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Autore: Cassandra Morgana    30/01/2009    1 recensioni
Un tiranno ed una città a un soffio dalla guerra civile.
Un gruppo di ragazzi improvvisati ribelli, persi nelle sfuggenti sfaccettature del loro essere e del loro ruolo, fra le trame di un complesso interagire nel mondo.
Una minaccia soffusa che aleggia nell'aria...
Un luogo immaginario e un momento storico immaginario, "riconducibile" al XVIII secolo europeo.
Benvenuti a Noir Trésor!
Genere: Drammatico, Introspettivo, Mistero | Stato: in corso
Tipo di coppia: Het, Slash
Note: AU, Lemon | Avvertimenti: Contenuti forti, Incompiuta, Tematiche delicate
Capitoli:
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- Questa storia fa parte della serie 'Noir Trésor ~'
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Capitolo 20

Rosso sensazione

 

 

Auguste sentì le labbra di Fernand scivolare soffici e delicate in un lento strofinio sotto le sue; lambendolo in punta di labbra in un soffio sfuggente, percorse il contorno sottile della mandibola lungo l’ovale del volto che digradava dolcemente, e lasciò che la vaga carezza scemasse a un filo dal suo orecchio.

Avvertì il battito del ragazzo infuriare sotto la pelle, il respiro giocare distrattamente sui suoi capelli, lo sguardo illanguidire e velarsi di nebbia.

Vacillò, le palpebre socchiuse, i muscoli tesi nel tentativo di contrastare l’impertinente, torrida sensazione di formicolio all’altezza del basso ventre.

- Auguste… – la voce affiorò nella gola secca di Fernand come provata da una lunga apnea – Cosa…

- …Cerco di fare?

Un mero istinto di sopravvivenza lo indusse ad atteggiare il volto in un’espressione di falsa sicurezza.

 

Quale inspiegabile luccichio gli martellava nella testa?

 

- Cercavo solo di darti un’idea, uh, di quel che è successo quella famosa notte di Capodanno, cheri – azzardò Auguste con voce roca, un sorriso sarcastico atto a mascherare il proprio disagio in quell’assurdo vicolo cieco di ricordi sfumati e mere supposizioni in cui aveva voluto cacciarsi per forza.

Perché le stesse parole ed i pensieri di Fernand avevano finito per precipitare liberamente in quella direzione?

- Qualunque cosa io abbia fatto in quella tristemente famosa notte non fa testo, se consideri che ero completamente, inequivocabilmente ubriaco – scattò Fernand, il volto accaldato.

Auguste annuì con fare sagace.

- Mi spiace solo non poterti offrire una dimostrazione pratica di quella che è stata la tua performance, Fernand. E converrai con me che non sarebbe carino, in mezzo ad una strada, per quanto deserta sia…

Tacque. Il volto di Fernand gli parve in procinto di andare a fuoco.

- Cosa diavolo vuoi dire? – stridette il giovane, disorientato.

Istintivamente, Auguste si passò la lingua sul labbro superiore, compiaciuto.

- Che se fino a questo momento, a domanda precisa, avrei giurato quasi certamente di sopportarti meglio da sbronzo che da sobrio, ora dovrò ritrattare ed ammettere che non è poi così male, in condizioni normali e per la prima volta in assoluto, intrattenere qualcosa che somigli ad un dialogo pacifico con l’inamovibile Ferdinand laRoche. Magari, col tempo, riusciremmo persino a non scannarci e scambiare qualche battuta come fra vecchi amici.

 

Un mezzo sorriso indulgente percorse le labbra di Fernand. Erano divenuti un’eventualità così sporadica, quegli inediti frammenti di rilassata quotidianità aventi come protagonista l’indefesso Auguste de la Garde, sempre più cupo e scuro, lo sguardo mobile ed inquieto incastonato nelle orbite cerchiate di stanchezza, perso in fondo alle sue angosce di cospiratore maledetto. Come se, da un certo momento in poi, in un personale eccesso di responsabilità o di puntiglio, si fosse tacitamente imposto di rinunciare alla tregua di un istante di abbandono e ad ogni parvenza di serenità.

Riprendere a respirare; tornare fra i comuni mortali ed abbandonare, almeno per un momento, i panni ingombranti del rivoluzionario dalla volontà di roccia e dai nervi a pezzi, meditò Fernand con una punta di sarcasmo.

