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Autore: WhiteWitch    17/08/2015    2 recensioni
Léo, studentessa di storia dell'arte alla Sorbona, sembra avere una vita perfetta. Tanti amici, feste e bei vestiti, un fidanzato intraprendente che non fa troppe domande. Sa di essere bella e si mette in mostra, dispiega le sue ali di farfalla perché tutti possano ammirarle, fa sentire in colpa gli altri per non sprofondare a sua volta, ha una morale tutta sua e ne è così consapevole da odiarsi. Ma Léo porta con sé una fragilità così profonda da renderla delicata come una goccia di vetro. Qualcosa le sfugge, qualcosa nel suo rapporto con Paul non funziona, forse è lei stessa a non funzionare. Léo è un'artista che deve scoprire l'Arte della Felicità.
Genere: Angst, Introspettivo | Stato: completa
Tipo di coppia: Het, Slash
Note: nessuna | Avvertimenti: Tematiche delicate, Triangolo | Contesto: Universitario
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Nda: Buongiorno buongiorno, come state? Avete trascorso un bel ferragosto? Il mio è stato freddissimo e piovoso, ma mi sono divertita moltissimo in ogni caso. Coooomunque non siamo qui per parlare di me: come avrete notato ho cambiato il banner, come vi avevo detto: rimarrà questo fino alla fine della storia. Spero vi piaccia, volevo qualcosa di più industrial, non so se rendo l'idea. La storia è come sempre su Wattpad. In più se vi va fate un salto su Gaiman in the T.A.R.D.I.S. :)



Capitolo 22.

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Io e Jacques decidemmo che il modo migliore di introdurre George nella compagnia senza farlo sentire un disagiato sarebbe stato al cinema: dopo le prime chiacchiere ci saremmo seduti ed avremmo guardato il film – o almeno finto di guardarlo tra una battuta e l'altra – e nessuno si sarebbe sentito in dovere di parlare con altri. George si sarebbe seduto accanto a me e tutto sarebbe andato alla grande.
All'inizio avevo pensato di andarlo a prendere al lavoro e andare al cinema insieme, ma poi mi venne in mente che sarebbe risultato troppo ambiguo per noi e per gli altri, così scartai l'idea. Allora decisi di farlo venire a casa nostra, dopotutto a parte Bette abitavamo tutti sullo stesso pianerottolo, ma Manuel disse che avrebbe potuto sentirsi un po' a disagio a stare “nel nostro habitat naturale”, citazione testuale, quindi anche quell'ipotesi fu scartata.
L'unica era trovarci direttamente al cinema, ma come? Dovevamo arrivare puntuali, sperando che lui non fosse in ritardo? Perché se fosse stato in ritardo si sarebbe sentito in dovere di scusarsi e non era necessario che lo facesse. Però non potevamo presentarci noi, in ritardo, perché lui avrebbe dovuto aspettare al freddo e comunque sarebbe stato davvero orrendo, avrebbe pensato che non volevamo uscire con lui.
E in ogni caso era saggio presentarsi lì tutti insieme? D'accordo, Bette sarebbe venuta per conto suo, ma noi cinque – Marie, Jeannot, Manuel, Jacques ed io – saremmo piombati lì in massa e magari sarebbe risultato offensivo, come se volessimo escluderlo. O magari no. Però non potevo nemmeno chiedere agli altri di arrivare ognuno per conto suo.
A fronte di quello che vi ho detto, capite quanto potesse essere faticoso?
Alla fine Jacques disse che sarebbe venuto a prendere Manuel al lavoro, così sarebbero arrivati per conto loro. Io avrei fatto la strada con Bette, mentre Jeannot sarebbe venuto con Marie direttamente dal bar. Ognuno per sé e senza offendere nessuno.
A quel punto c'era un altro problema.
«Cosa mi metto?», strillai quella mattina. Avevo ancora solamente mezz'ora di tempo prima di uscire per incontrare il mio orrendo destino al Gitem – a gennaio ero nel reparto televisioni, vi lascio immaginare la mia gioia – e non avevo niente da indossare.
