Storie originali > Generale
Ricorda la storia  |       
Autore: olor a libros    15/07/2015    2 recensioni
"Hai mai desiderato baciare una ragazza?"
Per un po' non dissi niente. Ci stavo pensando. Non la sapevo nemmeno io, la risposta.
Lei continuò: "Rispondi sinceramente, ti prego."
Mentre lo diceva io le guardavo le labbra. E ad un tratto sapevo la risposta.
"Sì. Ora."
Sorrise, e mi baciò.
E io la baciai.
E provai la sensazione più bella di sempre, che andava al di là di tutto quanto avessi mai provato fino a quel momento. Fui pervasa da una felicità immediata ed inspiegabile, un calore che riempiva ogni singola parte di me, ed era tutto molto strano ma al tempo stesso dannatamente giusto.
Sentivo le sue labbra morbide, ed erano così diverse da quelle a cui ero abituata, erano... giuste.
Era giusto prendere quel viso fra le mie mani, era giusto lasciare che le sue mi scendessero lungo la schiena, era giusto stringermi a quel corpo senza più nessuna paura, nessuna remora, e tenere gli occhi chiusi mentre davo il mio primo vero bacio.
Aveva tutto un sapore nuovo, ma al tempo stesso già vissuto, come se il mio corpo avesse immediatamente riconosciuto quel che da tanto tempo aspettava.
Genere: Generale, Introspettivo, Romantico | Stato: completa
Tipo di coppia: Het, FemSlash
Note: nessuna | Avvertimenti: nessuno
Capitoli:
   >>
Per recensire esegui il login o registrati.
Dimensione del testo A A A
Quando sei un adolescente non lo sai neanche tu cos'è che vuoi veramente.
Sai che c'è qualcosa che ti manca, ci deve per forza essere, perché non può essere tutto lì.
E allora ce l'hai con il mondo, perché non ti dà quello di cui hai bisogno; ce l'hai con l'universo intero, perché non ti capisce. Ma soprattutto, ce l'hai con te stesso.
E vivi con una perenne rabbia dentro, una rabbia che brucia ancora di più non trovando nessun bersaglio concreto contro cui scagliarsi.

    Quella mattina, invece, il mio odio era concentrato tutto contro un singolo ente, fin troppo concreto ed incombente: la scuola.
Già, era il primo giorno di scuola. Di quei piacevoli giorni che piombano nel mezzo di settembre e tirano una riga a penna sopra la parola estate.
Detto questo, non vi sarà difficile immaginare la furia che si riversò su quella sciagurata di una sveglia, che aveva la sfortuna di ritrovarsi il mestiere più gramo al mondo e di suonare troppo presto e decisamente nel giorno sbagliato.
Dopo qualche minuto, però, mi resi conto che uccidere la sveglia non avrebbe cambiato le cose - non avrebbe fatto tornare indietro le pagine del calendario, di sicuro non avrebbe impedito alla scuola di iniziare, e anzi avrebbe macchiato la mia coscienza di una terribile colpa di sveglicidio.
Decisi così di affrontare quella amara giornata e mi alzai dal letto sentendomi una grande guerriera del calibro di Xena. Con lo stesso spirito combattivo affrontai i miei capelli, che sono tutti ricci e si vogliono tutti molto bene, tanto che difficilmente lasciano che il pettine li separi anche solo per un secondo.
Quando i capelli erano più o meno pettinati e il pigiama era stato sostituito da un abbigliamento di quelli tipici da primo giorno di scuola - sapete, quelli che poi non ti vedranno più addosso per nessuno dei seguenti 199 giorni, - scesi di sotto.

"Buongiorno, Maya."
Il tono di mia mamma era quello che useresti davanti ad un enorme orso grizzly mentre lo preghi di non sbranarti.
Mi chiesi se facessi davvero così tanta paura. Finii per stabilire che sì, la mattina del primo giorno di scuola mia madre poteva benissimo avere paura di me.
Cercai di dimostrarle che non me la sarei presa con lei per la terribile sorte che mi toccava: mi sedetti al tavolo, le dissi il buongiorno più allegro che riuscii a tirare fuori e le feci addirittura un sorriso.
"Dov'è Simone?", chiesi.
"Ancora nel letto."
"Ci avrei scommesso."
Ridemmo tutte e due.
 "...Pa'?"
"Già al lavoro."
Ovvio. Quella era la norma. Mio padre usciva sempre di casa prima che noi ci svegliassimo, e tornava quando avevamo ormai già cenato.
Ma, sinceramente, a me andava bene così. Stavamo bene, noi tre. Anche se mio fratello diceva una parola ogni tre o quattro ore e mia mamma sclerava per le cose più stupide ogni tre o quattro minuti.
   Una crisi isterica stava ineffetti arrivando in quel preciso istante: la vedevo che apriva e richiudeva freneticamente i cassetti e sospirava ad intervalli sempre più vicini.
