altro che dormire, altro che pensare, altro che osservare. Ho forse pensato per tutto il tempo alla mia famiglia? Ho forse vagato, per incessabili ore, in questa buia e immensa città? La risposta è sola una reazione ad un’interrogazione, ma allora chi sto interrogando? Non c’è nessuno. Passeranno altri dieci, venti, cinquanta anni e chi lo sa forse ci sarà qualcuno, forse riuscirò a dare una risposta a questi inesauribili interrogativi. Forse.
La mia mente vagava per la stanza buia e fredda, osservavo la vernice bianca delle pareti ormai consumata dagli anni, il vento che soffiava al di fuori della piccola finestra e gli alberi, quegli alberi spogli che euforici aspettavano la stagione primaverile. Dovrei forse riconoscermi in un albero? In un albero che aspetta costantemente l’arrivo di qualcosa, di qualcosa di nuovo, di inaspettato, di insolito. Ma forse stavo solo aspettando la primavera, stavo solo aspettando che un’immensa quantità di fiori inondasse quel giardino ormai dimenticato, ormai logorato, tetro, opprimente. Quel giardino che, nella sua immensità, contrastava il piccolo spazio occupato dalla casa, era come isolato dal mondo, dalla vita frenetica ed eccentrica di Tokyo. E’ forse per questo che ho passato quindici anni della mia vita in questo giardino? Sebbene siano così tanti, l’unica cosa che ricordo è quell’altalena gialla accostata all’albero di ciliegio ed una bambina che, nella sua ingenuità e nella sua semplicità, è riuscita a costruire intorno a sé una storia, una storia senza un inizio e senza una fine, una storia priva di protagonisti, una storia dove nessuno vince e nessuno perde, una storia dove c’è solo un’anima, solo un cuore, solo una mente.
Sono passati sedici anni dalla morte di mia madre, avevo tre anni quando successe. Non è una cosa di cui si parla con tanta disinvoltura, con tanta noncuranza, ma sta succedendo. Succede che sono rimasta intrappolata in questa storia, sono rimasta coinvolta troppo a lungo in questi fili che cercano di muovere la mia vita a loro piacimento. Ed ora, a distanza di sedici anni, il passato non sembra lontano sembra solo invisibile, trasparente, inesistente. Mio padre è morto appena iniziai la scuola media ed inevitabilmente sono rimasta sola. Un unico corpo in questa casa che, se prima sembrava piccola, angusta, ora appare ai miei occhi immensa, spaziosa. I miei genitori non mi hanno lasciato neanche un singolo pezzo di carta, neanche un testamento. Il niente più completo. Non so dove abitino i miei nonni, non so neanche se siano ancora vivi o se siano mai esistiti. Ho sempre vissuto con loro due, tanto da pensare che non esistessero altre persone al di fuori di loro. Ma loro non esistono più. Quando ormai non avevo più nessuno se non questa casa e quel grande giardino, l’unica persona che ha riempito il mio vuoto è stata lei. La mia dolce e amata città. Non sono nemmeno in grado di definirla città, se non casa, se non rifugio, se non famiglia. Sono nata e cresciuta a Tokyo, ma posso dire di essere anche vissuta in quella città? Non so quali siano i motivi per cui, quattro anni fa, mi trasferii a Kyoto, decisi di prendere una piccola casa, talmente piccola che non mi sarei mai più sentita sola. Ne trovai una che distava pochi chilometri da un lungo fiume ed ogni sera ero lì, osservavo i petali dei fiori di ciliegio che danzavano nell’aria e dolcemente si posavano sull’acqua. E in quel momento pensai che forse qualcuno c’era. C’era lei. C’era Kyoto. C’erano gli alberi di ciliegio che incorniciavano l’immensità del paesaggio primaverile. C’erano suoni e odori, soavi e dolci, che colmavano il cuore e la mente di prima mattina. C’era la natura che, con i suoi colori, con i suoi profumi, con i suoi ambienti, riusciva a donarmi tranquillità e gioia. Kyoto è per me una compagna di vita, una fonte di ispirazione, quel qualcosa di nuovo, di inaspettato e di insolito che ho sempre desiderato. Forse continua ad esserci un solo corpo, una sola anima, un solo cuore, una sola mente, ma ho trovato qualcuno che è riuscito a riempirli.