Jacques fece capolino dalla porta con lo spazzolino tra i denti. «Ma hai tonnellate di vestiti», bofonchiò.
«Non sputare dentifricio per terra e no, non ho affatto tonnellate di vestiti», sbottai, lanciando l'ennesimo maglione sul letto.
Manuel emerse alle spalle del suo ragazzo, cingendogli la vita con un braccio e facendo ondeggiare i rasta. Aveva ripreso il suo abituale aspetto drogatissimo. «Ma a George importerà come ti vesti, Sandwich?», domandò aggrottando la fronte. «Insomma, non siete solo amici?».
Gli avevo raccontato ogni cosa mesi prima, quando avevo iniziato a lavorare con lui al Gitem, in un momento di noia profonda. Non mi sorprese il suo commento, era appropriato.
«Tu non capisci», gli assicurai sgranando gli occhi. «Io ho bisogno di essere al meglio, chiaro? Perché se non sono bellissima non sarò nemmeno a mio agio e se non sarò a mio agio sarà una cazzo di tragedia».
«Non puoi mettere quello?», fece Manuel indicandomi un vestito bianco di lana, con il bordo in pizzo e le maniche a sbuffo, casual ed elegante allo stesso tempo.
«No, non posso», spiegai con pazienza. «Con quello dovrei mettere i tacchi, perché di scarpe basse che stiano bene non ne ho».
«E quelli?». Stava additando un paio di jeans con ricamate sopra delle perle argentate, stretti in fondo.
Li presi dall'attaccapanni e li osservai con sospetto. «Non mi ricordavo di averli. Con cosa potrei metterli?».
Jacques andò in bagno per finire di lavarsi i denti e Manuel si avvicinò al cassettone, a cui avevo sfilato tutti i cassetti per vedere meglio il contenuto. «Ma hai mai messo anche solo la metà di questa roba?».
«Certo, mica sono scema», ribattei gesticolando. «Allora? Aiuto!».
Manuel si inginocchiò sul pavimento e rovistò tra le mie maglie. «Questa felpa?».
«No, non mi piace più».
«E quel maglioncino?».
Scossi il capo. «Me l'ha regalato Paul, sarebbe di cattivo gusto».
«Allora questo».
Mi passò un pullover grigio perla scollato a V.
“Incredibile, e questo dov'era?”, mi domandai, ma non ebbi il coraggio di dirlo ad alta voce, ho ancora una coscienza. Lo presi dalle sue mani e lo accostai ai pantaloni. Non era male, non era niente affatto male: avrei potuto abbinarci un paio di Ugg grigi. No, niente Ugg, mi facevano sempre sudare i piedi. Allora le mie stringate nere: sì, decisamente un'idea migliore, mi facevano sentire sempre paurosamente alternativa e interessante.
«Wow, amico, perché non applichi queste tue immense capacità anche al tuo armadio?».
Manuel si rimise in piedi. «Perché io sono già bello, capisci, non ne ho certo bisogno. Vuoi un po' d'erba?».
Trascorsi la giornata lavorativa peggiore della mia esistenza: le ore sembravano non trascorrere, in un paio di occasioni fui certa che l'orologio stesse arretrando – ne sono ancora convinta, anche se nessuno mi crede quando lo dico – e non avevo valvole di sfogo: Bette, una dei pochi a cui non cambiavano mai reparto, era bloccata al banco dell'assistenza computer e Manuel era alle casse. Jeannot venne verso le quattro, dopo aver chiuso l'ufficio, e si finse molto preso da un televisore al plasma da ottanta pollici, così mi tenne compagnia per un po', ma ero comunque agitata e lui doveva andare da Marie.
Alle otto Bette mi venne a recuperare. Andammo a cambiarci in bagno, poi pensammo che fosse meglio mangiare qualcosa, ma io avevo lo stomaco chiuso e non riuscii nemmeno a bere un the.
«Scusa, Léo, ma di che ti preoccupi?», domandò Bette.
«E se non vi piacesse?», domandai appoggiando il contenitore del take away asiatico per terra, senza averlo toccato. Faceva freddo sulla panchina, ma era meglio così, non volevo certo sudare, che schifo. «Cioè, è impensabile che non vi piaccia, è così carino. Però io...».
