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Autore: _Lady di inchiostro_    17/08/2015    5 recensioni
Accenni al capitolo 794.
Lettura sconsigliata a chi guarda solo l’anime.

*
«Sto sognando?»
«Ah, che cosa passi per la tua testa, lo sai solo tu!»

*
La maggior parte di noi si è sempre chiesta che cosa abbia detto Sabo ad Ace, quando è arrivato davanti alla sua tomba.
Nessuno, però, si è mai chiesto che cosa avrebbe detto, di rimando, lo stesso Pugno di Fuoco.
E se avessero la possibilità di parlarsi a faccia a faccia? Se il loro affetto fraterno potesse superare una più che evidente distanza?
*
{Ace&Sabo} {Brothership} {Nosense}
Genere: Angst, Fluff, Malinconico | Stato: completa
Tipo di coppia: Nessuna | Personaggi: Portuguese D. Ace, Sabo
Note: Missing Moments, Nonsense | Avvertimenti: Spoiler!
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Prenditene cura


In quel momento, credeva di essere l’unico cui fosse capitata una cosa del genere.
Com’era possibile che non si ricordasse in che modo era riuscito ad arrivare lì?
Sabo si girò all’indietro, nella speranza di scorgere le figure di Hack o Koala, ma senza alcun risultato, trovandosi a osservare l’azzurra distesa d’acqua che circondava l’isolotto. L’ultima cosa che ricordava era che stava viaggiando a bordo del piccolo sottomarino che i rivoluzionari avevano messo a sua disposizione, insieme ai suoi amici di sempre, diretto proprio là, poi più niente. 
Ritornò sui suoi passi, il vento che soffiava forte, rischiando di rovinare il mazzo di fiori che teneva in mano, e caricandosi la cassa sulle spalle. Percorse la stradina leggermente in pendenza, osservando la serie di lame piantate sul terreno – supponeva in memoria degli altri caduti – finché non arrivò a destinazione.
Rimase in piedi a lungo, prendendo profondi respiri e calmando i sentimenti che, piano piano, stavano venendo a galla.
Non importava come fosse arrivato lì, l’importante era che ci fosse riuscito.
Era come se fosse davanti a lui, tutto il resto non aveva più importanza.
«Ohi, Ace!» Si sedette a gambe incrociate, lanciando un ultimo sguardo alla tomba del fratello, per poi tenerlo basso. «Ciao!»
Non disse niente per un po’, come se l’aria si fosse fatta improvvisamente pesante, sistemando il mazzo di fiori e togliendo il contenuto dalla cassa.
«Certo che questo posto è tranquillo» Azzardò una risata, nervoso. «Troppo tranquillo, per uno come te!»
Si bloccò ancora, le parole che voleva dire da parecchio tempo bloccate da un senso di rimorso. Dei semplici movimenti come quelli, li stava compiendo con fare meccanico, disponendo le tre tazzine rosse sopra la cassa come se fosse un robot.
«Non che io sia meglio, sto pur sempre parlando da solo…» mormorò, per poi scoppiare a ridere, nella speranza di poter sentire anche la risata di scherno del fratello.
Risata che, lo sapeva, non sarebbe arrivata.
Si morse il labbro inferiore, provando a cacciare indietro le lacrime, ma oramai queste stavano solcando il suo viso parzialmente sfregiato.
«Sai, Rufy sta benone adesso. È tornato a far danni» Ridacchiò ancora, asciugandosi gli zigomi con la manica della giacca.
Tirò fuori l’articolo di giornale che teneva in tasca, attaccandolo sul marmo, proprio vicino a dove si trovava il nome completo di Ace.
Le lacrime presero a scendere copiosamente sul terreno erboso, senza alcuna apparente motivazione, il dolore che provava da due anni a questa parte che si faceva largo dentro di lui; da quando si era ricordato di Ace, di come gridasse fiero di voler diventare un vero pirata, di come si scambiassero sguardi complici, di come fosse sempre un passo avanti, e di come l’ammirasse per questo.
Tranne un singhiozzo, piangendo senza fermarsi.
«Mi dispiace» biascicò poi con voce rotta, tirando su col naso. «Mi dispiace di avervi lascito soli, di averti lasciato solo.»
I suoi fratelli avevano combattuto per fuggire da quella stramaledettissima guerra senza di lui; lo credevano morto, quando lui era ancora vivo e vegeto, a gironzolare per i mari. 