Eppure, quasi senza avvedersene, sfiorando nel buio dell’inconsapevolezza il filo di un pensiero alternativo, era riuscito in qualche modo a pizzicare una di quelle rare corde capaci di distoglierlo dal suo inferno e catalizzare la sua attenzione su ricordi indolori. E lui, Fernand, sarebbe stato ancora più felice se la scelta fosse quantomeno ricaduta su qualcosa che non implicasse per lui l’increscioso risvolto di farlo sprofondare nell’imbarazzo.

Auguste non aveva fatto mai nulla per contenere la spiccata attitudine a stuzzicare di proposito la sua irascibilità: benché i loro rapporti non fossero mai stati squisiti al punto da lasciarli indulgere placidamente in cameratesche confidenze, e malgrado entrambi assecondassero quasi per natura la reciproca tendenza ad infiammarsi l’un contro l’altro, nessuno dei due si era mai preoccupato di approfondire in sede privata i loro rapporti, se non altro per cercare di comprendere ed appianare le cause delle loro tensioni.

Auguste sembrava nutrire il solito gusto perverso nel provocarlo e tentare di scombussolare le sue certezze; eppure, unica palpabile differenza, quello che Fernand vedeva in quel momento dinnanzi a sé ricordava piuttosto un amico che gioca a punzecchiarti in maniera tutto sommato inoffensiva e priva di cattive intenzioni, che non la figura dall’apparenza ostile dalla quale guardarsi costantemente le spalle.

Auguste, il suo Auguste stava lì di fronte a lui, a dispetto delle previsioni meno rosee intessute nell’arco di quella notte di estenuante attesa; Auguste non lo guardava più con ostilità, e lui, con la sua stessa presenza, lasciandolo sfogare tra le sue braccia e tendendogli quasi casualmente un cenno amichevole, pareva inaspettatamente aver infuso sulle sue spalle quella stilla di momentaneo sollievo in grado, se non altro, di mantenerlo in piedi sulle sue gambe.

Auguste fuori di sé, che oscilla incessante fra la reticenza, il rimorso e la disperazione, incatenandolo ai suoi occhi arrossati in una muta e quanto mai implicita richiesta d’aiuto, per poi, beffardo, stravolgere di colpo le regole e scagliarsi rapace su di lui.

E poi c’era quella caliginosa sensazione di morbido fiele, quelle labbra – non più sconosciute –, quel profumo che l’aveva sfiorato come velluto impalpabile, trasmettendogli nel brivido del distacco quel sapore che, nel fumoso delirio di una notte ormai lontana nel tempo, aveva gustato sul filo dell’inconsapevolezza. Auguste l’aveva fatto e non si era posto scrupoli di sorta, sadico e leggero come il leone che approfitta dell’indifesa gazzella.

- Dobbiamo parlare, Auguste – accennò il ragazzo con rinnovata compostezza, un lampo di freddo raziocinio in fondo alle iridi.

Auguste gli rivolse un impercettibile cenno del capo, trasalendo appena, lo sguardo sfuggente.

- Non è indispensabile – un mezzo sorriso gli increspò le labbra.

Fernand spalancò le palpebre, interdetto.

- La… la faccenda di quei dannati libelli, Auguste. Io… Mi dispiace – esalò in un sussurro.

Auguste agitò debolmente la mano come a voler vanificare un pensiero superfluo e molesto.

- Lascia stare, Fernand – il suo sguardo parve arenarsi in un punto impreciso sulla fronte del ragazzo ed indugiare brevemente su di lui, fragile pretesto nel suo raggio visivo – Sono convinto che non avrebbe senso ricominciare da capo e scandagliare nel dettaglio. Non sarà necessario, stavolta.

- Vorrei soltanto – Fernand respirò profondamente, quasi a ricercare il coraggio in un sottile alito di sollievo nel suo petto – Capire se… Se la mia presenza sia ormai di troppo, dopo quanto è successo.

Auguste ripose fulmineo la sua attenzione su di lui.

- Dopo che cosa?

- Dopo quel che è accaduto a Lucien.

Auguste scosse il capo.

- Non vedo un nesso logico.

- Sembrava quasi che mi ritenessi… Responsabile, forse. Che la mia presenza fosse divenuta un peso.

Auguste si ritrasse come percosso da una frustata. Le sopracciglia si corrugarono in un moto perplesso.

- Cosa ti fa pensare…

Fernand chinò tristemente lo sguardo, dissentendo.

