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Autore: Persej Combe    17/08/2015    2 recensioni
Un giorno, tanto tempo fa, ho incontrato un bambino. Non lo dimenticherò mai. È stato il giorno più emozionante di tutta la mia vita. Nessuno potrà mai avere la stessa esperienza che ho avuto con lui. Ciò che abbiamo visto, è precluso soltanto a noi.
...In realtà, non ricordo neanche il suo nome. Non ricordo nemmeno se ci siamo presentati, a dire il vero. Però non smetterò mai di cercarlo. Un giorno so che le nostre mani si uniranno di nuovo, come quella volta. Perché noi siamo destinati a risplendere insieme per l’eternità.

[Perfectworldshipping]
Genere: Drammatico, Introspettivo, Sentimentale | Stato: in corso
Tipo di coppia: Het, Shonen-ai, Shoujo-ai | Personaggi: Elisio, Professor Platan, Serena
Note: Missing Moments, OOC | Avvertimenti: Tematiche delicate | Contesto: Videogioco
Capitoli:
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- Questa storia fa parte della serie 'Eterna ricerca'
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Stavolta ci ho messo un po' di più... ma sempre meglio di sei mesi, no?
Ciao a tutti, come stanno andando le vacanze? Avete passato un bel Ferragosto? Spero proprio di sì! ^^
Ultimamente mi capita di scrivere capitoli 
mostruosamente lunghi. Anche questo è mostruosamente lungo (poco più di 20 paginone di Word *aiuto*), così, visto che accadono un sacco di cose e che potrebbe essere un po' difficile da seguire tutto insieme, ho pensato di dividerlo in due parti.
Il perché del titolo lo capirete tra qualche giorno, quando metterò la seconda parte ^^  Fra qualche giorno per davvero, giuro, è già tutto pronto, non dovete preoccuparvi 
Per ora non ho altro da aggiungere, se non augurarvi una buona lettura! 
Un abbraccio a tutti!
la vostra Persღ



..

19 . Nella foresta buia
(Prima parte)


 

   Nel salone ampio e spoglio la notte faceva silenziosamente il suo ingresso. La luce della luna che s’insinuava dalla finestra accennava i contorni degli oggetti che vi erano dentro. Un basso tavolo, un divano, un pianoforte. Tutto il resto rimaneva nascosto nell’ombra, restio ad essere esposto all’attenzione. Si sentì un tintinnio di vetri, di bicchieri che si scontravano.
   «Io lo ricordo ancora», diceva l’uno con voce bassa «Era una mattina di fine estate. Portavi quegli occhiali così grandi da celare a tutti i tuoi occhi... Ti vergognavi forse che te li guardassero? Avevi paura che te li strappassero e portassero via?».
   «Il mondo pareva meno brutto con quegli occhiali addosso», ribatté flebile l’altro, sistemandosi la mantella rossa sulle spalle. Nonostante fosse un po’ piccola, era sufficiente affinché lo tenesse al caldo. Poggiò la testa sulla spalla dell’altro e dopo aver mandato giù un sorso di vino sospirò. Alzò la testa e vide lo sguardo di lui infisso sulla finestra. La tenda agganciata al balcone del palazzo di fronte si era staccata e il tessuto si rigonfiava in numerose pieghe.
   «Si è alzato il vento», commentò l’uomo.
   «Non è strano un vento così forte in questo periodo?».
   «Anche quel giorno c’era un forte vento. Per una mattina d’estate era piuttosto inconsueto».
   «Sei proprio sicuro che fosse d’estate? E se fosse stato autunno?».
   «Era estate. Le foglie cominciavano a imbrunire, ma era ancora estate».
   Mentre parlava, sentì la mano di lui passare piano sul proprio petto, il dito che scorreva con lentezza lungo la linea dei bottoni della camicia. Aveva il viso stanco, lui, i ciuffi scuri gli incorniciavano il volto ricadendovi sopra con pesantezza.
   Fine estate, inizio autunno. Che differenza c’era? Era così importante riportare alla memoria la natura di qualcosa che non era mai esistito? Gli sembrava solo una grande, inutile perdita di tempo. Uno sciocco capriccio. Allontanò la mano dal suo petto e la allungò distrattamente verso il tavolo, volendo riafferrare il bicchiere per mandare giù qualche altro sorso.
   «Io ho visto le vite delle genti passate», disse l’altro ad un tratto osservando le dita della sua mano destra intrecciate alla lana della mantella, come perduto in qualche riflessione «Ti dico che non è un caso, Platan. Noi fummo scelti per vivere questo destino».
   «Elisio,» disse piano e pazientemente, il bicchiere gli scivolò dalle dita e cadendo a terra si ruppe, il vino rosso stagnava in una pozza sul pavimento marmoreo, ma fu come se lui non se ne fosse accorto «non l’hai ancora capito che è stato tutto solo e soltanto un sogno?».
 