Distolsi nuovamente lo sguardo dalla piccola finestra, l’unica finestra in quella casa che ormai sembrava infinita. Ma era piccola, così piccola che i raggi del sole faticavano ad entrare e la casa diventava sempre più buia, sempre più soffocante, sempre più spossante, lugubre, plumbea, quasi disumana. Improvvisamente mi accorsi che l’unico rumore presente nella casa era quello del mio cuore. Batteva forte, fortissimo e pensai che sarebbe fuoriuscito da un momento all’altro. Ma era un fragore silenzioso, tacito. I pensieri vennero bruscamente liquefatti dal suono del telefono e quasi sussultai. Ricordavo di avere ancora un telefono solo quando chiamavano per annunci pubblicitari o promozioni.
– Pronto? – la mia voce sembrò improvvisamente stanca.
– Kyoko Watanabe? –
– Si, sono io. –
– Sono il Signor Yamashita. Ho letto la sua richiesta per il colloquio di lavoro e la sua presentazione; sono disponibile a fissarle un appuntamento per domani. Al momento abbiamo un solo posto libero quindi la invito a non sprecare questa opportunità che le è stata data. –
Quelle parole mi trapanarono la testa e quasi piansi dalla gioia.
– La ringrazio Signor Yamashita, farò del mio meglio. A che ora posso incontrarla? –
– La aspetterò nel mio studio alle dieci di mattina. Mi raccomando sia puntuale, non vorrei farla aspettare molto. – la voce del Signor Yamashita assunse un tono più dolce.
– Sarò puntuale, promesso. La ringrazio infinitamente Signor Yamashita. Arrivederla. –
Riattaccai. Il viso mi divenne inaspettatamente ardente, la mente mi si offuscò e quasi caddi. Ero felice. Ero felice per uno stupido colloquio di lavoro. Ho trascorso un mese girovagando per Kyoto in cerca di un lavoro, ma la sfortuna mi ha completamente riso in faccia. Ho preso il primo aereo per Tokyo e ora mi ritrovo di nuovo in questa casa, di nuovo a guardare quel giardino, di nuovo nel buio. Ma sono felice perché finalmente quel telefono ha squillato, sono felice perché il Signor Yamashita mi è sembrata una brava persona, sono felice perché quel ristorante cucinava ramen fino alle undici di sera, sono felice perché potrò guadagnare un po’ di soldi e ritornare di nuovo nella mia amata Kyoto. Sono felice perché finalmente sono felice. Una volta uno scrittore danese scrisse “Che cos'è l'attesa? Una freccia che vola e che resta conficcata nel bersaglio. Che cos'è la sua realizzazione? Una freccia che oltrepassa il bersaglio.”  Ed in questo momento quella freccia sono io. L’attesa ti divora l’anima, ma bisogna aspettare, aspettare, aspettare. Alla fine oltrepasserai il bersaglio.
Ero di nuovo immersa nella moltitudine dei miei pensieri, mi alzai dal ripiano della finestra e andai in cucina. L’odore del caffè era inconfondibile, ne versai un po’ nella tazza di ceramica azzurra che mio padre mi regalò al mio decimo compleanno ed aggiunsi del latte freddo. Presi una grande coperta a quadri e decisi che quella notte avrei dormito in giardino, accanto all’albero di ciliegio, sotto il cielo stellato. Nel cielo, la luna emanava una forte luce e le stelle man mano accrescevano creando un paesaggio notturno unico ed incantevole. Sotto quel magico cielo, gli occhi mi si offuscarono e senza accorgermene li chiusi cadendo in un sonno profondo.
 
 
   
 
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