Mi interruppe minacciandomi con le bacchette. «Non dire cazzate, andrà tutto bene, vedrai».
Arricciai le labbra: magari mi ero truccata troppo? Era solo un cinema, dopotutto. «Bette, parliamo d'altro. Dimmi qualcosa su di te».
La vidi ridacchiare e arrossire. «Beh, c'è una cosa, ma volevo dirtela dopo per non distrarti».
Rimasi colpita da quell'accortezza. «Oh, che cosa?».
«Sai, ho iniziato ad uscire con un uomo...».
«Bette, è fantastico! Perché non me ne hai parlato?».
Si strinse nelle spalle. «Non volevo dirlo perché temevo potesse andare male, ma lui sembra un tipo sincero. Non bada al mio aspetto».
Bette era, a mio parere, molto bella. Aveva un viso dolcissimo, forse un po' sovraccaricato di eyeliner, ma dai lineamenti distesi e delicati. Aveva dei denti praticamente perfetti, bianchissimi, per i quali probabilmente aveva dovuto portare l'apparecchio per anni. Ed aveva una risata cristallina e coinvolgente. Però viveva il problema del suo peso come una specie di castigo. Vi avevo detto che aveva sofferto di bulimia, da ragazzina. Ora, a trentacinque anni suonati, era considerata nello stadio dell'obesità. Faticava a fare le scale, per questo cercavamo sempre di intercettare l'ascensore per lei quando sapevamo che doveva venire a trovarci, ed io sapevo bene che la ragione per cui non aveva mai voluto fare shopping con Marie e me era che non avrebbe trovato nulla della sua taglia. In un paio di occasioni Sophie, quella stronza del nostro capo, l'aveva perfino fatta piangere.
Non mangiava particolari schifezze, nel senso che non è che fosse sempre al Burger King. Certo che i dolci non mancavano mai alla sua tavola, erano anche troppi, per non parlare delle salse e cose del genere. Tendeva a sbranarsi un triplo hamburger con patatine e Coca-Cola quando era nervosa.
Al di là della salute, a noi non cambiava niente, ma sapevamo che faceva fatica ad accettarsi e a farsi accettare da un uomo.
Non avevo parole per esprimerle quanto fossi felice per lei. Aveva quasi le lacrime agli occhi quando mi raccontò di Henry, un tipo sulla quarantina che aveva conosciuto in un pub prima di Natale e che aggiustava caldaie.
«Non è perfetto, è vero», disse rovistando nel suo contenitore di riso alla cantonese, «ha un po' di pancetta ed è pieno di lentiggini, ma è gentile. Lui non mi guarda come fanno gli altri».
«Bette, sono talmente contenta», mormorai accorata. «Vorrei conoscerlo, se ti può far piacere. So che potrei essere sua figlia», aggiunsi ridendo e notai che anche lei rideva, «ma se la vostra relazione lo permette, sarebbe bello».
Lei annuì, scostandosi il ciuffo rosa dalla fronte. «Pensavo di chiedergli di venire, la prossima volta che ci vediamo».
«Sarebbe perfetto! Pensa, sono così felice per te che ora ho fame».
«Léo, credo di doverti dire una cosa».
Le sorrisi. «Cosa?».
«So di essere un'adulta, ma l'ho fatto pochissime volte prima. Sesso, intendo».
Sospirai. Non ero certa di essere la persona più saggia a cui chiedere consigli a riguardo. «Hey, non ti devi giustificare».
«Non lo faccio», rispose lei. «Dico solo che trovo molto difficile andare oltre, so di non essere una silfide».
«E con Henry pensi che succederà?».
Bette annuì, con un sorrisino contento e gioioso come una ragazzina al primo appuntamento. «A lui non importa. E se siamo insieme, non importa neanche a me».
Le strinsi le spalle in un abbraccio e la baciai sulla tempia. «Bene», dissi a bassa voce. «Bette, è davvero bellissimo».
Lo era davvero, lei sembrava brillare, come se le avessero versato in testa un barattolo di glitter.