 
   Si erano evitati in qualunque modo nelle settimane precedenti. Platan aveva di punto in bianco smesso di frequentare la caffetteria, mentre Elisio, nonostante continuasse a versare i propri contributi per la riparazione ormai in fase di conclusione del Laboratorio, di rado si mostrava alla sua porta. Siccome tuttavia i due luoghi non si trovassero così distanti l’uno dall’altro, accadeva che di tanto in tanto si incrociassero lungo Viale Estate durante le compere o semplicemente nello spostarsi da un posto a un altro della città. Platan era sempre attorniato da qualche donna con molta probabilità invaghita di lui, mentre Elisio solitamente usciva con uno a caso fra i suoi dipendenti che lo accompagnasse qui o lì per le proprie incombenze di Capo Flare.
   Quando si incontravano o anche solo se s’intravedevano in mezzo alla folla non potevano fare a meno di osservarsi. Si arrestavano in mezzo alla strada e si scrutavano. Gli occhi a quel punto cominciavano a gridare il proprio supplizio, a rivendicare il possesso l’uno dell’altro, e loro si voltavano per zittirli.
   Quando Elisio lo vedeva fuori in compagnia, Platan aveva sempre il sorriso sulle labbra. Platan era per natura un uomo solare e felice per la maggior parte del tempo, perciò non si sarebbe dovuto sorprendere di una cosa simile. Eppure sapere che quelle risa non erano più riservate a lui, né nascevano per lui, per essere contemplate così spontanee e belle dal suo sguardo rapito, colmo di attenzione, di ammirazione, di amore, lo mandava in contro ad una irrefrenabile, infantile gelosia, come se qualcuno gli avesse strappato dalle mani il suo tesoro più prezioso. E non serviva a niente ripetersi che era da stupidi, che Platan non era una sua proprietà e che poteva fare tutto quello che gli pareva, che a più di trent'anni era sciocco provare un simile sentimento, che era da bambini nonostante da bambino non lo avesse esattamente provato allo stesso modo. La verità era che sentiva un vuoto dentro, che scavava nelle sue viscere di giorno in giorno sempre di più. Sapeva fin troppo bene che solamente lui avrebbe potuto riempirglielo di nuovo, ma era troppo orgoglioso per ammetterlo ad alta voce. E soffriva come un miserabile idiota, prigioniero dei suoi stessi sentimenti.
   Platan dal canto suo non riusciva a contenere una sensazione di malinconia e di rimpianto dentro di sé. Non era nei baci, né nelle notti passate a fare l’amore che sentiva una certa mancanza, ma in tutto il resto che avevano vissuto insieme, nelle parole, negli sguardi, nei silenzi, perché sapeva che nessun altro sarebbe stato in grado di dargli quello che Elisio era stato capace di donargli attraverso i gesti più semplici. Rivoleva indietro la sua aria imponente, le sue maniere composte ed eleganti. Quando la mattina si alzava dal letto ed entrava in cucina provava una sensazione di avvilimento nel non sentire più l’odore di caffè aleggiare nell’aria, nel vedere nel lavandino le scodelle e le pentole ancora incrostate di cibo dalla sera prima che emanavano un odore acre e maleodorante. I fiori che Elisio gli aveva regalato quella notte in cui aveva dimenticato le chiavi da lui si erano lentamente appassiti, nonostante le sue continue cure e attenzioni. Il suo appartamento era diventato l’emblema della desolazione che albergava nel suo animo.
   Dopo aver passato attimi interminabili a riflettere sulle vicende passate specchiandosi negli occhi dell’altro, come se nulla fosse accaduto riprendevano le proprie strade, le quali, mano a mano che passavano i giorni, sembravano allontanarsi sempre di più l’una dall’altra.
 
   Così separati, il mondo sembrava non aver poi così tante speranze di diventare perfetto, Arma Suprema o meno.
 