- Tutto ciò che è successo ha reso evidente quanto le nostre linee di lotta siano diventate inconciliabili, e che un eterno “muro contro muro” fra menti discordi non può durare ancora a lungo.

- È una sciocchezza – lo interruppe Auguste.

- Allora, parla chiaro – la voce di Fernand s’indurì senza che egli se ne avvedesse, gli occhi assottigliati in una piega risoluta – Spiegami ora, Auguste! L’ultima cosa che desidero in proposito è ritrovarmi nuovamente preso alla sprovvista nel limbo dei tuoi perenni “non dire” che sembrano promettere cambiamenti di veduta, illudermi che i problemi siano risolti, quando in realtà si limitano a giacere sul fondo, per poi ritrovarci punto e a capo, stasera o domani o chissà quando, a contrariarci a vicenda e a prenderci a pugni nelle locande.

- No, non accadrà – Auguste pareva ribadire un concetto oltremodo ovvio – Perché ora cambia tutto.

- Che cosa cambia? Cosa vuoi fare della congrega, Auguste? – le labbra di Fernand fremettero.

Auguste sollevò gli occhi al cielo alla ricerca di una risposta che non sarebbe arrivata.

- Dammi solo un po’ di tempo per riflettere, Fernand – per un istante, il suo sguardo parve accendersi dell’antico slancio nel perseguire l’unico scopo che mai gli fosse parso congeniale – Tutto si appianerà. Parlerò con voi, te lo prometto – la voce sfumò sibillina.

- Quanti anni hai, Fernand?

La domanda a bruciapelo scosse Fernand come un improvviso mutamento di rotta in mare aperto.

- Come?

- Quanti anni hai, Fernand? – Auguste sorrise con quel fare sfuggente che cominciava ormai a fiaccare la pazienza di Fernand.

- Venti.

- Vent’anni – Auguste gli rivolse uno sguardo paterno – Avevo vent’anni come te, Fernand. Mi piaceva definirmi rivoluzionario, nonostante avessi solo una vaga idea di ciò che significasse, e con la mia poca coscienza nel calarmi nel ruolo, le idee astratte e la scarsa sottigliezza nel concretizzarle, avrei fatto impallidire persino la Bertie. Gli amici dell’Accademia, in qualche modo, dovevano aver instillato nella mia mente giovane ed influenzabile tante di quelle idee contorte, inattuabili e dense d’interpretazioni distorte che, se le cose fossero andate diversamente, con ogni probabilità mi sarei persuaso che la città avrebbe potuto sollevarsi da un giorno all’altro, spodestare i du Lac e tirar su una repubblica in quattro e quattr’otto. Avrai capito che razza di testa calda dalle idee confuse sarebbe venuta fuori da quell’impasto incoerente di parole vuote, cattive interpretazioni della realtà e posizioni prive di consapevolezza di un ragazzo che aveva fame d’illusioni. Poi venne il duca Alphonse e ci fece rimpiangere il ramo diretto della dinastia. Tu – una piega affabile, velata d’amarezza, percorse il viso di Auguste – hai una linearità di pensiero, Fernand. Nonostante tutto. Filtrata dai tuoi occhi, la realtà non è un’impalcatura astratta di nette antitesi, ma ne hai compreso le contraddizioni in atto. Ragioni come un uomo, non come un ragazzo inesperto infarcito di concetti sistematicamente distorti, serviti su una tavola mal apparecchiata da parte di chi vuol fare di un popolo una scheggia impazzita.

- Cosa te lo fa pensare? – Fernand distolse lo sguardo.

Si strinse nel soprabito, a disagio.

- Sai riconoscere i tuoi errori, ad esempio.

- Dopo che qualcuno mi lancia in testa i miei scritti come corpi contundenti e mi prende a schiaffi – puntualizzò polemicamente Fernand, lo sguardo asciutto.

Auguste ringraziò, per la prima volta, che un discreto rossore sul proprio volto l’avesse fatto apparire, almeno ai suoi stessi occhi, un po’ meno impunito.

- Hai capito che la causa dei nostri mali non è esclusivamente quel tiranno arroccato lassù, divenuto quasi immaginario sulla bocca della gente e contro cui è diventato ormai sin troppo semplice, quasi proverbiale, puntare il dito ed inveire sottovoce, scaricando ogni responsabilità.

Fernand aggrottò le sopracciglia.