"Cos'è che non trovi, ma'?"
"Lo schiaccianoci."
"A cosa ti serve, ora, lo schiaccianoci?"
"A niente, ma non lo trovo e lo voglio trovare."
"Okay, vediamo... hai guardato nel frigo?"
Mi guardò perplessa ma andò comunque a controllare.
"Oddio avevi ragione, è qui!"
Non chiedetemi cosa ci facesse lo schiaccianoci nel frigorifero.
 Io stessa non mi feci domande. (A volte è meglio non farsele.) Presi la borsa che avevo preparato la sera prima e mi avviai verso l'ingresso.
"Ciao ma', io vado!"
"Buona giornata, Maya!"
Sì, certo.

Quando arrivai a scuola notai che erano tutti fastidiosamente allegri. Ma ero sicura che già dal secondo giorno la faccia da 'Odio la scuola odio tutto vi prego fatemi tornare in vacanza vi prego vi odio' avrebbe preso piede.
Per il momento, però, erano tutti impegnati a sorridere, salutare, chiedere Come sono andate le vacanze?, e sorridere.
Mi feci strada fra il mare di pacche sulle spalle e baci sulle guance e raggiunsi le mie amiche.
Eccole lì, tutte sorrisi, sempre uguali solo più abbronzate. Laura, Cristina e Alessia.
Ero felice di rivederle. Soprattutto Alessia. Lei era quella che mi era più vicina. Abbracciai lei e poi le altre. Quando la fila di abbracci fu finita, Alessia disse: "Allora Maya, come va?"
"E' una domanda retorica, Ale? Fra pochi minuti saremo là dentro!" - e indicai la facciata grigia della scuola.
Si misero tutte a ridere.
Poi improvvisamente sentii due mani sui miei fianchi che mi tiravano indietro.
Rivolsi un sorriso imbarazzato alle mie amiche e mi girai. Sapevo benissimo di chi si trattava: il mio ragazzo. Andrea.
Non chiedetemi cosa ci facessi fra le braccia di uno dei ragazzi più carini della scuola. Non lo sapevo neppure io. Era semplicemente... successo.
In realtà non è che io avessi mai provato niente per lui, ma sapete come vanno queste cose, quell'estate tutte le mie amiche erano fidanzate, e Andrea era stato tanto gentile con me...
E così, senza quasi neanche rendermene conto, mi ritrovai fidanzata anch'io.
   ... Se lo amavo? No, l'ho detto, l'avevo sempre saputo.
A dire il vero non sapevo perché stessi ancora con lui, pur senza amarlo. L'abitudine, forse?
O forse quella paura che sotto sotto abbiamo tutti, quella di rimanere soli. Brutta quella, eh? Se ti prende proprio forte è terribile, se ti fermi a pensarci, e allora arrivi persino a fare cose che non credevi di poter fare, come, guarda un po', stare con qualcuno che non ami.
      E ora lui era lì, davanti a me, e mi sorrideva guardandomi negli occhi.
"Ciao, amore.", disse.
"Ciao", risposi.
Poi mi baciò, e io mi chiesi cosa ci fosse di sbagliato in me.
Perché stavo baciando quel ragazzo biondo alto un metro e ottanta e non provavo un fico secco di niente.
E, per quel che ne sapevo, non era così che sarebbe dovuto essere.
  Ma ero brava a ricacciare certi pensieri in un angolino della testa.
Gli sorrisi, lo presi per mano, e ci avviammo verso il nostro primo giorno di terza liceo.
   
  E' incredibile come la scuola riesca sempre ad apparire immutabile, come se fosse l'unico punto fermo che sfugge ai moti dell'universo. Potresti dormire per cento anni, potrebbe scoppiare la terza guerra mondiale o una catastrofe di livello globale, con tanto di scenari apocalittici alla '2012', ma se, mettiamo, riesci a sopravvivere e rimetti piede dentro la scuola... non è cambiato niente, diamine. Lei è ancora lì, immutata. Con lo stesso identico odore di muffa, e ancora quella crepa sul muro del corridoio, e le fila di luci che pendono e quella misteriosa impronta di scarpa sul soffito che ancora non si è capito come diavolo sia potuta succedere una cosa del genere.
Così trovai la mia scuola, quella mattina. E devo ammettere che c'era anche qualcosa di rassicurante nel vedere che il tempo lì sembrava non essere trascorso, e l'estate forse non era mai esistita, e i banchi sembravano esser sempre rimasti lì ad aspettarti, così come anche i bidelli e i professori - tra l'altro, iniziavo a pensare che questi ultimi davvero se ne stessero rinchiusi tre mesi là dentro, per esser poi trovati da chi a settembre apriva le scuole.