 
   Aveva alzato l’asta del giradischi, quello che Elisio gli aveva regalato durante l’ultimo Natale, e aveva messo un disco di musica swing che aveva ricevuto in eredità dai suoi genitori. Avrebbe voluto passare in qualche negozio di musica per comprarne altri, ma per il momento, diceva, andava bene così, non era una necessità impellente. Si ricordava quando suo padre tornava la sera dal lavoro e prima di andare a letto si attardava con sua madre a ballare qualche passo in salotto. Mentre fuori dalla finestra la calma regnava sovrana fra le strade di Ponte Mosaico, la loro casa si riempiva di risate e note allegre, scandite di volta in volta dallo scattante battito dei tacchi che calpestavano il pavimento. Platan solitamente si sedeva sulla poltrona stringendo il suo fidato peluche di Teddiursa tra le braccia e osservava i genitori, cercando di mimare le loro mosse scuotendo in aria l’orsetto. Poi, stanco, si accoccolava fra i cuscini e masticando un pezzetto di cioccolata sgraffignato di nascosto dalla credenza si addormentava. A quel punto lo travolgeva l’odore di sapone intriso nei capelli della madre che tenendolo in braccio lo metteva a letto e nel sonno sentiva le sue mani accarezzarlo piano e rimboccargli le coperte. Di quel periodo aveva un ricordo felice dei momenti passati in famiglia. Crescendo anche lui aveva piano piano incominciato a destreggiarsi con qualche passo di danza, così, quando suo padre se n’era andato, aveva preso il suo posto e ricordava con dolcezza quei minuti in cui, durante il pomeriggio, tornando da scuola, una sensazione d’affetto infinito gli riempiva il petto e lo spronava a correre più veloce per rincasare il prima possibile, nell’attesa di poter ballare con sua madre per farla contenta, per rendere ancora viva in lei la memoria del marito scomparso così all’improvviso. Gli era dispiaciuto, poi, abbandonare quell’usanza che gli era così cara nel momento in cui si era messo in viaggio per studiare presso il Professor Rowan e – ma questo era un segreto – per poter finalmente ritrovare quel bambino che aveva incontrato quel giorno, tanto tempo fa. Ma, come aveva detto anche a Diantha: «È arrivato il momento per me di fiorire!», e non voleva ritardare più a lungo l’evento che lo avrebbe reso un adulto, o almeno così pensava.
   Ed eccola, Diantha, vestita di bianco e ornata a festa, che miserabilmente si chinava a terra per raccogliere le bottiglie di alcolici che aveva lasciato sparse sul pavimento in mezzo al disordine in cui si conservava il suo appartamento. In quel quadretto, pensava Platan, appariva davvero come una perla gettata in un porcile, e il porcile era la sua casa, e allora lui doveva essere il porco, e quest’idea lo ripugnava. Era passato più di un mese da quando si era allontanato da Elisio e in quel lasso di tempo non aveva fatto altro che pensare a Floette, all’Arma Suprema, ad AZ, alla profezia di Astra, agli incubi che lo tormentavano continuamente, al destino che lo avrebbe travolto e che inevitabilmente avrebbe condannato Elisio per l’eternità. Anche lui, ormai, si sentiva coinvolto e macchiato da quei pensieri e ne soffriva, si sentiva colpevole, si sentiva lui stesso un criminale, un misero porco che approfitta della gentilezza di chi gli è intorno per nascondere un indicibile delitto che ha commesso. E Diantha era la perla che stringeva avidamente nelle zampe nella sciocca presunzione di sentirsi uguale ad essa, di assomigliarle, così pura e innocente, inconscia di ogni cosa.
   «Diantha, ti prego, lascia perdere», le disse, non riuscendo più a contenere il fastidio «Il vestito ti si rovinerà, e sarebbe un peccato».
   La donna scosse la testa e, ammucchiando una manciata di lattine sul tavolo, ribatté con un sorriso dolce impresso sulle labbra colorate di rosso: «Tu, piuttosto, vai a prepararti. Sei ancora conciato così, faremo tardi. Qui ci penso io».
   Platan provò ad opporsi, ma lo sguardo di Diantha, così amorevole eppure severo nella freddezza dei suoi occhi chiari, messi in risalto dalle folte sopracciglia scure che si arcuavano al di sopra di essi, lo distolse da ogni tentativo. Malvolentieri si ritirò nella propria stanza e si apprestò a prepararsi per la serata.
   Diantha aspettò di sentire il secco sbattere del richiudersi della porta e si abbandonò a un debole sospiro. Si girò verso il tavolo e vide la grande quantità di bottiglie e lattine che aveva raccolto. Le osservò con un’aria tra il disgustato e l’irritato, tra il rabbioso e il dispiaciuto. Prima era stata in bagno per lavarsi le mani e aveva notato quanto, stranamente, quella fosse l’unica stanza in tutta la casa ad aver ricevuto una pulita decente. Però nell’aria, nascosta in mezzo ad un eccessivo e invadente odore di limone probabilmente dovuto ad un uso spropositato di saponi e detersivi volto a coprire il tanfo, non aveva potuto fare a meno di avvertire un fetore di cui non aveva tardato a comprendere l’origine. Sottile, quasi impercettibile, ma pungente e nauseabondo una volta scovato. Prese i vetri e le latte e con una smorfia le gettò nel secchio. E quando lo andava a trovare la mattina al Laboratorio, lo trovava sempre in uno stato un po’ malmesso, nonostante si sforzasse di non darlo a vedere, e spesso accusava dolori alla testa e aveva un aspetto stanco e affaticato.
   «Sei sicuro di stare bene?» gli chiedeva allora.
   «Benissimo!» rispondeva lui con uno dei suoi sorrisi.
   Strinse le labbra rosse e incrociò le braccia al petto. Ma che aveva? Possibile che la rottura con Elisio lo avesse ridotto così male? Più volte aveva cercato di chiedergli e venire a sapere che cosa fosse successo quella sera al Caffè, quel giorno in cui il Team Flare era stato intravisto sulla Strada dei Menhir. Lui aveva sempre sviato il discorso e aveva commentato il fatto con una risata velenosa senza mai scendere nei dettagli. Le faceva una rabbia! Detestava quando Platan, in preda al rancore e al dolore, si lasciava andare malamente in maniera così semplice. Dal fiore bellissimo che era, si appassiva d’improvviso e si trasformava in erbaccia. Lei tentava di offrirgli il suo aiuto, ma lui lo rifiutava e finiva con il cadere in un impietoso circolo vizioso che lo consumava rapidamente e ferocemente. Provava compassione per lui e si sentiva impotente quando le impediva di prendersi cura di lui. Aveva provato a parlarne con Elisio pensando che forse avrebbe saputo aiutarlo meglio di quanto lei avrebbe potuto fare, ma anche da lui non aveva ricevuto altro che silenzio, e la sua richiesta era stata più volte ignorata.