 

***

Alla fine il tanto temuto momento dell'incontro andò bene. Bette ed io arrivammo con qualche minuto di ritardo perché non avevo voluto cenare in metro – va bene che ero cambiata, ma non fino a quel punto – e quando arrivammo mancavano solo Marie e Jeannot.
George parlava con Manuel mentre Jacques si fumava una canna. Quando lo vidi per un attimo mi arrestai. Stava ridendo: adoravo il modo in cui rideva, piegando la testa all'indietro e strizzando gli occhi. Un modo di ridere non molto di classe, ma a me piaceva.
Era più basso di Manuel, ma ormai avevo smesso di farci caso. Calata in testa aveva una cuffia di un bel rosso borgogna, di lana, che gli ricadeva sulla nuca.
«Oh, scommetto che quella cuffia è piena dell'odore dei suoi capelli», mormorai mentre ci avvicinavamo.
Bette mi diede un colpetto con la mano. «È un pensiero troppo erotico per due che vogliono essere solo amici».
Aveva ragione, dovevo piantarla di avere pensieri impuri su di lui. Avanzammo con calma, io mi finsi del tutto padrona di me stessa e George, quando mi vide, mi salutò come avrebbe fatto con un amico.
Ero un po' schifata, lo ammetto: mai in tutta la mia vita mi ero anche solo lontanamente avvicinata alla friendzone, figuriamoci piombarci con terrore come i poveracci spinti nel pozzo nel film 300. Però dovevo fare buon viso a cattivo gioco, era necessario se volevo che restasse.
«Hai conosciuto Manuel», esordii. «Lei è Bette, lavora con noi».
George le strinse la mano e, mi parve, la guardò in modo molto strano. Non scortese e neppure come se la conoscesse. Era solo strano.
«Ciao, piacere».
«Piacere», rispose lei. «Léo mi ha parlato moltissimo di te».
«Beh, moltissimo», biascicai cercando di darmi un tono. «Non esageriamo».
Marie e Jeannot arrivarono bisticciando. O meglio, lei bisticciava e lui ascoltava senza realmente infuriarsi. Marie starnazzava qualcosa riguardo i vestiti lasciati in disordine e Jeannot la abbracciò ridendo. «Quanta pazienza ci vuole con te, donna», lo udimmo borbottare.
«Ah, George!», cinguettò lei non appena lo vide. Avevamo avuto una paurosamente lunga conversazione quella mattina, durante la quale le avevo imposto di non farmi fare figure di merda. Lei sembrava aver esagerato nel senso opposto. «Quanto sono contenta di vederti! Come stai?».
«Benone, grazie, Marie».
Jacques, che si era goduto la scena in silenzio, batté le mani chiuse nei guanti. «Bene, ora che siamo tutti amiconi potremmo anche entrare, inizio a surgelarmi le chiappe».
Lo seguimmo dentro. Non era un grande multisala, era un piccolo cinema con appena tre sale di proiezione che costava molto poco, perché dava film fuori catalogo. Però le caramelle venivano da un negozietto molto carino, vecchio stile, Marie ed io le adoravamo.
«Allora», sospirò lei fissando il tabellone con i suoi occhioni, «possiamo scegliere tra Braveheart, Mangia prega ama e quella commedia norvegese, Happy Happy».
«Oh, vi prego, andiamo a vedere Mangia prega ama!», supplicai.
«Ma è una gran palla», fece Manuel. «Io voto per Happy Happy».
Jacques lo fissò di sottecchi. «Ma è norvegese».
«E quindi?».
«Dico, è norvegese».
Una donna molto carina al di là del vetro della biglietteria attirò la nostra attenzione con uno schiocco di dita. «Non per intromettermi, ma Happy Happy è già iniziato da venti minuti», spiegò, «e se scegliete Braveheart avete diritto ad uno sconto, perché è l'ultima sera di proiezione».
Non è che fossimo tirchi, ma avevamo tutti le bollette da pagare e alla fine optammo per Braveheart. La sala non era grande, ma non c'erano molte persone e ci piazzammo in ultima fila. George si sedette tra me e Manuel, che sospetto fosse quello che lo spaventava di meno tra tutti.