- Ma è anche vero che nessuno più del duca du Lac trae vantaggio da un popolo soggiogabile e si danna l’esistenza affinché a nessuno passi mai per la mente l’idea, traducibile in pratica, di ridimensionare il suo potere.

- I bravi uomini dalla mente illuminata e dai forbiti discorsi hanno molte cose più urgenti di cui occuparsi – un lampo di sarcastica indignazione attraversò le iridi di Auguste – Certo capirai, impegnati come sono a fare e rompere alleanze, ad addormentarsi la sera avendo in odio il duca ed a risvegliarsi suoi amici. Per codardia, per avidità di ricchezze e potere che tacita ogni scrupolo morale, o per l’odio che li spinge a tradirsi gli uni gli altri e servirsi di bassezze e menzogne come pretesto per vendicare vecchi torti. Non sono migliori del duca: solo questo, Fernand, per quanto sia bene rifuggire le semplificazioni. L’odio, la miseria esistenziale, l’avidità di chi desidera avere tutto e subito, l’invidia e la rivalità che spingono bande rivali e singoli individui ad osteggiarsi a vicenda, dimenticando la matrice comune dei loro scopi, ed a consegnare al duca i propri avversari. L’incertezza, Fernand, il sospetto, la tristezza, la paura astratta radicata nelle menti, il rancore e la disperazione che ormai permeano la città come trame invisibili. Cinque mesi di discussioni, di incontri, di progetti e disaccordi, di idee che sembrano, ad un primo sguardo in superficie, l’una l’antitesi dell’altra, Fernand, stavano quasi per spaccarci. Eppure, stavolta non accadrà. Non fra noi – concluse.

- Non hai ancora risposto alla mia domanda – Fernand concentrò lo sguardo su di lui – Cosa vuoi fare… Dei ribelli, dei progetti ancora in atto?

Auguste abbozzò un sorriso come se ciò gli costasse un’immane fatica.

- Saprai a tempo debito, Fernand – concluse con fare sbrigativo, troncando la discussione sul nascere.

Si calcò il tricorno sulla testa e distolse lo sguardo col fare pacato e indulgente di chi avrebbe sorriso, magari, avrebbe certo confuso le acque in sfuggenti giri di parole, ma, risoluto, avrebbe serrato le labbra dinnanzi alla prospettiva di rivelare ciò che all’interlocutore premeva; e si sarebbe negato fino allo sfinimento, se l’occasione lo avesse richiesto.

Fernand serrò il pugno abbandonato lungo il fianco in un riflusso di frustrazione.

- Dove vai, ora?

Auguste accorciò il passo, permettendo a Fernand di coprire il breve tratto che li aveva distanziati.

- Da Dorian.

- Credevo dovesse raggiungerci.

Auguste scosse il capo.

- Se è come credo, non ne sono troppo sicuro.

- Auguste. Sforzati ogni tanto di parlar chiaro! – Fernand si stupì di come, dopo tutta l’angoscia e le fisime che gli aveva procurato quell’uomo, riuscisse ancora ad eludere del tutto spontaneamente l’artificioso filtro della ragione sulle proprie parole e a rivolgersi a lui con imperiosa confidenza – Vi siete incontrati?

Auguste scosse il capo in un cenno affermativo.

- Raphäel era con lui.

Dunque? Gli occhi blu di Fernand si dilatarono in un’espressione eloquente, in attesa.

- Mi sono piombati in casa come due fantasmi. Erano preoccupati – Auguste serrò le labbra, disarmato, riflettendo su quanto, ormai, valesse la pena vuotare parzialmente il sacco – Dorian si è sentito male.

- Che diavolo gli è successo?

- Raphäel praticamente lo sorreggeva su di sé. Aveva la febbre molto alta e… diceva un sacco di cose assurde – si risolse Auguste, un nodo d’amarezza che gli offuscava le iridi e gli faceva tremare la voce.

- E ora? – Fernand seguitò a stare al passo, il volto allarmato e lo sguardo diretto e limpido che puntava persistente su Auguste, malgrado egli s’ingegnasse in tutti i modi a distogliere lo sguardo cercando di non suscitare l’impressione di sentirsi a disagio o di voler celare qualcosa.

- E ora stiamo andando a vedere come sta – replicò, asciutto – È stata una fortuna che Raphäel sia rimasto con lui.

