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Autore: Gaia Bessie    10/08/2015    4 recensioni
Al San Mungo, Alice Paciock è confinata nel riflesso del suo specchio, nei suoi ricordi, nell’alone di malattia che le oscura la mente.
Alice, Alice, dove sei finita?
Genere: Angst, Introspettivo | Stato: completa
Tipo di coppia: Nessuna | Personaggi: Alice Paciock, Frank Paciock, Rodolphus Lestrange
Note: Missing Moments, What if? | Avvertimenti: nessuno | Contesto: Contesto generale/vago
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Specchio riflesso


Non è amare, è uno specchio riflesso
Non è amore, non è fine a sé stesso
– Specchio riflesso, Elisa

 
 
I.
 
Il corridoio del San Mungo respira in silenzio: è vuoto, il suo spazio, e vuoto è il suono delle parole mutilate nella bocca di Alice, senza senso, senza criterio logico. Negli specchi coperti da un velo di un lilla chiarissimo – Alice ha paura dei fantasmi, di quello di una donna fatta di polvere e sangue, fatta di zigomi affilati dietro la pelle, fatta di lacrime – quest’insensatezza si colora di nuovi spazi, di nuove forme. Trema, l’aria, dietro le parole mutilate dalla barriera dei denti, delle labbra serrate.
Le hanno versato una pozione allo zucchero bruciato, in gola, e quel retrogusto dolciastro è la canzone che le borbotta in gola, la ninna-nanna che un bambino si canta da solo, dopo la morte di entrambi i genitori: Harry Potter ha recitato la stessa ballata per diciassette anni, l’epos dell’eroe graffiato di sogni e di vita, di quella volontà divina che è cieca e sorda e anche muta. Neville è rimasto ad asciugarsi sulle lenzuola spiegazzate del letto di sua madre.
Alice sorride, da sola, e non capisce il perché. E allora ride, con la gola che gronda sangue e parole, perché non ha senso, non può averne: Neville scappa, corre via, e lei è lì.
Nello specchio, il fantasma tinto di fiori di lillà sorride, e nel suo sorriso si parla di epiloghi.
È che è entrato un uomo, un giorno che potrebbe essere ieri o un secolo fa, e ha incantato gli specchi: appena se ne vanno tutti, compare la sua immagine, e così Alice non può dire di essere sola. Piò guardarlo e sorridere senza una motivazione, solamente perché le va di farlo.
Suo marito sorride, nello specchio, finché lei non apre gli occhi e vede che non è Frank, ma il suo incubo: ci sono i suoi fiori, sul comodino, incuneati in un vaso stracolmo. Rose nere che, agli occhi degli altri, sembrano bianche. O macchiate di sangue, sangue sporco, sangue, sangue, sangue.
Rodolphus Lestrange ride, dietro il velo, e le porge una mano.
Odora di sangue e fiori secchi.
 
 
 
 
 
II.
 
La ballata dei cento principi che danzano in cerchio, nello specchio di Alice. Nel velo lilla, squarci di pugnale, di pensiero, che i cavalieri incidono come poesie da declamare, come odi alla bellezza, e alla fedeltà. Un tempo, l’ennesima porzione di anni o giorni che potrebbero risalire al giorno prima di adesso o a un secolo prima, Alice era forte, forte abbastanza per tirarsi su a sedere da sola, e guardare lo specchio senza il suo velo. Forte abbastanza per far suo il sorriso di Rodolphus Lestrange, dietro ogni tortura: l’ha impastata in polvere e sangue, quella nuova Alice.
In lacrime di sabbia vetrificata sul pavimento del maniero di famiglia, l’ha cambiata per sempre, immergendola in nuove dimensioni di dolore scarnificato, ridotto all’osso e applicato.
Canta maledizioni mortali, Rodolphus Lestrange, e le dipinge il viso di belletto rossosangue, la sua bambolina che si è rotta per sempre, la sua bambina dalle labbra spaccate dai morsi.
Rodolphus Lestrange le ha inciso ferite indelebili, nel petto, dilaniandola di morsi e graffi e ferite aperte dalle sue lunghe dita che affondavano fra le ossa biancastre, sfiorandole, dietro la maschera delle costole sudice di sangue, per mangiare le catene del suo cuore.
Alice non è mai riuscita a sopportarlo – avrebbe potuto? – e le ballate negli specchi risuonano nel suo silenzio, meno insopportabili delle maledizioni, delle risate, del ticchettio del tempo che corre via e non torna più.
Un giorno, un signore con un cappello buffo è entrato nella stanza di Alice e ha incantato lo specchio, o l’ha sostituito, o non ha fatto niente ed è vero quel che si dice: è pazza, pazza, pazza.
Lo era di più, lo è stata abbastanza nel momento in cui si è tirata a sedere. Abbastanza pazza per prendere il vaso con i fiori neri-bianchi-rossi e lanciarlo contro il velo lilla.
Si è aperta le vene, Alice, con i frammenti di quello specchio.
 
 
 
 
 
III.
 
Una cicatrice frastagliata che risplende dell’intensità di una ferita ancora fresca: si apre a ogni rumore, a ogni passo dei signori in camice bianco, ogni volta che Neville – o è Frank o è Lestrange – le prende la mano e quel vermicello di carne cicatrizzata pulsa, di vita propria. E Alice ride.
Alice ride e ascolta le parole, che le sfuggono celando il proprio senso, che scivolano via come rivoletti di sangue o petali di fiori neri e bianchi e sporchi di sangue.
Alice, Alice, dove sei finita?
Sono danze frenetiche, nello specchio rotto. Urla di bambini, di donne, di uomini.
«Zitti, zitti tutti!» Alice piange lacrime rossastre, o petali neri, e tutti la guardano senza parole «Mandatelo via. Mandatelo via!».
Lo specchio rosso piange sangue, i fiori sono riversi a terra, come un feticcio senza senso, senza significato. La prendono per mano, le infermiere, cercando di calmarla.
È che Alice continua a guardare i cocci di vetro come se fossero parti della sua anima e non si riesce a tenerla ferma, a letto, senza usare le maniere forti.
Rodolphus Lestrange ride in ogni frammento e agita la bacchetta.
Crucio.
Il Medimago le versa pozioni in gola, zucchero bruciato, la fa addormentare. Augusta Paciock scosta i capelli argentei dal viso accaldato, sospirando.
Alice grida, di ferite che premono e dolgono, del sangue che scorre. Rodolphus Lestrange, ubriaco di sogni di gloria e alcolici di qualità fin troppo eccelsa, adolescente degli anni passati a perseguire ideali, sopra di lei, dentro di lei. A mostrarle che esistono tanti tipi di dolori, indelebili, per sempre.
«Pensavo che uno specchio incantato l’avrebbe rinfrancata: fa vedere una foto di lei e Frank da giovani».
Alice grida ma, nell’oblio zuccheroso delle medicine, non la sente nessuno.
   
 
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