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Autore: olor a libros    13/08/2015    1 recensioni
"Hai mai desiderato baciare una ragazza?"
Per un po' non dissi niente. Ci stavo pensando. Non la sapevo nemmeno io, la risposta.
Lei continuò: "Rispondi sinceramente, ti prego."
Mentre lo diceva io le guardavo le labbra. E ad un tratto sapevo la risposta.
"Sì. Ora."
Sorrise, e mi baciò.
E io la baciai.
E provai la sensazione più bella di sempre, che andava al di là di tutto quanto avessi mai provato fino a quel momento. Fui pervasa da una felicità immediata ed inspiegabile, un calore che riempiva ogni singola parte di me, ed era tutto molto strano ma al tempo stesso dannatamente giusto.
Sentivo le sue labbra morbide, ed erano così diverse da quelle a cui ero abituata, erano... giuste.
Era giusto prendere quel viso fra le mie mani, era giusto lasciare che le sue mi scendessero lungo la schiena, era giusto stringermi a quel corpo senza più nessuna paura, nessuna remora, e tenere gli occhi chiusi mentre davo il mio primo vero bacio.
Aveva tutto un sapore nuovo, ma al tempo stesso già vissuto, come se il mio corpo avesse immediatamente riconosciuto quel che da tanto tempo aspettava.
Genere: Generale, Introspettivo, Romantico | Stato: completa
Tipo di coppia: Het, FemSlash
Note: nessuna | Avvertimenti: nessuno
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Il secondo giorno vidi di nuovo quella ragazza a scuola.
E lo stesso nei giorni seguenti, per tutta la settimana, ogni giorno era lì nello stesso posto in corridoio.
     E non me lo spiegavo, ma continuavo a pensare a lei. Chissà come mi tornava sempre in mente l'immagine di lei là, in piedi, immersa nel suo alone di solitudine e fascino.
Mi chiedevo quale fosse la sua storia, mi chiedevo se stesse bene, se potessi fare qualcosa per aiutarla.
  Anche quel giorno, nell'intervallo, era lì da sola. La guardavo da lontano e avrei voluto andare a parlarle, ma come ogni giorno temporeggiavo finché non finiva l'intervallo.
Non ero mai stata esageratamente timida, ma neanche ero la tipa che di punto in bianco riusciva ad attaccare bottone con uno sconosciuto.
E in questo caso lo sconosciuto era una ragazza che non sarebbe stato difficile immaginare in mezzo ad un folto gruppo di ammiratori, circondata da amichette-cagnolini e ragazzi con gli occhi a cuore e la bava alla bocca.
Mi chiedevo dove fosse finito il suo seguito. Probabilmente era rimasto in città, nella scuola che lei aveva lasciato. Lì sicuramente era popolare.
Forse il fatto era proprio che era nuova, appena arrivata, e i cagnolini ancora dovevano annusarla bene prima di avvicinarsi a farle le feste.
   Mi resi conto che poteva anche darsi che fosse proprio quella sua bellezza, quella sua aria di irrealtà, a far sì che gli altri si sentissero in soggezione e rinunciassero ad avvicinarsi.
   Poi, però, mi venne in mente un'altra possibile spiegazione: quello che aveva detto Cristina il primo giorno: "Dicono che sia lesbica."
Possibile che questa voce si fosse già sparsa per la scuola? E possibile che questo bastasse a mettere in ombra la sua bellezza e il suo aspetto da ragazza popolare?
Evidentemente sì. Ora che ci pensavo, questa voce su di lei - che fosse vera o meno  - le aveva già creato come una bolla intorno, che nessuno avrebbe mai attraversato  rischiando di diventare a sua volta parte del pettegolezzo.
Certe linee semplicemente non si attraversano. Non lo fa mai nessuno, e risulta poi chiara la lezione: è meglio che ognuno stia al proprio posto.
  Eppure a me questo pensiero dava sui nervi. Mi fece crescere dentro una vera rabbia e un odio per ogni singola persona in quella scuola. E la rabbia mi fece acquisire il coraggio che mi mancava.
Così, ops, attraversai la linea.
Attraversai il corridoio.
E mi fermai davanti a lei.
Lei si girò e mi guardò con due grandi e stupiti occhi azzurri.
Poi disse piano: "Ciao..."
"Ciao, mi chiamo Maya."
Subito si illuminò e rispose: "Oh, come quella di Pretty Little Liars?"
"Ehm... Già, sì, come quella di Pretty Little Liars."
"Quella che muore."