   «È proprio uno sciocco ragazzino», aveva appena commentato una volta, e a Diantha era sembrato di udire una nota di biasimo nelle sue parole, ma non poté trovarne conferma nel suo atteggiamento, perché quel viso era diventato più invalicabile che mai.
   Sentì Platan chiamarla e lei si voltò: era pronto. Velocemente chiusero casa e spensero le luci, poi scesero i tre piani per andare a prendere la macchina.
   Erano entrambi eleganti e belli. Mentre Platan teneva aperto lo sportello per Diantha e l’aiutava ad entrare tenendole una mano, sentì qualche sguardo addosso e la spregevole sensazione di essere additato con insistenza da qualcuno, di essere forse deriso e giudicato. Era sera, ma ancora c’era gente che si attardava per le vie a parlare e a salutarsi. Qualcuno si era fermato per osservarli, si accorse Platan, si chiese se non li avessero erroneamente scambiati per una coppia nel mezzo di un appuntamento. Non se ne curò granché, anzi, ultimamente non teneva più molto in conto il giudizio che gli altri si sarebbero potuti fare di lui. Silenziosamente salì in macchina e si affrettò a mettere in moto l’auto, infine partirono alla volta del Percorso 5.
   Diantha stava taciturna con lo sguardo rivolto in avanti, scrutava la strada vuota su cui di tanto in tanto vedeva sfrecciare una macchina solitaria e nel mentre si figurava chi avrebbe incontrato a Reggia Aurea e il modo in cui avrebbe salutato ognuno, i complimenti, i ringraziamenti.
   «Con chi ballerai, questa sera?» chiese a un tratto.
   «Non so. Mi sono stati fatti un sacco di inviti questa settimana, ma ancora non ho preso una decisione».
   «Non sono affatto sorpresa. Solitamente non vieni mai a questi ricevimenti, perciò è normale che abbia destato molto scalpore. Nessuno si farebbe sfuggire un giro di balli con il Professor Platan».
   L’uomo abbozzò un sorriso. In effetti, il discorso di Diantha non faceva una piega. Di rado si presentava a questo tipo di festeggiamenti, ed anche stavolta non ne aveva trovato una grande attrattiva: soltanto un motivo lo aveva spinto a partecipare.
   «A Elisio non piacciono», spiegò e s’accorse che in questo modo stava anche confutando l’unico motivo della sua venuta. Socchiuse gli occhi per un secondo, fu come se per un attimo si fosse allontanato dal volante per rifugiarsi in un posto misterioso e lontano, poi tornò a concentrarsi sulla guida.
   «Ballerai con me?».
   «Se tu vuoi, mi farebbe piacere», disse con sincerità, ma si accorse tristemente di quanto la sua voce fosse suonata vuota e poco persuasa, così si chiese se non l’avesse involontariamente offesa. In realtà sarebbe davvero stato felice di ballare con lei.
   Oltrepassarono una serie di cartelloni pubblicitari che avvertivano dello sconto che una panetteria nelle vicinanze offriva in quei giorni, un altro invece cercava di attirare clienti in un’agenzia turistica mostrando un meraviglioso paesaggio marittimo con dei bambini che giocavano sulla spiaggia, un altro ancora pubblicizzava una marca di caffè: c’era una donna avvenente che poggiando le labbra su una tazzina ammiccava con un sorriso all’osservatore. Ad un tratto imboccarono una via ai cui margini, sui muri, erano incollati alla rinfusa e addossati gli uni sugli altri diversi manifesti di propaganda del Team Flare. Molti erano stati strappati o coperti con scritte e scarabocchi. Inevitabilmente Diantha ritornò con la mente al giorno in cui Platan ed Elisio avevano deciso di allontanarsi. Tuttavia, non aveva mai pensato di collegare i due fatti avvenuti quel giorno: non avrebbe neanche potuto immaginare quanto potessero essere in relazione.
   «Che cosa sta succedendo, Platan?» domandò con voce seria.
   L’uomo la vide così accigliata e pensierosa, ma non intuì quale fosse il bersaglio a cui ambiva con quella domanda.
   «Di cosa stai parlando?».
   «Fra te e Elisio, Platan! Che cosa sta succedendo?» alzò la voce scuotendo convulsamente le mani e inarcò ancora di più le sopracciglia, le guance si erano leggermente colorate nell’esternare quel poco di rabbia.
   Il semaforo divenne rosso e Platan frenò bruscamente l’auto lasciando un lungo solco nero sull’asfalto.
   Si voltò verso Diantha e vide il suo viso grazioso offuscarsi, le labbra serrate in una curva dura e greve, gli occhi azzurri turbati e lucenti di apprensione.
   «Diantha,» disse nel tono in cui si comincia un preambolo per un discorso le cui parole non vogliono concludere nulla.
   «Io non capisco», lo interruppe la donna stringendo le braccia al petto, la testa bassa, la voce affievolita in un sussurro tremante «Io ci sono sempre stata, per te. Ti ho sostenuto, ti ho incoraggiato, ti ho consolato nei momenti in cui non serbavi più alcuna speranza. Ho sempre cercato di aiutarti, tu per me eri come un fratello, e speravo in qualche modo di essere a mia volta una sorella, per te. Ma adesso perché? Perché non mi permetti più di aiutarti? Sei cambiato, Platan... Tu e anche Elisio... Ha cominciato a fare quegli strani discorsi e ogni volta che lo sento non posso fare a meno di provare una sorta di paura per le sue parole. Sì, di paura! Come se nelle sue belle frasi piene di valori fossero in realtà nascosti dei messaggi turpi... E con il Team Flare in giro, io temo che in qualche modo possa finire nelle loro grinfie e...».
   Mentre Diantha continuava a confessargli le sue angosce, Platan la osservava silenziosamente e non poteva cacciare via un senso di compassione nei suoi confronti. Era davvero così preoccupata per lui, per loro? Oh, Diantha, cara e dolce Diantha! Avrebbe volentieri accettato il suo aiuto, ma purtroppo le cose non sarebbero più potute tornare come prima. Ormai il destino era segnato. Sarebbe stato meglio per lei dimenticarsi di entrambi e lasciar perdere due uomini come loro, che, in segreto e di nascosto, sapevano fatti che di certo non avrebbe approvato. Si chinò su di lei e la strinse nelle braccia con amorevolezza. Diantha era una perla. Bisognava tenerla pura e limpida, senza sporcarla di fango o altre sporcizie. La baciò sulla fronte e le accarezzò i capelli bruni sentendo il loro profumo di pulito e la loro morbidezza.
   «Diantha,» le disse all’orecchio, stavolta tenero e con delicatezza «ti ringrazio per il tuo affetto. Sapessi quanto per me è prezioso... Purtroppo però non c’è nulla che tu possa fare, stavolta. Ma non ti accorare: stai pur certa che ogni cosa si sistemerà. Andrà tutto bene, alla fine. Andrà tutto bene».
   Bugiardo.
   Si sentì talmente meschino nel pronunciare quelle parole, nel prenderla in giro. Ma non voleva perderla. La sentì calmarsi e lasciarsi andare tra le sue braccia: com’era leggera e minuta! Le diede un’ultima carezza e infine si allontanò. Sul semaforo si era accesa la spia verde. Ripartì.
 