Fernand si morse istintivamente il labbro, un’impercettibile nota d’inquietudine e di lieve irritazione che gli fece allungare il passo alla volta della piazza.

 

* * *

 

- Perché non aprite, dannazione! – mormorò tra i denti Fernand, il braccio bloccato a mezz’aria nell’atto di vibrare un colpo secco col dorso della mano sul legno del portone chiuso.

Auguste lo seguì con la coda dell’occhio, tormentando distrattamente fra le dita un capo del nastro stretto intorno al codino. Sospirò: Fernand non faceva nulla per nascondere il nervosismo e quel filo sottile di livore, esacerbato dal crescente, logorante sospetto che quella notte Raphäel Lemoine avesse approfittato dei riflessi indeboliti di Dorian. Libero, in base alle suggestive illazioni che la sua mente contorta s’impegnava ad intrecciare con la realtà, di soggiogarlo a suo piacimento e, magari, intessere fruttuose conversazioni tese a ricavare informazioni appetitose sul conto suo o di Ambrosie.

Gli occhi rivolti al cielo, il volto rassegnato, Auguste si chiese se l’ossessione numero uno di Fernand ed i suoi infondati, snervanti sospetti avessero mai cessato di agitarsi in quella testolina arruffata sempre in fermento.

- Sei geloso? – gli soffiò con voce incolore, arrischiandosi in un inavveduto pretesto finalizzato a distogliere la sua attenzione, piuttosto che ad innescare le solite sequele di vani battibecchi che facilmente ne conseguivano.

Se ne avvide tuttavia solo l’istante immediatamente successivo, quando Fernand si volse verso di lui, il sopracciglio deliziosamente inarcato.

- Oh, va’ al diavolo anche tu! – ribatté, superata l’iniziale perplessità che gli aveva trattenuto l’imprecazione in punta di labbra.

- Hai un vocabolario sempre più limitato, mon ami.

Il ragazzo scosse nervosamente il capo, spazientito.

- E tu somigli a Dorian in maniera sempre più esasperante, quando cerchi di “farmi ragionare”. Sarei curioso almeno di scoprire quale nuova, bizzarra teoria ha ricamato la tua mente fino a giungere ad una mia fantomatica… “gelosia”? – Fernand incrociò le braccia sul petto, un pallido sorrisetto sulle labbra delicate che pareva anticipare l’ennesimo duello a base di sarcasmo e colpi serrati.

Attese.

- Via, Fernand. Sei talmente geloso di Raphäel che raramente riesci a scindere questioni di causa maggiore da personali dissapori.

Lo vide affondare le mani nelle tasche del farsetto, scuro in volto.

- Se questa è la tua idea, potrei citare a mia discolpa motivazioni ben più ragionevoli che chiariscano una volta per sempre perché l’amicizia disinteressata del buon Raphäel non mi abbia mai convinto ad accettare senza riserve il pacco completo e ad accollarmi con leggerezza tutte le sue ombre e le sue reticenze, senza risposte e senza certezze. Ne abbiamo già parlato, Auguste – concluse, annoiato.

- Ho imparato a fidarmi di lui, Fernand. E sono convinto che sia un ragazzo migliore di quel che appare; le sue prospettive d’azione racchiudono un’impronta di fondo di gran lunga più generosa e ideale di quanto non abbiano mai implicato per il sottoscritto. È un pregio e un difetto, a ben vedere, la sua onestà e la totale mancanza di distacco nel reagire all’ingiustizia, ed avrai di certo capito cosa intendo – i suoi occhi indugiarono insistenti su Fernand – quando dico che un aspetto comune a voi due, da un certo momento in poi, ha iniziato a farmi paura. Il tuo atteggiamento nei suoi confronti ha molto di personale, Fernand. Non nego l’evidenza del forte ascendente che Raphäel sembra esercitare attorno a sé e capisco quanto tutto questo possa sembrare fumo negli occhi sulle sue vere intenzioni. E tu, Fernand, sembri averne direttamente paura.