Lo disse con un sorriso.
"... Quella che muore. Bene."
"E' un bellissimo nome, comunque."
Sorrise di nuovo. Mi piaceva proprio, il suo sorriso.
"Un nome sfigato, pare."
"Oh no, non direi! Sai, Maya stava con Emily. Cioè, prima di morire. E... Se non è una fortuna quella!"
Non appena lo disse sembrò pentirsene. Guardò in basso, imbarazzata.
"Be' sì, Emily è... è davvero una bella ragazza."
Ero a disagio più di lei, e non sapevo neanche bene il perché. Cercai qualcos'altro da dire, ma la mia testa si era completamente svuotata. E la situazione si stava facendo davvero, davvero imbarazzante. Eravamo lì in mezzo al corridoio, una di fronte all'altra, mute.
Poi lei sembrò riprendersi, allungò la mano e mi disse: "Comunque, io sono Anna."
Le strinsi la mano e le sorrisi. "Oh, Anna, come quella di..."
Non mi veniva in mente nessuna Anna famosa, dannazione. "Uhm, Anna dai capelli rossi?"
Scoppiò a ridere. Aveva bella anche la risata.
Poi disse: "Io però sono bionda."
"Già. Allora, be'... Hanna di Pretty Little Liars senza l'acca. Lei è pure bionda."
"Perfetto, allora. Hanna senza l'acca. Andata."
Sorrise ancora una volta. Non so come facessero a dire che era scostante e antipatica. Io non riuscivo a non adorare il suo sorriso. Né a smettere di guardarlo.
Ineffetti, mi accorsi che la stavo fissando senza dire niente.
Per fortuna suonò la campanella.
"Va bene, torno in classe. Mi tocca. Ciao, Hannasenzacca."
"Ciao, Maya. Mi ha fatto piacere parlare con te."
    
Le seguenti due ore di lezione passarono più lente di una tartaruga zoppa, e in più non riuscivo assolutamente a concentrarmi.
Tre pensieri, principalmente, mi occupavano la testa: i novanta minuti di partita di calcio che mi sarei dovuta sorbire quel pomeriggio, dal momento che Andrea giocava e mi aveva esplicitamente chiesto di andarlo a vedere; lo strano - e adorabile - modo che aveva di sorridere quella ragazza misteriosa, Anna, che allargava la bocca mostrando i denti di sopra e strizzando gli occhi; e, infine, il minestrone che mi aspettava a casa quella sera.
   Tuttavia, quando avevo ormai perso le speranze, la campanella - Santa Campanella - mi fece la grazia di suonare.
Salutai Alessia - che era però impegnata in una conversazione con altre compagne su qualcosa come un nuovo tipo di smalto e mi fece appena un cenno - e uscii ad aspettare Andrea.
La sua classe era all'ultimo piano, infatti continuavo a veder fluire un fiume di persone cartella-dotate davanti ai miei occhi, ma di lui neanche l'ombra.
Passavano i minuti ed io ero ancora lì come un palo in mezzo alla corrente - e ineffetti rischiavo seriamente di essere travolta. Pregai che quel genio del mio ragazzo arrivasse prima che la gente mi buttasse a terra e iniziasse a camminare sul mio cadavere.
  Ad un certo punto in mezzo a tutta quella folla scorsi un viso familiare: era Anna, alias Hanna-senza-acca, alias modella misteriosa.
Anche lei mi vide e mi sorrise. Io sorrisi e la salutai con la mano.
Poi la persi di vista, perché nel frattempo Andrea mi era arrivato alle spalle e mi aveva afferrata  - una sua brutta abitudine che iniziavo a detestare.
Mi prese la mano e mi trascinò via.
"Su andiamo, che mi fai fare tardi!"
Mi liberai la mano, mi fermai e lo guardai con aria stupefatta.
"Stai scherzando? E' mezz'ora che ti aspetto!"
Lui rise. Poi mi riprese la mano e disse: "Va bene, scusa. Hai ragione. Però muoviti."
"D'accordo, prima si inizia prima si finisce."
"Stai dicendo che non ti piace guardarmi giocare?"
"Sto dicendo che guardare per più di un'ora un gruppo di ragazzi che perde i polmoni dietro un pallone non è esattamente al primo posto nella lista delle cose che vorrei fare. Sai, dopo un po' ci si potrebbe anche annoiare."
"Allora cosa preferiresti fare? Vorresti giocare tu?"
