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Autore: Robin Nightingale    14/08/2015    2 recensioni
Piccola raccolta di ricordi.
Kanon di Gemini ricorda vari momenti della sua vita: dall'infanzia, all'adolescenza, alla sua vita al Santuario e, soprattutto, ciò che di più prezioso possiede.
Genere: Generale, Malinconico | Stato: in corso
Tipo di coppia: Nessuna | Personaggi: Gemini Kanon, Gemini Saga
Note: Raccolta | Avvertimenti: nessuno
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Odiavo la Domenica, non vi era mai nulla di divertente da fare.
I negozi erano chiusi e le strade deserte, vi ero solo io con un vecchio pallone.
Lo calciavo annoiato, contro un albero del giardino, nella speranza che tu venissi a giocare con me.
Talvolta tiravo appena sotto la nostra finestra, nella speranza di convincerti.
Tu aprivi la tapparella imbronciato e gridavi semplicemente il mio nome.

<< Kanon! >>

Mi intimavi di smetterla e io ubbidivo.
Sospiravo, mentre tu tornavi dentro, sdraiato sul tuo letto a leggere chissà quale libro di avventure.
Tu odiavi il calcio, dopotutto.
La Domenica  trascorreva così: tu sopra, immerso in quelle ruvide pagine, leggevi avidamente quelle righe d’inchiostro senza mai distogliere lo sguardo.
Io sotto, in giardino, con un pallone ormai vecchio e quasi sgonfio,  speravo che qualcuno giocasse con me, o che mi facesse semplicemente compagnia.
C’era, però, qualcosa che odiavo ancor di più di quel giorno: il pranzo con i parenti.
A ora di pranzo, mia nonna usciva di casa e con rabbia mi prendeva per un orecchio.
Era vecchia, bassa e gobba; il suo viso era piccolo e ricoperto di rughe, assomigliava ad un’anziana tartaruga.
Sul naso vi era un enorme neo scuro, che mi aveva sempre ricordato le streghe delle fiabe, aveva persino la stessa voce roca e sinistra.
Nonostante l’età aveva una forza incredibile, tanto da riuscire a trascinarmi in casa, senza che riuscissi ad opporre resistenza.

<< Lavati! Vestiti! E pettinati quella zazzera che hai in testa! >>

Urlava con tutta la forza che aveva in gola, spingendomi dentro il bagno e gettandomi addosso un asciugamano pulito.
Controvoglia entravo in doccia, sbuffando e borbottando.
Perdevo sempre tanto tempo per lavarmi: mi piaceva rimanere senza far nulla sotto il getto dell’acqua, mi piaceva vederla scorrere e mi piaceva anche giocare con il sapone.
Mia nonna bussava energicamente alla porta nel tentativo di farmi uscire; batteva una volta e poi tornava giù.
Io uscivo sempre dopo la terza chiamata.

“Esci di lì!”

“Muoviti!”

“Sbrigati, o ti giuro che ti sbatto fuori senza mutande!”

Gridava.
Una volta finito, mi avvolgevo nell’asciugamano, perché, come sempre, quella vecchia donna non aveva l’accortezza di portarmi i vestiti puliti.
Così sgattaiolavo fuori dal bagno, nella speranza che nessuno mi vedesse.
Entravo nella mia stanza e mi chiudevo la porta alle spalle, tirando un sospiro di sollievo.
Con violenza sbattevo l’asciugamano per terra, mentre tu aprivi il tuo armadio, in cerca di qualcosa da mettere.
Mi guardavi perplesso, ma non dicevi nulla. Io ti imitavo e mugugnando tiravo fuori le prime cose che mi capitavano a tiro.
Mi vestivo e allacciavo le scarpe in fretta e furia, pregando che quella giornata finisse presto.
Una volta fatto, mi voltavo verso di te e tu verso di me.
Ogni volta che ti guardavo, mi sembrava di essere davanti ad uno specchio.
I capelli dello stesso colore, gli occhi dello stesso colore.
Le stesse fossette sulle guance, la stessa espressione, lo stesso pensiero.
Allungavo la mano verso di te, credendo davvero di avere uno specchio di fronte; mi accorsi che tu avevi fatto lo stesso quando le nostre mani si toccarono e si incrociarono.
Sarei rimasto in quella posizione anche per tutto il giorno e guardandoti negli occhi, sapevo che avevi pensato lo stesso.
Non avresti mai lasciato la mia mano, come io non avrei mai lasciato la tua.
D’un tratto cambiasti espressione: avevi le labbra increspate e un’espressione dubbiosa in volto.
Guardavi i miei vestiti, ed erano uguali ai tuoi.
Indossavamo una maglietta rossa, ma mentre la mia era stropicciata e leggermente scolorita, la tua era ancora di un ardente rosso fuoco.
I miei pantaloni erano strappati, i tuoi perfettamente integri.
Con un sorriso ti allontanavi, mentre io ti freddavo con gli occhi, quasi offeso.
Dal tuo armadio a quattro ante, tiravi fuori una camicia di cotone bianca, perfettamente piegata e stirata.
Ti spogliavi della tua maglietta, ordinandola e riponendola nel cassetto; poi indossavi la camicia, chiudevi i bottoni con estrema calma e cura, tranne l’ultimo.
Ti sistemavi nuovamente i capelli, infine ti giravi verso di me. Sorridevi di nuovo e prima di lasciare la stanza, mi scompigliavi ancor di più i capelli.
Adesso non eravamo più uguali.
  
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