- Quella specie di… carisma - oh, Dio, chiamalo pure come preferisci! - …che riversa da tutti i pori, come vedi e come sarebbe meglio che al più presto qualcuno, gentilmente, lo rendesse edotto, non lo ripara dallo spettro delle cattive intenzioni che ognuno di noi, prima o dopo, finisce per trascinarsi dietro come fardello accessorio. La cappa immacolata del buon rivoluzionario, del ragazzo del popolo che si spacca la schiena giorno e notte, la sua abilità a conciliare vita privata, povertà annessa, e velleità sovversive, svicolando come un’anguilla dalle più legittime pretese di una garanzia sul suo conto, e magari adempire in tutta calma ai propri affari, non credo resterà incontaminata ancora a lungo, seguitando a fare di lui, agli occhi di tutti, la persona di cui potersi fidare a scatola chiusa. Rigirala come meglio preferisci, Auguste, ma sono tuttora scettico di fronte a scintille troppo manifeste. E per quanto riguarda il resto, di lui mi sembra di capire sempre meno ogni giorno che passa. Piace molto ad Ambrosie; Emilie, che sembrava detestarlo a priori in quanto ribelle, non ha esitato, al momento opportuno, a spiattellare a lui e soltanto a lui, il campione dell’arrampicata verbale, tutto ciò che è riuscita ad origliare della tua chiacchierata con i tuoi ricettatori di fiducia – gli affibbiò una gomitata sul fianco, pressato da un ennesimo dubbio incalzante, e lo soppesò con occhi glaciali – altra faccenda di cui mi racconterai con calma e a tempo debito. E poi Dorian, Dorian che fino all’altro giorno non l’aveva degnato di qualcosa in più di uno sguardo, eccolo, in un battito di ciglia, scoprirsi il suo compagno prediletto di scorribande notturne.

- Dorian stava così male che, probabilmente, non avrebbe fatto una piega neppure se a scortarlo fino a casa fosse stato il du Lac in persona – convenne Auguste – Io cercherei di guardare a Raphäel, e a chiunque altro al suo posto, con l’oggettività che la nostra posizione richiede e considerare quanto più possibile la persona nel suo agire, tralasciando i luccichii accessori; e ti assicuro che, almeno fino a questo momento, Raphäel Lemoine si è rivelato un collaboratore prezioso.

Per un istante, Auguste fu certo di aver scorto negli occhi di Fernand un’ombra carica di tristezza.

- Pensi che io… – azzardò il ragazzo – Sia geloso del suo ascendente? Del fatto che si procacci benevolenza e fiducia a piene mani, come e quando vuole, sciogliendosi con disinvoltura da ogni straccio di sospetto circa la sua buona fede? Della rete di rapporti, di situazioni, di legami di fiducia sulla parola che è riuscito ad intessere intorno a sé, attirando nella sua orbita persino Ambrosie e Dorian e rigirandosi attorno al dito mignolo la mole d’implicazioni in atto che ha innescato intorno a sé con il suo comportamento?

Auguste deglutì a fatica, un lampo di repentina consapevolezza, rendendosi conto di quanto sconsideratamente si fosse avventurato sul filo di una lama sguainata, e di quanto poco sarebbe bastato, ancora, per sortire definitivamente in Fernand uno scoppio d’ira e ritrovarsi scaraventato di nuovo al doloroso punto di partenza.

 

Ho sbagliato di nuovo, con lui. Sbagliato il momento, sbagliato il modo in cui, senza avvedermene, lascio vacillare fino a cadere nel vuoto quell’unico spiraglio d’opportunità che in qualche modo mi era stato fortuitamente offerto per riaggiustare le ferite. Un errore, un grosso errore, sollecitare i suoi punti deboli senza rendermi conto appieno della portata delle mie insinuazioni. E questo è solo uno dei tanti demeriti.

Di nuovo lì, punto e a capo, ad interrogarmi su cosa è giusto e cosa non lo è; dove far leva, ora come ora, per dissipare le sue angosce o esasperarle, a mia scelta.

 

- Lui t’inquieta – azzardò Auguste – Irrazionalmente. Sfugge al più raffinato dei tuoi schemi mentali. Questo è chiaro, malgrado non riesca ad afferrarne le cause. E, con ogni probabilità, non parleresti in questo modo, se la questione non si fosse estesa fino a coinvolgere direttamente i tuoi affetti. È così?

Fernand lasciò scorrere uno sguardo assorto su di lui, quasi senza osservarlo, sfidando lungo l’arco ingannevole di un istante la propria forza di sopportazione. Si riscosse.

- Oh, al diavolo!

Auguste sbatté le palpebre stanche, disorientato, quando Fernand, senza preavviso, si lanciò sul portone chiuso con tutto il peso del suo corpo, assestandogli una vigorosa spallata. Ebbe la presenza di spirito di afferrarlo, ormai sbilanciato in avanti, evitandogli per un soffio di volare lungo disteso sul pavimento dell’anticamera, oltre la porta forzatamente dischiusa dinnanzi a lui.