"Ecco, quello già sarebbe un miglioramento. Sai, è finita l'epoca in cui voi uomini vi divertite e noi donne stiamo a guardare."
Scoppiò a ridere. Aveva la risata da bambino, Andrea. Era un ragazzone con le spalle larghe e il quarantacinque di scarpe, ma quando rideva tornava ad essere un tenero bambino biondo.
     Arrivammo insieme al campo sportivo e lo guardai giocare, e mentre lo osservavo da lontano, io sugli spalti e lui laggiù in lontananza, ridotto ad un puntino, mi sembrava piccolo per davvero.
E mentre lo guardavo da lontano, io sugli spalti e lui laggiù, piccolo, pensai che in fondo gli volevo bene per davvero.
    Poi alla fine mi fece giocare sul serio, quando la partita era finita - aveva vinto, e io avevo anche urlato - e tutti gli altri se ne erano andati.
Avevamo il campo tutto per noi.
Lui stava in porta, io calciavo il pallone da una distanza di cinque metri e lui faceva finta di non riuscire a pararla.
Quando fu chiaro che lo stava facendo apposta mi seccai e gli tirai una pallonata dritta in faccia. Devo ammettere che rimasi anche soddisfatta della mia mira.
Poi però notai la sua espressione e mi misi a correre.
    Dopo qualche minuto di corsa disperata lungo il campo ero sfinita, e lui pure. Stabilimmo un armistizio. Lasciai che mi raggiungesse, sempre però pronta a scappare di nuovo.
Ma lui mi abbracciò soltanto.
    Gli volevo bene davvero. E maledicevo me stessa perché, cavolo, avrei voluto riuscire a volergi qualcosa di più che bene.
Avrei voluto amarlo, e non capivo proprio cosa me lo impedisse.
      
    Arrivata a casa salutai mia mamma e andai in camera mia a fare i compiti. Siccome erano solo esercizi non impegnativi finii abbastanza in fretta, così scesi a vedere cosa facevano gli altri componenti della famiglia.
Mio fratello nel frattempo era rientrato; lo trovai in salotto sdraiato sul divano a giocare ad uno di quei video-giochi in cui lo scopo principale sembra essere essenzialmente sparare a qualunque cosa dotata di movimento si trovi nella tua visuale.
Pur di stare un po' in compagnia mi sedetti sulla poltrona di fianco al televisore, mentre le urla e gli spari provenienti da quest'ultimo rischiavano di trapassarmi i timpani e farmi esplodere il cervello.
Guardavo mio fratello, che a sua volta guardava lo schermo, totalmente immobile e imperturbabile in quel pandemonio - eccezion fatta per le dita, che si muovevano come impazzite sul joystick.
Non si era neanche accorto di me. Figuriamoci.
  Dopo un po' lo spettacolo di mio fratello versione killer iniziò ad apparirmi seriamente inquietante. Smisi di guardarlo e lasciai che la mia testa si perdesse nei suoi pensieri, come un gatto che giocasse con il suo bel gomitolo tutto intricato.
   Fu la voce di mia madre a farmi tornare alla realtà: "Maya", mi disse, "visto che non stai facendo niente... mi aiuteresti con la cena?"
"Cosa ti fa pensare che io non stia facendo niente?"
Lei era già in piedi in mezzo al salotto. Mi rivolse uno sguardo eloquente, come a dire: Secondo te?
"Andiamo", ripresi, "è solo un'impressione! Vedi, ora a te da lì, dal di fuori, potrebbe sembrare che io non stia facendo niente. Ma in realtà, mamma, ti stupiresti della miriade di azioni che sto compiendo. Già solo per fare un esempio, sto respirando. E non così una volta ogni tanto, respiro in continuazione, vedi? E' un'attività che mi tiene molto impegnata. Oh, e poi il mio cuore, devo farlo lavorare senza sosta se non voglio morire. E sai quante cellule del mio corpo si stanno dividendo in questo preciso istante...?"
"Maya, finiscila.", mi interruppe.
"Milioni, mamma. Milioni."
"..."
"Okay, arrivo ad aiutarti."

Quando io e mia mamma avevamo ormai finito di preparare la cena - non prima, ovviamente, - ci raggiunse in cucina anche Simone. Il quale iniziò a divorare il suo piatto di pasta come se non mangiasse da mesi o tornasse, chessò, da una scalata dell'Everest. Immaginai che le due dita che muoveva mentre stava spaparanzato sul divano gli avessero davvero fatto consumare molte calorie, per cui giustamente ora aveva bisogno di un bel rifornimento.