«Te lo prometto, però, porterò avanti la tua volontà. Mangerò il tuo frutto e proteggerò il nostro fratellino, come abbiamo sempre fatto!» Sorrise, impercettibilmente, ripensando al volto di Rufy quand’era bambino. «Perciò, basta piangere, giusto? E poi, tu non sopporti i piagnistei, neppure se sono io a farli!»
Rise, sempre più nervoso, sempre più incapace di alzare lo sguardo, sempre più consapevole che, no, quelle lacrime non si sarebbero fermate.
Strofinò la mano guantata sugli occhi, invano. «Scusami, sono proprio un caso perso…»
«Oh, questo lo sapevo già!»
Rimase di sasso, Sabo, non riuscendo a credere alle sue orecchie.
Qualcuno aveva parlato. Una voce profonda, che poteva appartenere solo a una persona all’incirca della sua età, si era rivolta a lui come se lo conoscesse.
Per una breve frazione di secondo, gli balenò per la mente un pensiero, un pensiero che si sarebbe rilevato sicuramente folle.
Eppure… eppure sentiva che non si sbagliava, che quella voce potesse essere dell’unica persona possibile, che lui fosse lì.
Finalmente, alzò lo sguardo, pacatamente e con la paura che, sì, stava uscendo di senno più di quanto già non fosse.
Sgranò gli occhi, diversi sentimenti contrastanti riemersero improvvisamente, tutti in un solo colpo.
Era indeciso se slanciarsi in avanti, accogliendo la figura in questione tra le sue braccia, o fuggire, non potendo davvero metabolizzare ciò che gli stava davanti.
Perché, quello cui stava assistendo, non era reale. Era una finzione della sua testa, una proiezione, qualcosa insomma!
«Sto sognando?» domandò infine, più a se stesso che alla figura.
Quest’ultima si sistemò l’amato cappello arancione sulla testa, stando ancora seduto sui talloni nel suo blocco di marmo e rispondendo alla domanda. «Ah, che cosa passi per la tua testa, lo sai solo tu!»
La figura fece un balzo, superando la cassa e sedendosi a gambe incrociare, mentre l’altro vagava il suo sguardo su tutto il suo corpo. Si guardò le mani, come se avesse ritrovato la piacevole sensazione di poterle riaprire e chiudere, per poi sorridere soddisfatto.
«Ace…» Sentì pronunciare il suo nome dal fratello e si girò, quest’ultimo con gli occhi che sembravano fuori dalle orbite.
Inclinò la testa di lato e sorrise. «Ciao Sabo!» esclamò.
Il biondo allungò una mano, come a volerlo toccare, ma si ritrasse subito, socchiudendola a pugno.
«Sto sognando» decretò con certezza. Era più che probabile, d’altronde: poteva essersi benissimo addormento in camera sua, e ciò dava anche un significato alla sua totale mancanza di ricordi su come fosse attraccato. 
«Mi sa di sì, non sono ancora in grado di trasformarmi in un fantasma» confermò l’altro. «Sarebbe forte, però!»
«Questo significa che sei solo il frutto della mia immaginazione…»
Ace osservò l’altro mentre si sbatteva una mano sulla fronte, non potendo fare a meno di ridacchiare. 
«Che hai da ridere?» sbottò Sabo, concentrandosi di nuovo su di lui.
«Niente, è solo che ne sei così convinto!» disse.
Sabo si mise seduto accanto a lui, nella medesima posizione di prima. «Mi stai dicendo che non è vero?»
«Certo, credi di stare fantasticando su una cosa del genere?» Ace allargò le braccia, ridendo ancora. «Okay che, adesso, ho dei dubbi sulla tua sanità mentale, ma non ti credo matto fino a questo punto!»
Gli occhi del rivoluzionario divennero due fessure, mentre studiava l’intera faccenda. Stava parlando con Ace? O meglio, stava parlando con quello che, in teoria, era rimasto di Ace? E in un sogno, per giunta? 
«È il mio subconscio che ti fa dire queste cose…» rincalzò.
Ace produsse un rumoroso sbuffo, simile a quello di un cavallo. «Okay, mettiamo caso che stai parlando con una parte della tua intricata zucca, fa differenza?» domandò.
In effetti, anche lui sarebbe stato scettico a una cosa del genere, se fosse stato ancora in vita. Quando gli capitava di sognare, raramente, una donna molto simile a lui, pensava sempre che succedesse per via dell’abbondante mangiata che aveva fatto la sera prima.