Ad ogni modo. Ve l'ho detto che c'è un posto all'inferno riservato ai professori che sottopongono i loro test d'ingresso il primissimo giorno dopo le vacanze?
Be', ora lo sapete.
Nel mio caso il professore in questione era quello di storia. Si presentò in classe con un bel sorriso e disse: "Test d'ingresso!"
E un rumorosissimo "Nooooo!" si levò dalla classe.
Eppure lui continuò con il suo imperturbabile sorriso, distribuì i fogli e ci osservò mentre iniziavamo a guardare le domande con aria contrariata.
Cessate le lamentele, era calato un gran silezio: eravamo rassegnati.
Io risposi a quasi tutte le domande. Ovviamente ne lasciai in bianco un paio, perché dopo tutta un'estate non potevo proprio ricordarmi tutto quello che avevo studiato l'anno passato, ma tutto sommato non fu la tragedia che mi aspettavo. Forse quel test non avrebbe pregiudicato il mio intero anno scolastico.
I miei compagni invece sembravano disperati, tanto disperati che pensai che si sarebbero buttati dalla finestra - se la nostra classe non fosse stata al piano terra.
"Aiutami, Maya, ti prego", bisbigliò Alessia dietro di me.
Spostai un po' il foglio con aria disinvolta affinché lei potesse vedere. Ecco che riprendevamo la nostra tradizione: io che facevo i compiti e lei che copiava. Ma non mi dispiaceva, ero felice di rendermi utile in qualcosa. E' a questo che servono gli amici, no?
    Alla fine tutti consegnammo il test e passammo il resto dell'ora a chiacchierare fra di noi. Il bello dei primi giorni è che non si fa quasi niente.
La cosa migliore poi è quando c'è un nuovo professore e si fa uno di quegli stupidi giochini per "conoscersi meglio".
     La lezione seguente era quella di spagnolo, e avevamo appunto una professoressa nuova che chiese ad ognuno di parlare di sé - in spagnolo, ovviamente. Quando arrivò il mio turno dissi: "Mi chiamo Maya, ho sedici anni, un padre, una madre, un fratello... mi piace la musica, mi piace guardare serie televisive americane e mi piace leggere." Al mi piace leggere si sentirono diverse risatine, neanche a dirlo, perché si sa che ormai leggere è da sfigati. Ma feci finta di niente, mi limitai a maledirli tutti in segreto nella mia mente.
     Il giro continuò, uno per uno dissero tutti i loro stupidi hobby, e poi, finalmente, suonò la campanella. Intervallo!
Si fiondarono tutti fuori dall'aula. Alessia ed io rimanemmo sulla porta ad aspettare che le altre uscissero dalle loro classi e ci raggiungessero.
  Le vedemmo spuntare insieme in mezzo alla folla.
Mentre si avvicinavano Laura salutò freneticamente con la mano e Cristina urlò: "Ciaaaao!" con quella sua faccia paffuta tutta sorridente.
Quando furono finalmente davanti a noi, Alessia rise e disse: "Ragazze, sembra che non ci vediamo da una vita! Ci siamo viste poche ore fa..."
"Be', è normale essere felici," puntualizzai, "saremmo benissimo potute morire in queste poche ore."
"Hai ragione", dissero, ed ebbe inizio un resoconto di tutti i test d'ingresso, i discorsi dei prof. e le stupide attività che avevamo dovuto sopportare fin dal primo giorno.
  Alessia volle mostrare alle altre la nostra classe, anche se era esattamente quella dell'anno scorso. Continuava a parlare di tutte quelle sue nuove strategie che aveva escogitato per copiare ancora meglio.
   Poi uscimmo in corridoio. E lì la vidi per la prima volta.
Era in piedi vicino ad una finestra, sola. Non sembrava né triste né felice - piuttosto pareva assente, come se si trovasse in realtà da un'altra parte.
E, dannazione, era bellissima. Alta, magra, capelli biondi lunghissimi. Di quelle bellezze che ti fanno morire d'invidia quando le vedi passare per il corridoio.
   Eppure con lei era diverso, io non provavo affatto invidia; quel che provavo era piuttosto... non saprei, ammirazione?
La guardavo e tutto quello che riuscivo a pensare era: Cavolo, è bellissima.
La guardavo.
La guardavo...
Oddio, quant'era che la guardavo?
Mi accorsi che le altre avevano smesso di parlare.
"Chi guardi?", mi chiese Laura.
"Oh, no, quella..." mi sentivo stranamente a disagio. "Quella ragazza laggiù. Non l'avevo mai vista. E' nuova?"
Fu Cristina a rispondere: "Ah sì, è nella mia classe! Pare si sia trasferita dalla città... dovrebbe fare quarta, ma ha perso un anno."
"Sembra strana", si intromise Laura.
"Oh, lo è," continuò Cristina. Poi, a bassa voce: "Sapete, dicono che sia lesbica."