 
   La Reggia Aurea era in festa, quella sera. Era uno di quei soliti festeggiamenti che venivano fatti per riunire di volta in volta le più importanti figure della regione. C’erano attori, celebrità, musicisti famosi e non, cantanti che tentavano la fortuna mostrando le proprie doti al fine di ottenere un riconoscimento, scrittori, giornalisti, scienziati conosciuti in gran parte del mondo. Le menti più geniali di Kalos erano tutte riunite in quell’antico palazzo, addobbato per l’occasione con i migliori decori. Al piano superiore, nella zona attorno alla balconata, era stata adibita una zona per il rinfresco: lì era il punto in cui la maggior parte della gente si concentrava per chiacchierare e conoscersi. Fra una coppa di vino e stuzzichini ci si scambiavano parole, ci si stringevano le mani e poi si scendeva in pista per ballare sulle note intonate dall’orchestra.
   Platan e Diantha ballarono insieme per un po’. La donna pareva essersi tranquillizzata e teneva alta la testa per guardarlo negli occhi e sorridergli, come se anche lei, a sua volta, volesse acquietare i pensieri di lui. Poi furono costretti ad allontanarsi, sentendosi venir chiamati sempre più insistentemente ognuno dai propri ammiratori. A quel punto si persero di vista e vennero risucchiati dalla folla senza più riuscire a ritrovarsi.
   Platan ballò a lungo con molte ragazze, ma senza troppa convinzione. I suoi piedi si muovevano meccanicamente, si sentiva girare come una trottola, e spesso s’accorgeva di non essere lui a guidare la danza, ma la sua partner, il cui viso sembrava cambiare continuamente, senza che lo potesse distinguere con chiarezza: prima aveva due occhi bruni e attraenti da cerbiatta, poi improvvisamente essi diventavano verdi, il naso pareva mutare forma in continuazione, ma la bocca era sempre la stessa, incurvata in un sorriso pieno d’imbarazzo ed emozione. E così la sua compagna si trasformava in un collage di visi ed espressioni, in cui di tanto in tanto aveva l’impressione di riconoscere qualche volto conosciuto. Ballava con Sina, Serena, ancora con Diantha, e una volta gli era persino sembrato di vedere Dexio, con i suoi occhi vispi da giovane ragazzo. Non scorse mai le sembianze di Elisio, nonostante dopo qualche tempo avesse involontariamente provato a cercarle. In quel viso mutante si concentravano tutte le persone a cui teneva, a cui voleva bene, ma si sentiva così estraneo da loro, così lontano. Forse ultimamente si era lasciato andare talmente tanto al punto da trascurarle? Si chiese se il suo animo non gli stesse in realtà dando altro che questo avvertimento. Fra un ballo e un altro, esausto, riuscì finalmente a ritagliarsi un po’ di tempo da dedicare a sé stesso. Per quanto tempo aveva ballato? E con quante persone? Si sentiva stanco e aveva bisogno di allontanarsi per un po’, di prendere aria via da quella sala così gremita di gente. Provava una sensazione di oppressione in mezzo a quella fiumana di spalle, di occhi, di labbra ipocritamente sorridenti. Si avvicinò al tavolo del rinfresco e chiese al cameriere un bicchiere d’acqua. Mai gli era capitato di sentire una sensazione così forte di liberazione nel sospirare dopo aver mandato giù per la gola un bel sorso d’acqua fresca. Alzò lo sguardo sul salone alla ricerca di Diantha, ma di lei non riuscì a trovare alcuna traccia. Pensò a malincuore che probabilmente anche lei doveva essersi trovata nella stessa situazione in cui era precipitato lui, tirato da decine di mani che cercavano di trattenerlo per il tempo di una canzone di due miseri minuti. Girò il viso e adocchiò un gruppo di ragazze che si stava avvicinando: già presagiva quali fossero le loro intenzioni e lo colpì una leggera nausea. Si allontanò di qualche passo cercando di mischiarsi fra la gente e di confondersi fra giacche costose e cravatte firmate, ma i suoi sforzi non valsero a nulla.
   «Professor Platan! Professore, la prego, aspetti!» sentiva le loro voci. Subito dopo le vide, tutte vestite di colori sgargianti e con i colli impreziositi da vistose collane.
   Platan indietreggiò di un passo.
   «Scusatemi, ma...» tentò di dire.
   Indietreggiò ancora per evitare i loro sguardi invadenti e le loro mani che si allungavano su di lui nello sforzo di afferrargli un braccio o una mano e di vincerlo. Improvvisamente si sentì in trappola e la vista gli si offuscò per qualche secondo. Con gli occhi socchiusi, gli sembrava di intravedere le figure di Sina, Dexio, Diantha, Serena, Tierno, Trovato, Calem, Shana, e ancora quei visi cambiavano e mutavano mentre lo insultavano e lo schernivano, lo chiamavano criminale e traditore e lui era perduto, era confuso.
   Nel suo fuggire da quel tormento angoscioso urtò qualcuno con la schiena e, quando si voltò, non avrebbe mai potuto dire quale sensazione di conforto lo riscosse dai propri incubi. Il cuore cominciò a battergli più lentamente mentre incastonava con ossessione gli occhi grigi su quel viso così familiare.
   «Buonasera, Professore».
   Quella voce, quella voce! Così intensa e profonda, dolcemente severa e rincuorante! Com’era felice, in quel momento, com’era felice! Rapidamente portò una mano verso la sua e la strinse nervosamente.
   «Mi dispiace mademoiselles, ma ho un affare urgente di cui devo parlare con Monsieur Elisio! Tornerò subito!» esclamò, e senza neanche dare il tempo alle altre di rispondere, tirò via l’uomo e con lui corse fuori dalla sala. Scesa la prima rampa di scale, Elisio gli chiese di rallentare e Platan si fermò bruscamente d’improvviso.
   Ma che gli era preso? Pareva averlo scosso un impeto di follia.
   Lasciò andare la mano di lui, lo scrutò per qualche attimo come se si fosse improvvisamente ridestato da un sogno. Lo assalì un brivido rabbioso. Eppure si era sentito così felice di rivederlo...
   Soli nel corridoio, si guardarono l’un l’altro in silenzio. Da sopra proveniva una musica di fisarmonica.
   Gli occhi di Elisio erano languidi e sinceramente affranti. Era una vista particolarmente insolita su un viso così altero. Platan lo vide avanzare di pochi passi e incerto se allungare una mano verso di lui o meno. Istintivamente, anche se Elisio infine non si mosse, si allontanò come per paura d’essere ferito.
   «Ti chiedo scusa, Platan», disse piano. Quanta umiltà si avvertiva in quella sua voce nobile, quasi da provarne pena!
   Il Professore tuttavia accolse quelle parole modeste con una smorfia. Senza degnarlo più di uno sguardo, si voltò e se ne andò, continuando a scendere le scale. Elisio gli andò dietro di corsa e lo seguì lungo il corridoio e di fuori nell’immenso cortile. Nel buio temette di perderlo di vista, in quel labirinto di alberi e cespugli, e a quel punto lo chiamava per capire dove fosse. Nonostante egli non rispondesse, riusciva a sentire un fremito nell’aria e dentro di sé sapeva quale direzione avesse preso e dove stesse andando. Oltrepassò una parete di rampicanti e subito dopo vide Platan fermo in mezzo al ciottolato che osservava intensamente la statua di Reshiram.
   Si arrestò a riprendere fiato guardando l’uomo con sguardo d’indugio. Platan mosse lievemente la testa e Elisio capì che gli era dato il permesso d’avvicinarsi. Si accostò a lui in silenzio e aspettò che parlasse.