Non poteva di certo prevedere che, quella donna, fosse sua madre. Come fosse certo di non potersi più sorprendere dopo la morte, cosa che poi avvenne non appena si ritrovò insieme all’originaria Portuguese.
Quando alcuni sostenevano che le persone passate a miglior vita vegliassero ancora sui propri cari, credeva che fossero tutte frottole: i morti sono morti, i vivi sono vivi, e niente può cambiarlo.
L’unica volta in cui credette, o meglio sperò, che quelle storielle fossero vere, fu il momento della sua morte. Perché non voleva lasciare i suoi compagni, suo padre, ma soprattutto suo fratello. E solo allora capì cosa intendessero dire quelle specie di leggende: quando si muore, ci sono sempre delle persone che si vogliono proteggere, anche se non si può fare nulla di concreto.
Puoi solo stare lì, a guardarle mentre vivono la loro vita e ad aspettarle. Forse, solo i sogni permettevano di mettersi in contatto con quelle persone, di vederle sorridere ancora una volta, o di avvertirle di un imminente pericolo. Solo che, purtroppo, non sempre era facile, altrimenti si sarebbe dimezzato il numero dei morti, no?
Quella volta, però, Ace ci era riuscito, forse per via del desiderio del fratello di poterlo rivedere, ancora una volta.
«Certo che fa differenza!» protestò Sabo. «Sarebbe come parlare al vento, dire delle cose che già so!»
«Tipo?»
«Tipo…» Deglutì, mandando giù il grappolo che gli bloccava la gola da anni. «… Non lo so.»
Si prese il ponte del naso con le dita, avvertendo lo sguardo di Ace che lo fissava. In realtà, c’erano tantissime cose che voleva dire, ma adesso gli sembravano tutte prive di senso. Se quello che aveva accanto non era suo fratello, bensì il frutto della sua testa, allora sapeva benissimo tutti i discorsi che si era preparato, che aveva mormorato tra sé e sé dopo aver letto il giornale, disteso sul pavimento della sua stanza, quasi come se fosse stata un’anima dannata e privata del piacere di morire.
Li conosceva per forza, perché erano le prime parole che gli apparivano in mente quando immaginava il volto di Ace, puntellato di lentiggini e già segnato da una certa maturità nonostante avesse dieci anni; erano le parole che avrebbe voluto dirgli, mentre lo riabbracciava, sentendo lui che rideva e che lo canzonava perché stava piangendo con troppa foga. 
In quel momento, però, non si sentiva di fare nulla di tutto questo. Aveva sperato a lungo che una cosa del genere potesse accadere, che adesso gli sembrava impossibile.
Prese un respiro, chiudendo gli occhi e beandosi del vento sul viso, non badando per adesso a suo fratello.
Li riaprì. «Posso farti una domanda?»
Ace fu colto alla sprovvista, mentre Sabo gli lanciava un’occhiata di traverso, per poi annuire. Quest’ultimo nascose il volto tra le ginocchia, lasciando Ace particolarmente perplesso: da quando si comportava in quel modo?
«Che cosa pensi di me?» chiese.
Il moro aggrottò le sopracciglia. «Perché vuoi saperlo?»
«Dannazione Ace, devi sempre rispondere a una domanda con un’altra domanda?» sbottò, voltandosi rabbioso verso il fratello, che adesso lo guardava con tono grave e preoccupato.
Il biondo realizzò quello che aveva fatto in un secondo momento, tornando ad assumere la stessa posizione a ricciolo di prima. «Scusa…» mormorò.
Non sentendo alcuna replica da parte dell’altro, continuò: «È solo che… se tutto questo fosse un sogno, tu ora diresti che sarebbe meglio se fossi morto durante l’incedente, così da svegliarmi» s’interruppe, deglutendo ancora. «In fondo, sarebbe stato meglio per tutti, no? Io non avrei dovuto espiare la colpa di essermi dimenticato di voi, e tu e Rufy avreste avuto ragione su tutti i fronti, credendomi morto. Non sarebbe stato un bene se fosse andata così?»
Si rese conto di stare ricominciando a piangere, le spalle che gli tremavano, le dita che stringevano con forza il tessuto dei suoi pantaloni. E, ora, nessuna frase aveva un senso logico.