«Pronta?», domandò quando le luci si spensero.
«Aspetto con ansia la scena in cui mostrano il culo», ridacchiai, infilando una mano nel sacchetto di caramelle che, lo ammetto, avevamo deciso di condividere. So che erano solo caramelle, ma il fatto di averle comprate insieme mi aveva dato una scossa di adrenalina.
Iniziò a srotolare una rotella di liquirizia. Con la coda dell'occhio lo fissai durante tutta l'operazione, i nostri volti illuminati dalla luce dello schermo.
Stringeva la stringa nera tra i denti, tirandola con le dita e inarcando un angolo del labbro superiore. Era terribilmente eccitante: non perché lui fosse il più bello di tutti o perché ci fosse qualcosa di molto sensuale nel masticare una caramella, ma perché era lui, perché mi ricordava noi, perché era con quelle labbra che mi aveva baciata e con quei denti che mi aveva pizzicato la pelle. Dio solo sa cosa avrei fatto con quella lingua o con quelle mani.
Avrei dato qualsiasi cosa per essere quel pezzo di liquirizia, giuro.
Scivolai più giù sul sedile, portandomi le ginocchia al petto. Poco più in là sentivo le risatine di Marie – Jeannot probabilmente le stava mormorando porcate all'orecchio – mentre Manuel e Jacques, più discreti, si limitavano a stringersi la mano e a scambiarsi di tanto in tanto qualche occhiata. Bette era talmente presa dal film che se avesse avuto Johnny Depp nudo davanti a sé gli avrebbe detto: “Spostati, non vedo”.
E noi stavamo lì, in silenzio.
George non sembrava imbarazzato. Anzi, aveva tutta l'aria di essersi finalmente tranquillizzato riguardo la nostra situazione. Come faceva? Avrei dovuto chiederglielo, perché io proprio non ce la facevo.
Fu allora che, con sgomento, pensai che avesse smesso di amarmi. Doveva aver smesso tempo prima, per questo non stava male quanto me. Chiusi gli occhi, sentendo che improvvisamente bruciavano, mentre un doloroso groppo in gola mi impediva di respirare. Non potevo piangere lì, in mezzo agli altri, ma sapevo che al minimo sospiro avrei annaspato alla ricerca di ossigeno e mi sarei tradita.
È il tipo di pianto più orrendo, perché cerchi di trattenerlo, vai in apnea totale e le palpebre si chiudono per impedire alle lacrime di cadere, mentre un blocco all'altezza della gola non ti fa più parlare ed il cuore nel petto fa così male da farti desiderare di strappartelo via.
Non c'era nessuno alla mia destra, ero nell'ultimo sedile della fila. Mormorai un rapido: «Torno subito», e mi alzai in fretta, correndo verso l'esterno. Uscii dalla sala, attraversai l'androne della biglietteria e mi fiondai in bagno.
Aprii i rubinetti, ma non avevo davvero intenzione di sciacquarmi il viso. Mi bastava vedere l'acqua scorrere, in qualche modo ebbe l'effetto di un calmante. Mi fissai allo specchio, nel tentativo di capire cosa mi passasse per la testa.
Era ovvio che, evidentemente, non riuscivo ad essergli amica. Mi erano bastati venti minuti al suo fianco per sentirmi morire dentro al pensiero che lui non mi amasse più. Ciò che avevo nel corpo era sprofondato sottoterra ed era rimasto solo un involucro vuoto.
«Lui non mi ama più», sussurrai al bagno vuoto. Ed era molto peggio di “non mi ama”. Se non fosse mai successo, se tra noi le cose avessero preso una piega differente fin dal principio, lo avrei accettato. Ma il rimpianto per aver perduto per sempre quel sentimento... Era orribile. Ed era colpa mia. Ero solo io quella da biasimare e non c'era altro da dire.
Guardai verso l'alto, sbattendo le palpebre per ricacciare indietro le lacrime. Improvvisai un paio di sorrisi allo specchio e stiracchiai i muscoli del viso, ravvivandomi i capelli con le mani. Sì, era una bella faccia da culo con cui andare in giro, la mia, potevo ritenermi soddisfatta. Non avrei destato alcun sospetto.