Si ritrasse di colpo, il braccio proteso davanti agli occhi a fargli scudo dal tiepido riverbero del sole che dall’imposta spalancata s’infrangeva nella sala come dietro ad un caleidoscopio, una miriade di confusi bagliori d’ambra pallida fra le candide tende. Auguste lasciò che la propria vista, immersa fino a quel momento nella penombra di un grigio pianerottolo, si riabituasse all’impatto violento con la luce diretta. Avvertì Fernand ansimare contro di lui. Inspirò profondamente, trattenendosi a stento da qualunque reazione dettata dall’impulso: rientrava tutto a pieno titolo nello stile di Fernand, in quel genere di trovate improvvise che gli faceva montare su una gran voglia di prenderlo a schiaffi.

- Stai bene?

Il ragazzo annuì, massaggiandosi distrattamente la spalla.

Auguste si osservò intorno in silenzio.

- Dove diavolo sono andati? – Fernand mosse lo sguardo qua e là per la stanza, nervoso, un velo d’inquietudine a gravargli sulle palpebre spalancate.

- Da nessuna parte – lo rassicurò Auguste, guardingo – Dorian, per lo meno, non può essere da nessun’altra parte, nelle sue condizioni. Vieni!

 

La prima, fulminea sensazione che Auguste, sul limitare della porta, avvertì serpeggiare lungo la spina dorsale e, da lì, sovrapporsi prepotente ad ogni altra percezione, fu un dolore acuto al braccio, accompagnato dall’impressione di un imminente soffocamento. Un istante dopo, il suo sguardo intercettò la mano di Fernand stretta sul suo braccio in un muto spasimo di terrore, le dita chiuse a tenaglia e le unghie quasi conficcate nella carne. Soffocò un’imprecazione.

Un gemito soffuso e continuo, simile al lamento di un animale ferito, aleggiava nella stanza come una nenia sommessa e distante di cui, in un primo momento, Auguste ignorò la provenienza. Vide le sopracciglia di Fernand contrarsi sul volto livido in una morsa carica d’inquietudine, tacita conferma dei suoi timori.

Districando i propri sensi da ogni deleteria suggestione, Auguste lasciò confluire le proprie percezioni sulla figura raggomitolata in un angolo della stanza, un bozzolo tremante dai lunghi capelli biondi. Affilò lo sguardo.

Dorian.

Sembrava stringere qualcosa in mano con forza spasmodica, ma quel che s’impose ferocemente dinnanzi agli occhi di Auguste, riducendo ad irrilevante scenografia ogni altro elemento dinnanzi a sé – la stanza, i presenti, l’intero impianto razionale intorno a lui – fu la piccola pozza scarlatta che si allargava sotto il braccio del ragazzo accoccolato sul marmo gelido, liquido insulto sulla mano pallida che lo imbrattava fino al polso e fra le dita.

Socchiuse gli occhi, sforzandosi di vedere oltre lo strato di nebbia che incrinava la sua visuale. E poi una figura vestita di scuro, china accanto a Dorian, reclamarlo in un fioco sussurro, il viso contratto in un moto d’agitazione improvvisa e le gote accese di un vivo rossore. Si ritrasse. Era Raphäel Lemoine.

 

Auguste sentì la testa girargli ed una sorta di nube color sangue calare pesantemente sui suoi occhi. Boccheggiò, le gambe in procinto di cedere, la mano stretta allo stipite della porta, l’altra che vagava alla ricerca di un provvidenziale appiglio su Fernand, e le labbra aride socchiuse in un ansito di terrore che non trovò sfogo. Invano la mente si dibatteva nel ripudiare dal suo campo visivo l’immagine che vi si era ossessivamente imposta; invano quel suo unico anelito di disperata lucidità lottava per impedire al suo sguardo di arenarsi all’infinito, come in un delirante incantesimo, in quell’oceano tinto di cremisi. Strizzò le palpebre, tentando di scacciare il doloroso groppo d’angoscia che gli si era ancorato al petto, spezzandogli il respiro ed irradiando in lui un malessere oscuro, un suadente richiamo all’oblio.