"Oddio.", disse Alessia.
"Oddio.", disse Laura.
"Ah.", dissi io.
Poi Laura concluse la questione con un: "L'avevo detto io che era strana", e passarono ad un altro argomento.
Io mi girai di nuovo verso la ragazza, e vidi che adesso era voltata e guardava fuori dalla finestra.

    Quella sera mio padre arrivò prima di cena. Era un avvenimento!
Sentii che posava le chiavi e diceva: "Sono a casa!", ma aspettai ancora un po' prima di uscire dalla mia stanza. Non avevo proprio voglia di andare di sotto.
Dopo qualche minuto, però, nostra madre con un urlo fece sapere a tutti noi - e probabilmente anche all'intero vicinato - che era pronto, e così pian piano mi diressi verso la cucina.
Erano già tutti lì. Mi sedetti anch'io al tavolo.
Mio padre chiese: "Allora, com'è andato il primo giorno di scuola?"
"Normale", risposi io.
"Uno schifo", disse Simone nello stesso istante.
"Bene", commentò mio padre.
E la conversazione finì lì.
   Mangiavamo tutti senza dire una parola, e il silenzio era tale che si sentiva il ronzio del frigorifero. Era snervante.
Nostra madre provò una volta o due a fare conversazione, ma questa si spegneva dopo due secondi.
Il rumore delle posate sui piatti mi infastidiva incredibilmente. Sentivo di essere sul punto di esplodere.
E intanto Simone se ne stava zitto a mangiare, e così anche nostro padre.
Alla fine mia madre si alzò di scatto e iniziò a fare la lavatrice con i suoi modi frenetici.
Io la aiutai, mentre mio padre si alzava e se ne andava nel salotto, probabilmente a leggere il giornale sulla sua poltrona preferita.
Mio fratello aiutò un po' in cucina e poi si chiuse in camera sua.
Che bella famigliola felice, pensai. E, non appena la lavatrice fu finita, imitai mio fratello.
     Chiusi la porta della camera e attaccai la musica al massimo, per cancellare tutto quel silenzio prima che mi inghiottisse.
Accesi il computer e andai subito su tumblr, e mi feci inghiottire anzi da lui.
Amavo tumblr, non era un semplice social network per me - era piuttosto un luogo virtuale dove si concentrava tutta la bellezza del mondo.
   Riemersi nel mondo reale che erano le nove. Avevo ancora qualche ora prima di dover andare a dormire, così decisi di farmi una maratona di Glee, la mia serie televisiva preferita.
Alla fine mi cambiai, peparai la cartella per il giorno dopo e la trascinai giù fino all'ingresso.
Mentre tornavo su passai davanti alla camera dei miei e urlai un "Buonanotte" attraverso la porta; lo stesso feci davanti a quella di mio fratello.
Una volta tornata nella mia stanza andai alla scrivania per spegnere il computer, ma finii per guardare ancora video su Glee, in particolare su una delle coppie principali della serie - composta, sì, da due ragazze.
Dopo qualche minuto, però, dissi a me stessa che dovevo assolutamente dormire se non volevo avere le occhiaie già dal secondo giorno. Così, anche se a malincuore, spensi il computer e mi diressi verso il letto.
     Non appena fui coricata sentii una tristezza che pian piano iniziava ad opprimermi e a pesare, come se avessi una pietra sul petto.
Si faceva sempre più forte mentre pensavo che era passato appena il primo giorno di scuola, e vedevo davanti a me tutti quei giorni che ancora dovevo vivere, ed erano un'infinità, ed era come se tutta la mia vita mi pesasse sul cuore, così ingombrante e pesante, ma allo stesso tempo vuota...
E riuscivo ora a distinguere proprio un vuoto, sotto il peso sul petto, più in giù verso le costole. Era un dannatissimo vuoto che mi faceva contrarre lo stomaco e sembrava volermi risucchiare. E non riuscivo proprio a spiegarmelo, era come se il mio corpo urlasse il bisogno di qualcosa che, per quanto mi sforzassi, non arrivavo ad identificare. Era un doloroso bisogno con un sapore agrodolce, come una tremenda nostalgia di una cosa che non hai mai visto né vissuto.
   Faceva male, non riuscivo più a sopportarlo.
Mi schiacciai un cuscino sulla pancia per cercare di riempire il vuoto, mi infilai le cuffie dell'ipod nelle orecchie per cercare di zittire i pensieri e, dopo qualche minuto, finalmente mi addormentai.
   
 
Leggi le 2 recensioni
Ricorda la storia  |        |  Torna su
Cosa pensi della storia?
Per recensire esegui il login oppure registrati.
Capitoli:
   >>
Torna indietro / Vai alla categoria: Storie originali > Generale / Vai alla pagina dell'autore: olor a libros