   Il Professore venne preso da una sottile confusione: se da una parte ancora provava odio per quello che Elisio gli aveva fatto, dall’altra era immensamente felice di riaverlo così vicino a sé. Cercò qualche cosa da dire sforzandosi di tenere a freno quella metà di sé che non avrebbe fatto a meno di aggredirlo.
   «È una sorpresa vederti qui stasera, dato che questo tipo di feste non sembrano piacerti. Come mai sei venuto?» gli chiese provando a mantenere un tono docile.
   «L’unico motivo per cui sono venuto è perché in qualche modo speravo di poterti rivedere», rispose l’altro.
   Le spalle gli tremarono e trattenendo il respiro distolse lo sguardo da lui, che gli aveva fatto una così gradevole confessione. Allora anche Elisio doveva provare il suo stesso dolore, la sua stessa mancanza!
   «Platan, noi dobbiamo parlare», insistette l’altro cercando di attrarre su di sé la sua attenzione.
   «Perché ne senti tanto il bisogno, adesso? Altre volte sei rimasto in disparte e non hai fatto nulla per dissuadermi da ciò che avevo visto! Che c’è di diverso, stavolta?» suonava più come una minaccia che come un innocuo tentativo di chiarimento, e questo era accentuato ancora di più dalla curva maligna che, forse involontariamente, aveva preso la sua bocca. Platan era come una scatola ricolma di oggetti diversi che la gonfiavano e ne spaccavano le pareti, una diga che presto avrebbe ceduto e da cui si sarebbe potuta riversare acqua nello stesso modo in cui sarebbe potuto uscire del fango o del veleno.
   «C’è di diverso che stavolta non è colpa mia», ribatté alzando di poco la voce, ma sempre umile e sottomesso «Non ho rubato i tuoi documenti, ti giuro che non me lo sarei mai permesso!».
   «Sei un bugiardo».
   Elisio incassò il colpo in silenzio, sentendo che faceva male, malissimo. Strinse le palpebre nell’immane sforzo di sopportare il dolore. Riaprì gli occhi facendo riposare lo sguardo sulla chiara figura del Pokémon Leggendario, in mezzo al suo piumaggio morbido scolpito nella pietra. E si sentì inondato di nuovo coraggio, perché sapeva di dire il vero e che mai avrebbe potuto contestarglielo, che in qualche modo sarebbe riuscito a convincerlo riguardo quella verità.
   «Lo siamo entrambi», disse pazientemente, levigando la sua voce profonda.
 Platan lo squadrò osservando con quale sfrontatezza gli avesse indirizzato quella ripicca.
   «Ma cosa dici?» ribatté ansioso, subito preoccupato di quale verità sapesse che avrebbe potuto nascondergli, irrimediabilmente pensando al peggio.
   «Diantha mi ha detto del modo in cui ti stai comportando ultimamente. Sei di nuovo caduto nella tua depressione, Platan, non te ne sei accorto? Perché continui a dire di star bene?».
   «Cosa te ne importa di quello che faccio?!» esclamò nervosamente, ma rincuorato dentro di sé che non avesse scoperto il segreto che da innumerevoli mesi nascondeva nell’animo come aveva temuto.
   «Dannazione, come fai a chiederlo? Mi preoccupo per te perché io ti amo!».
   Fra di loro cadde un silenzio invalicabile. Si arrestarono a guardare la statua di Reshiram come immobili e senza vita. Erano così vicini l’uno all’altro, ma interiormente si sentivano talmente distanti, talmente irraggiungibili. Non sapevano spiegarsi il perché di quella sensazione che si era appena intromessa, non avrebbero saputo descriverla, né darle un nome. Erano separati, colmi di un grande dolore. A quel punto si erano accorti di quanto lontano apparisse il loro passato; il futuro si era sgretolato in un istante e il presente non esisteva. Respiravano in un lasso di tempo improbabile in cui i battiti dei loro cuori perduravano all’infinito e intorno a loro vi era l’ignoto.
   Elisio parve uscire per primo da quello stato di indeterminazione, girandosi verso la villa come se nulla fosse accaduto. Alzò la testa al cielo e a quel punto fu chiaro che non ricordasse assolutamente nulla di quella sensazione.
   «Platan, so che ne hai già abbastanza di questa storia. Ma vorrei mostrarti una cosa, se non ti dispiace», disse.
   Platan annuì, nel suo sguardo era ancora presente qualche traccia di quel coma. Lo seguì silenziosamente riprendendo un poco alla volta coscienza della propria esistenza e allora anche lui sembrò dimenticarsi di quell’emozione.
   Rientrarono nella villa addobbata a festa, ma si tennero alla larga dal luogo in cui le gente si concentrava. Anzi, a dire il vero, a Platan sembrò che Elisio stesse evitando di proposito il contatto con altre persone e che stesse cercando con tutte le forze di non farsi vedere, di non farsi scoprire. Si chiese dove lo stesse portando e in quello stesso istante avvertì il suo braccio poggiarsi sulle proprie spalle nel tentativo di averlo più vicino, di sentirsi più minuti e invisibili insieme. Si erano fermati di fronte a una libreria ed Elisio stava fingendo di mostrarsi interessato a qualche volume e lasciava scorrere qualche parola, facendo credere di essere immersi in chissà che discorso. Infatti, vide Platan con la coda dell’occhio, accanto a loro c’era una giovane guardia che li stava osservando. Si erano forse addentrati in una zona proibita di Reggia Aurea? Alzò gli occhi sul viso di Elisio e si domandò che intenzioni avesse. Distrattamente girò lo sguardo sulla libreria, lesse titoli in lingue antiche che non sapeva tradurre. Poi un cartellino ingiallito dal tempo attirò la sua attenzione. A quanto pareva, un libro della raccolta era stato smarrito e si intimava chiunque lo avesse ritrovato di restituirlo alla dirigenza della villa. Platan lo indicò alzando un dito verso di esso e chiese ad Elisio se sapesse di che libro si trattasse.
   «Oh, si tratta di una delle tante leggende sulla Reggia Aurea!» si inserì a quel punto la guardia «Si diceva che ci fosse questo libro in cui era racchiuso il segreto per far rivivere i Pokémon... Ma sono anni che non se ne trovano più tracce. Pensate, non appena la dirigenza si mise alla ricerca di quel libro, si scoprì che nel registro della biblioteca della villa non era stata raccolta alcuna informazione riguardo ad esso! Come se non fosse mai esistito...».
   «Che storia curiosa...» commentò Platan accompagnato da un cenno d’assenso da parte di Elisio.
   «Quindi non deve sorprendere sapere che se ne abbandonarono le ricerche quasi subito. Un libro fantasma... È quasi impossibile da ritrovare! Ora non ricordo neanche il titolo preciso, in effetti. Miti di Kalos... Leggende della regione di Kalos... Una cosa del genere».
   Platan sentì un brivido viscido corrergli lungo la schiena.
   «Miti e leggende della regione di Kalos, forse?» chiese, senza batter ciglio.
   «Ah, giusto! Miti e leggende della regione di Kalos, proprio così! Avevo fatto un po’ di confusione!» esclamò con una risata imbarazzata.
   «Comunque sia,» subentrò Elisio poggiando ancora una volta e con cautela il braccio sulle spalle di Platan in un gesto di conforto e protezione «sarebbe stato davvero un peccato se un libro del genere fosse esistito e poi andato perduto. Il segreto per riportare in vita i Pokémon... Scommetto che al nostro Professore non sarebbe dispiaciuto dargli una letta, vero?».