Fu il precipitare degli eventi intorno a lui a riscuoterlo ed impedirgli di perdere i sensi, insieme alle urla che gradualmente si imponevano sul ronzio caotico ed ovattato che gli martellava nella testa.

Vide Fernand, venuta meno la sua molle presa su di lui, fiondarsi al centro della stanza vorticante e gettarsi come una furia su Raphäel, allontanandolo da Dorian con uno strattone ed inchiodandolo al pavimento.

- Cosa gli hai fatto, maledetto bastardo?

- Fernand, cosa diavolo ti salta in mente, ora? – gli sussurrò Auguste, la voce ridotta ad un sibilo roco, portandosi faticosamente a separare i due contendenti.

Stordito, Raphäel si risollevò a fatica, massaggiandosi la nuca dolorante. Per un istante, i suoi occhi si socchiusero su Fernand in due fessure gravide di un acceso rancore e di una furente, oscura frustrazione, tanto che Auguste temette di vederlo scagliarsi su Fernand con il ferreo proposito di fargli quanto più male possibile. Tuttavia, Raphäel si limitò a chinare mestamente il capo, i lineamenti sottili composti in un’espressione indecifrabile.

- Io… – sembrava confuso.

Sollevò il viso su di lui, lo sguardo allucinato come reduce da un incubo.

Auguste non ebbe altra scelta se non sforzarsi, nonostante tutto, di mantenere una parvenza di controllo. Raphäel sembrava sconvolto; Fernand squadrava la sua nemesi vivente con il fermo proposito di farla a pezzi, non appena si fosse allentato il suo sguardo vigile su di lui. Dorian giaceva rannicchiato ai suoi piedi, appena cosciente, il volto cereo corrugato in una maschera di dolore, il palmo della mano attraversato da un lungo taglio, e tutti i suoi sforzi residui sembravano concentrati ad arrestarne l’abbondante sanguinamento con un panno ormai zuppo.

- Raphäel – Auguste gli posò la mano sulla spalla, sforzandosi d’imprimere nel suo tocco un’impronta rassicurante – Cos’ha Dorian? Che cos’è successo?

- Già: cos’è accaduto, mentre era con te? – Fernand rimarcò le sue parole in una sfumatura carica di veleno.

Raphäel si morse stizzosamente il labbro, un impercettibile lampo di collera ad increspargli la fronte. Allungò una mano sul pavimento, per poi agitare sotto il naso arricciato di Fernand una grossa scheggia di vetro.

- Uno specchio rotto, Fernand – gli soffiò con voce falsamente carezzevole – Ci si è ferito inavvertitamente.

Auguste vide il sangue affluire sulle gote di Fernand e correre ad infiammargli il volto fino alla radice dei capelli.

- E dunque? – proruppe il giovane, una venatura vagamente isterica nella voce – Se… se è vero che fino a qualche ora fa bruciava di febbre, che diavolo ci faceva in mezzo a questa stanza? Qua c’è dell’altro. Io… non credo di aver mai visto Dorian così terrorizzato in tutta la sua vita. E tu non hai detto tutto.

- Che diavolo ci faccia Dorian in mezzo alla stanza, accanto al lavabo, è una buona domanda, Fernand – gli sussurrò Raphäel con voce gelida – Che si stesse semplicemente lavando la faccia? – scandì le proprie parole con fare sarcastico, mimando teatralmente l’atto con enfasi melodrammatica.

- Dorian, come ti senti? – Fernand circondò premurosamente con un braccio le spalle dell’amico.

Auguste scosse il capo in direzione di Raphäel, rassegnato; quindi, lottando a denti stretti contro il panico e il senso di nausea che la vista del sangue aveva prodotto in lui, avvolse provvisoriamente in un panno pulito la mano ferita del ragazzo e lo cinse con un braccio attorno alla vita, aiutandolo a rimettersi in piedi. Lo sguardo severo saettò repentino da Fernand a Raphäel, una muta intimazione a evitare di azzuffarsi in quel breve intervallo.

Li vide scrutarsi con occhi ostili – incerti entrambi se mollare la presa fosse una scelta opportuna oppure no – e sperò in cuor suo che, almeno per il momento, quei due sciagurati avessero la buona grazia di deporre le armi.

Si lasciò ricadere stancamente su una sedia, il capo stretto fra le mani, mille ombre dinnanzi ai suoi occhi, cercando di recuperare il bandolo della vorticosa realtà che gli ribolliva nella mente in tumulto.

 

   
 
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