Quel che mi faceva impazzire era il fatto che lui, pur mangiando come un tricheco, non ingrassasse mai nemmeno di un grammo.
E ineffetti dove i maschi mettano il cibo che mangiano sarà sempre un mistero per me  -  che abbiano uno stomaco con il doppio fondo?
   Eppure noi, noi ragazze? Noi dobbiamo stare sempre lì a preoccuparci del peso, a mangiare bene, a stare a dieta - non che io avessi mai fatto una dieta in vita mia, ma sapevo che la maggior parte delle ragazze si preoccupava di queste cose.
  In ogni caso, risolsi la faccenda con un mentale "Il mondo è ingiusto."
A cena finita mi tornò in mente il minestrone: mia mamma se l'era dimenticato. Ma non avevo nessuna intenzione di ricordarglielo. Le dissi che avremmo sparecchiato io e Simone, la scacciai dalla cucina, andai ad aprire il microonde, ed eccolo lì: il minestrone. In tutta la sua repellenza.
Lo tirai fuori e lo nascosi nel fondo del frigorifero. Forse sarebbe rimasto lì almeno per un paio d'anni. Soddisfatta, mi misi a fare la lavatrice cantando a squarciagola - perché sì, era una cosa che facevo.
Nel mentre mio fratello metteva a posto le cose, o almeno ci provava, anche se non sapeva quale fosse il loro posto.
"Ah, ti ho beccato!" gridai ad un certo punto.
Simone fece un salto e lasciò cadere quel che aveva in mano.
"Cosa c'è? Sei pazza? Mi hai fatto prendere un infarto!"
"Sei tu! Lo sapevo!"
"Sono io cosa?"
Scoppiai a ridere. Non riuscivo a parlare, stavo letteralmente morendo dalle risate.
Solo dopo un po' riuscii a dire: "Sei tu che metti il cavatappi nel frigo!"
E caddi per terra piegata in due, con le lacrime agli occhi e il male alla pancia a forza di ridere.
Quando guardai in su verso mio fratello vidi che era lì fermo e mi guardava perplesso, forse anche un po' risentito.
"Perché dove va, scusa? Non è lì che sta?"
Non ce la facevo più. Non gli risposi, non ne ero in grado. Ridevo ancora più forte, se possibile.
Lui si stufò, afferrò il rotolo di scottex lì vicino e me lo lanciò addosso. Poi uscì dalla cucina.
  Così rimasi da sola a finire di mettere a posto tutto. Ma, del resto, me l'ero cercata.

La mattina seguente la sveglia decise di non suonare. O forse ero io che l'avevo bellamente ignorata e avevo continuato a dormire.
Ad ogni modo, il risultato fu che mi svegliai alle sei e mezza e fui costretta a battere il mio record di preparazione super-rapida, impiegando in tutto cinque o dieci minuti.
Quando fui nell'ingresso, con il fiato corto e gli occhi ancora mezzi chiusi, mi fermai  un attimo per controllare di avere tutto a posto e non aver messo, nella fretta, una calza diversa dall'altra o la maglietta al rovescio o entrambe le cose.
E proprio allora mi ricordai del sogno che avevo fatto quella notte.
   Era tutto un po' confuso, ma mentre uscivo di casa ed iniziavo a camminare cercai di ripercorrerlo mentalmente dall'inizio, o almeno dalle prime cose che mi ricordavo.
C'era Andrea, all'inizio. Io ero con Andrea. E lui mi abbracciava, e mi baciava, e mi stringeva. E io correvo via. E correvo, e correvo...
Poi c'era come un buco, un tipico strappo nella tela dei sogni, e all'improvviso lo scenario cambiava, tornava ad essere come quello iniziale.
Solo che non ero più fra le braccia di Andrea.
Ero fra le braccia di...
Quella ragazza.
   Di colpo smisi di camminare. Mi fermai in mezzo al marciapiede.
Un signore che arrivava da dietro mi urtò una spalla e seguì oltre.
Io rimasi ferma ancora per qualche istante, mentre cercavo di dare un senso all'immagine che mi era appena tornata alla mente.
Cosa significa?, urlavo dentro di me. Cosa significa?!
    Significa che arriverò in ritardo, risposi a me stessa.
E iniziai a correre, e corsi più veloce di quanto avrei fatto normalmente in un'altra mattina di ritardo a scuola.
Perché in realtà non stavo correndo, stavo scappando.
Scappavo da un pensiero, scappavo da me stessa.
   
 
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