   «Oh, lei è il Professor Platan?» si informò incredulo «Mia sorella minore va matta per lei, sa?».
   All’improvviso si udì un frastuono provenire dalla terrazza. Il giovane si mise in allerta ed esclamò che c’era bisogno di lui e deliberatamente lasciò i due di fronte alla libreria, senza porre un secondo controllo alla zona.
   «Un po’ distratto il ragazzo, non ti pare?» commentò Elisio.
   Si allontanò da Platan e gli chiese di seguirlo, approfittando della situazione. Lui gli andò dietro senza fiatare, ignorando il vociare che proveniva dall’altra parte del corridoio e rimuginando su ciò che aveva appena intuito: dopo anni si ritrovava in mano l’evidenza assoluta che Elisio non aveva mai preso in prestito quel libro, ma che anzi l’aveva rubato, e l’aveva fatto distruggendo qualsiasi prova della sua colpevolezza. Non sapeva come digerire la cosa, se prenderla bene o male, ma ben presto si dovette rassegnare e mettersi il cuore in pace, poiché le sorprese per lui ancora non erano finite.
   Elisio si era arrestato davanti ad una porta. Prima di aprirla attese in silenzio che Platan si ricomponesse: aveva un aspetto leggermente confuso e ne capiva il motivo. Tuttavia non voleva forzarlo a comprendere, ma lasciargli il tempo e lo spazio di cui aveva bisogno, perché ciò che gli avrebbe dichiarato entro pochi minuti, avrebbe creato ancora più caos nella sua testa. Non ne era particolarmente entusiasta, ma c’era bisogno che vedesse, che sapesse.
   «Tu sei completamente matto», disse ad un tratto il Professore subito dopo aver finito di processare il tutto nella sua mente.
   «Certe volte è necessario», disse lui accennando a un sorriso «Entra, presto».
   Quando entrambi furono dentro la stanza e la porta si richiuse dietro di loro, nessun suono fu più in grado di raggiungerli dall’esterno. Elisio si mosse lentamente in avanti e si accostò alla parete opposta. Su di essa vi era appeso un quadro dalle misure eccezionali e in esso era raffigurato un uomo dai tratti duri e aspri, gli occhi sottili e nerissimi, il viso incorniciato da lunghi capelli bruni. Aveva già visto quell’immagine in qualche libro di storia, ma vagamente ricordava chi fosse. Lanciò uno sguardo al compagno, incerto su ciò che dovesse fare.
   «Guarda meglio, Platan. Quel volto non ti è familiare?» lo incoraggiò lui.
   Allora Platan guardò e si sforzò di riconoscere qualcuno in quelle sembianze, ma non gli veniva in mente nulla. Riprovò un paio di volte, strizzando gli occhi e posando sempre maggiore attenzione su ogni particolare. Ma chi era, chi era? Non gli ricordava nessuno. Si preparò ad ammettere la propria sconfitta, a dire a Elisio che davvero non sapeva vedere nessuno di familiare in quella faccia austera e vecchia.
   Poi non seppe come, forse s’era spostato e la luce aveva colpito l’immagine con un’intensità particolare, ma quando la figura gli ritornò alla vista per l’ennesima volta, si sorprese di non aver riconosciuto prima quelle sembianze.
   «AZ?».
   Elisio annuì.
   «AZ. Sembra sia stato lui a far costruire questo palazzo trecento anni fa».
   Ma Platan non sembrava soddisfatto. Intravedeva qualcosa nei movimenti di Elisio che gli suggeriva che non l’aveva condotto in quella stanza soltanto per fargli vedere quel dipinto.
   «L’inizio e la fine», ripeté quel modo particolare in cui l’uomo gliel’aveva presentato quel pomeriggio di pioggia e che non aveva del tutto compreso, forse nella speranza che finalmente gliene desse una spiegazione.
   Nel momento in cui Platan pronunciò quelle parole gli ritornò alla vista come un lampo l’immagine che lo aveva accolto durante il suo ingresso nella sala sotterranea in cui era custodita l’Arma Suprema. All’apertura delle porte, una figura martoriata, senza braccia e in equilibrio su una gamba sola gli aveva dato il benvenuto nel luogo in cui doveva aver avuto origine l’inferno che aveva tormentato Kalos tremila anni prima. Entrando aveva calpestato alcuni cocci, i quali, ad una vista più attenta, aveva riconosciuto come parti di un viso: a quella scultura era stata staccata la testa e poi gettata sul pavimento in un impeto di rabbia e di odio. Sul suo piedistallo vi era una semplice, tragica frase, che gli era bastata per comprendere a chi alludesse quel corpo straziato: Colui che fu inizio e fine.
   «L’inizio e la fine», ripeté Elisio cercando di trovare le parole giuste con cui spiegare a Platan «Tremila anni fa, la nostra regione viveva in un periodo di bellezza e fortuna. Era l’Età dell’Oro, sancita ancor più fortemente dalle prime unioni tra uomini e Pokémon. Chi più di tutti si fece portatore di questa alleanza fu AZ. Egli si legò a Floette, e nel momento in cui salì al trono, portò grandi innovazioni per il regno, seppe diffondere cultura e fortuna. Portò l’inizio di un tempo prospero. Ma un giorno, improvvisamente scoppiò una guerra. Entrambi sappiamo come si svilupparono le vicende. Con la potenza sprigionata dall’Arma Suprema che aveva costruito, AZ mise fine alle battaglie, ma inevitabilmente anche a tutto ciò che aveva creato e che i suoi sudditi avevano amato. Fu la fine di un’epoca. Fu la fine della speranza che le genti avevano riversato nel proprio futuro».
   Fece una breve pausa. Platan in cuor suo non poté fare a meno di chiedersi se Elisio comprendesse che se avesse continuato a dedicarsi al suo progetto sarebbe stata la fine anche per le loro genti. Non capiva che la storia si sarebbe ripetuta un’altra volta? Con le sue morti, con le sue disgrazie...
   «L’antico re aveva un fratello», riprese il discorso «Egli, dopo aver visto la sofferenza e la distruzione che l’Arma Suprema aveva causato, decise di nascondere la macchina sotto le profondità della terra, in modo che nessuno potesse scovarla un’altra volta e rischiare di riportare la devastazione di cui lui e tutto il resto del popolo erano stati testimoni. Prima di morire scrisse un libro in cui fosse contenuto ogni dettaglio di quella guerra, dell’Arma, del modo in cui AZ era riuscito a riportare in vita Floette. Decise che esso dovesse essere tramandato di generazione in generazione ad ogni suo postero, fino alla fine dei tempi. Quel libro, Platan, io non l’ho rubato».
   Si portò una mano al petto e abbassò la testa: «Io sono l’ultimo discendente. Esso era mio di diritto».
   Platan lo stava osservando fissamente con le braccia conserte, gli occhi tradivano un senso d’attesa e impazienza. Sì, già sapeva, già glielo aveva detto di essere il discendente del fratello minore di quel re che aveva costruito l’Arma Suprema. Stava ancora spianando la strada per confessargli qualcosa, ma non riusciva a intuire di cosa si trattasse. Lo guardava, la sua attenzione era tutta riversata su di lui, sul suo viso, sul suo sguardo, sulle sue labbra, moriva dalla voglia di sapere che cosa ancora stava esitando di dirgli. Elisio tacque per minuti osservando i suoi occhi grigi finché non fu certo che fosse pronto ad ascoltarlo, a recepire le sue ultime parole. Platan intanto con un cenno della testa lo esortava a sbrigarsi, perché era passato diverso tempo da quando erano entrati e temeva che presto, calmatesi le acque dall’altra parte, li avrebbero potuti scovare.
 