Uscii dal bagno e praticamente gli andai a sbattere addosso. So che sembra fatto apposta, ma capitò e basta.
«Hey, credevo ti fossi persa».
Sorrisi, fingendomi calma, anche se dentro di me avrei voluto ucciderlo. Era una menzogna, ma al diavolo la mia regola, tanto prima o poi l'avrei infranta, era solo questione di tempo. «No, avevo solo bisogno del bagno. Torniamo dentro?».
Non so se fece finta di niente o se davvero non colse la sfumatura nella mia voce, il tono incrinato con cui parlai. Comunque non fece una grinza. «Prima di entrare volevo farti una domanda».
“Oh, no, ti prego”. «Spara».
«Da quando prende gli antidepressivi, Bette?».
Lo guardai incredula e incrociai le braccia. «Cosa?».
«Bette, la tua amica», fece lui. «Da quanto tempo li prende?».
«Io...», esitai, ancora scossa per il tipo di domanda. «Beh, George, non lo so. Non sapevo nemmeno che ne prendesse».
«Dopo aver pagato il biglietto ho visto che prendeva un blister dalla borsa».
«Magari aveva mal di testa».
George sospirò. «Mia madre ne ha presi per un po', dopo essere entrata in menopausa», disse facendo spallucce. «Ho riconosciuto il nome, era Efexor».
«Efexor?», ripetei.
Lui annuì. «Venlafaxina», spiegò, come se questo fosse un chiarimento più che sostanzioso. «Può dare gravi sintomi di astinenza e... E altre cose».
Non avevo la minima idea di cosa stesse dicendo, ma il succo del discorso era chiarissimo: Bette prendeva un farmaco per tenere a bada la depressione. Perché? E, soprattutto, perché non lo sapevamo? Perché io non lo sapevo? All'improvviso i miei problemi mi sembrarono delle vere sciocchezze. Fissai gli occhi azzurri di George con apprensione.
«Beh, ovviamente sarà stata da un medico», mormorai con voce tremula. «Altrimenti come potrebbe procurarselo?».
«Non ne dubito», disse lui. «Hai ragione».
«Hai detto che, oltre all'astinenza, può provocare altro. Che cosa?».
Scosse il capo e sorrise. «Niente, davvero. Come hai detto tu, Bette deve aver visto un medico o non avrebbe iniziato a prendere quella roba».
Mi morsi il labbro inferiore. «Dovrei chiederglielo?».
«No». Fece un gesto di diniego. «È una cosa molto privata, se avesse voluto dirtelo lo avrebbe già fatto».
«Ma hai un tono preoccupato».
«Parliamo di psicofarmaci, non di patatine!».
Mi portai le mani alle labbra, impaurita. «Oddio, Bette... Come ho fatto a non rendermene conto?».
«Sospetto sia da parecchio che prende l'Efexor, altrimenti si noterebbe subito», rispose lui. «Mia madre era intrattabile, all'inizio. Sbalzi d'umore, crisi di pianto. Non aveva più appetito. Poi si è stabilizzata, ma ci è voluto un bel po'».
«Lo prende ancora?».
«No, ha smesso, era solo un bisogno momentaneo».
Mi guardai intorno, non so cosa cercassi. Era come se sperassi che nell'ambiente ci fosse qualcosa che potessi usare per aiutarla. Bette era diventata parte della nostra compagnia da poco, ma aveva trascorso con noi il giorno di Natale e le volevamo tutti molto bene. Ci eravamo affezionati, non ci voleva molto per amare una persona come Bette. Era qualcosa di così contrastante con ciò che mi aveva detto prima, Henry e il resto.
«È assurdo», sussurrai. «Solo un'ora fa stavamo ridendo e scherzando insieme. Non avrei mai creduto...».
«Non andare nel panico», disse George. «Non è necessariamente una cosa grave, lo sai».
«D'accordo», berciai, «ma è comunque una mia amica e mi preoccupo! Adesso torniamo dentro prima che qualcuno dica che abbiamo scopato nei bagni».

   
 
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