   «È per questo motivo che io credo di aver capito perché noi ci incontrammo, quel giorno, tanto tempo fa. Non fu per caso, Platan. Doveva essere destino. Noi fummo scelti».
 
   Tutto, tutto si sarebbe potuto aspettare, ma non quello! Scelti? Che assurdità! Il destino? Che ne poteva sapere, lui, del destino? Abbassò lo sguardo e rimase in silenzio, accarezzandosi le braccia. Pareva essersi rabbuiato all’improvviso, mentre fino a pochi secondi prima non aveva fatto altro che fremere nel desiderio di sentire ciò che Elisio gli stava celando.
   «Noi fummo scelti... Per cosa?» chiese a voce bassa.
   «Per vivere questa vita».
   Alzò la testa con uno sguardo interrogativo: ciò che diceva non aveva senso.
   «Vorresti dire che io fui scelto per vivere questa vita d’inferno? Per provare tutti questi dolori? A che scopo? Che vuoi dire, Elisio?».
   «Lo so, lo so che è difficile da credere! Ma non so spiegartelo, è quello che ho provato quando sono entrato in quella sala e ho visto l’Arma Suprema davanti ai miei occhi. Ho avuto come una folgorazione, come la certezza che la mia vita non sarebbe potuta essere altrimenti, che nessun’altro sarebbe potuto essere mio compagno all’infuori di te, che quel posto era riservato solo ed esclusivamente a te e che io non avrei avuto altra scelta che legarmi con te, perché il mio destino non voleva che questo. È il ruolo che ci fu preposto alla nostra concezione».
   Platan non capiva. Elisio cercava di spiegarsi più chiaramente, ma non c’era verso: Platan aveva i pensieri troppo confusi, adesso, la mente carica di informazioni che fumava e sragionava. Però voleva saperne di più, voleva arrivare alla visione che aveva colto Elisio. Come poteva dire che gli avvenimenti di quel giorno, tanto tempo fa, erano stati voluti dal destino, se in realtà non si trattavano altro che di sogni, di aria, di nulla? Gli girava la testa.
   «Elisio, portami via», gli chiese mantenendo basso il proprio tono «Sono... Sono stanco. Non voglio più stare qui. Portami da qualche altra parte. Andiamocene».
   Non protestò quando Elisio gli offrì il proprio braccio, anzi, vi si aggrappò come lo zoppo si stringe al bastone. Platan era visibilmente stravolto, camminava piano e sospirando poggiava la testa contro la sua spalla, come bisognoso di un sostegno. Di tanto in tanto Elisio passava le proprie dita sulla sua mano, sentiva che era inopportuno, ma era l’unico modo in cui gli pareva che l’uomo riuscisse a trovare un po’ di conforto.
   «Vado a ritirare la giacca dal guardaroba,» gli disse lasciandolo un attimo di fronte l’atrio, «torno subito».
   Platan annuì, lo guardò mentre si allontanava. Prese il cellulare e decise di lasciare un messaggio a Diantha: “Sto andando via con Elisio. Ho bisogno di stare un po’ con lui. Dobbiamo parlare. Per favore, ritira le mie cose a nome mio. Domani mattina passo da te a riprendere tutto. Grazie”. Spense lo strumento per risparmiare la batteria, o forse per non essere infastidito nel caso in cui qualcuno lo avesse chiamato mentre era in compagnia di Elisio. Mosse qualche passo nell’atrio osservando i muri e i soffitti riccamente decorati. Poi lo sguardo gli cadde sulla statua d’oro di Milotic che campeggiava in tutto il suo splendore al centro della sala. Di fronte a quella vista gli tornarono alla mente ricordi felici, ma dal sapore amaro, adesso. Sprazzi di una vita normale vissuti con semplicità e tenerezza.
   Elisio tornò tenendo la giacca appesa a un braccio, si apprestò ad appoggiarla sulle spalle sottili di Platan, a richiuderne con cura i bottoni sul suo petto.
   «Fuori è scesa la temperatura, è meglio che ti copra», gli disse.
   «Mi trovi ancora come un orripilante e insulso Feebas trasformatosi in un incantevole e splendido Milotic?».
   Era passato tanto tempo. Elisio si sorprese di sapere che ancora ricordava quella frase. Erano stati così giovani, così innocenti. Due perle nascoste nel profondo del mare, due boccioli in attesa di aprirsi e fiorire. Chiudendo l’ultimo bottone si spinse in avanti in una sorta di abbraccio, ma senza toccarlo, e sussurrò all’orecchio la risposta.
   Un alito fresco li accolse di fuori, gelandogli le guance e insinuandogli un brivido lungo la schiena. Il cielo era terso, ma nero, non c’erano stelle quella sera che brillassero per loro. Diantha si affacciò alla finestra, vide i due allontanarsi dalla Reggia mentre camminavano lungo l’ampio cortile di ghiaia. Uno accanto all’altro, in silenzio, si addentrarono verso il viale alberato del Percorso 6. I rumori e la musica si affievolirono lentamente, vennero circondati dal suono prodotto dai rami accarezzati dal vento, dallo sfruscio dell’erba alta al passaggio di qualche Pokémon selvatico.
   «Tuttavia, vorrei che mi chiarissi solamente un dubbio», disse il rosso ad un tratto.
   L’altro alzò il viso e lo guardò: «Di cosa si tratta?».
   «Questo tipo di feste non piacciono neanche a te. Quindi, perché?» chiese.
   Platan sorrise lievemente, si strinse meglio nella giacca del compagno e venne pervaso dalla sua raffinata essenza di gigli.
   «Perché anche io, Elisio, speravo di poterti rivedere».



***
Angolo del francese.
     * Mademoiselles = Signorine ;
     * Monsieur = Signore .




 


Nella Reggia Aurea c'è un signore che dice che nelle librerie della villa si pensava ci fosse stato un libro che contenesse il segreto per far rivivere i Pokémon, tuttavia poi smentisce tutto dicendo che "È solo una leggenda... Non vedo come un libro del genere potrebbe trovarsi nella biblioteca del palazzo". Dato che come al solito mi piace tantissimo dare una motivazione a quello che dicono i personaggi non giocabili, ho provato a inventarci una storia sopra. È passato molto tempo da quando è entrato in scena, ma spero che la verità riguardo quel libro sia stata una bella sorpresa... Eh eh...
  
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