«Maledizione… maledizione!» imprecò, contro se stesso, contro il mondo, contro nessuno in particolare. «Eppure io vi avevo visto… sui volantini con le vostre taglie. E dicevo sempre che quei sorrisi mi erano troppo familiari, che non era una semplice impressione, tuttavia tornavo a non farci caso, a vivere la mia vita di sempre. Possibile che ho dovuto aspettare la tua morte per riavere i miei ricordi? Come… come ho potuto scordarmi di voi?»
Sabo piangeva in silenzio mentre parlava, anche se gli sembrava di ricevere una coltellata ogni volta che sentiva le sue lacrime scendere lungo le gote. Alla fine, lo aveva fatto; quel fatidico discorso, l’aveva appena fatto. 
Sentì uno sbuffo divertito alla sua destra, riprestando attenzione al fratello, che si stava sistemando il cappello in modo tale che gli coprisse parzialmente il viso. «Mi ricordi tanto qualcuno…» disse.
L’altro si asciugò velocemente gli occhi, un sorriso tirato che si estendeva lungo il volto del lentigginoso.
«Mi ricordi tanto me, quando ho pianto per la tua lettera» Diede una veloce occhiata a Sabo, sempre più frastornato e che soffiava il suo nome tra le labbra. «Sai, allora ho pensato che quello che si diceva sul conto del “possibile figlio di Roger” fosse vero, che fosse un piccolo mostriciattolo che non doveva nascere. Tu non c’eri più, la prima persona cui mi sia mai affezionata veramente, confermando la teoria che stare con me fosse solo sbagliato» Si fermò, il sorriso di prima che si faceva sempre più malinconico. «E poi è arrivata la tua lettera, in cui mi dicevi che dovevo prendermi cura di Rufy al posto tuo. Ho pianto come un disperato, sebbene avessi detto a Rufy che fosse roba per i deboli. Però… non potevo fare a meno di pensare a come volessi essere io quello morto, e allo stesso non potevo non ripromettermi che avrei fatto esattamente quello che c’era scritto…» 
Sabo continuava a guardarlo, sconvolto da quella sorta di confessione. Che si fosse reso conto che stesse davvero parlando con Ace?
«Tu dici che dovresti essere morto» continuò Ace. «Ma hai mai pensato a come sarebbero andate le cose se io fossi venuto a riprenderti a casa dei tuoi? Avevo tutte le facoltà per farlo, eppure a impedirmelo era il presupposto che quella vita ti andasse bene. E se, invece, l’avessi fatto? Probabilmente avremmo vissuto la nostra infanzia tranquillamente, partendo poi quando avremmo compiuto diciassette anni, scambiandoci la promessa che si saremmo rivisti alla prima occasione. E, chissà, magari avremmo fatto di tutto per rivederci sul monte Corbo, raccontandoci delle nostre rispettive avventure con le nostre ciurme e combattendo contro gorilla giganti.»
Rise, e non sapeva se suonasse più come una risata nostalgica o più come una risata cristallina. Sabo, intanto, continuava a rimanere nella stessa posizione, solo gli occhi sembravano aprirsi sempre di più, ancora lucidi. 
«E questa logica si può attuare per tante altre cose: ad esempio, se io non fossi stato così avventato da inseguire Teach per tutti i mari, magari non mi avrebbero arrestato, e avremmo fatto questa conversazione davanti a delle tazzine di sakè vere, in compagnia anche di Rufy» Sorrise, la testa reclinata verso il cielo, non dando la possibilità a Sabo di guardarlo bene in faccia. «Sabo, quando sono morto, mi sono detto che non avevo motivo di rimpiangere la vita che ho vissuto. Ho avuto delle persone che mi hanno amato nonostante il mio passato, tutte le scelte che ho fatto erano consapevoli, e ho realizzato tutti i miei obiettivi. Perciò, che senso ha crogiolarsi? Quel che è stato, è stato! Nessuno ha colpa di nulla.»   
Non si accorse neanche delle lacrime che gli bagnarono gli zigomi, mentre pronunciava le ultime parole di quel discorso che, a dirla tutta, non si addiceva al suo stile da duro. «Ho solo un rimpianto: quello di non essere vissuto abbastanza per poter vedere Rufy diventare il Re dei Pirati… e per poter riabbracciare te…»
Fu una questione di un attimo, le braccia di Sabo che si mossero per stringerlo, abbracciandolo tra i singhiozzi. Sentì le sue lacrime inumidirgli il collo, mentre le sue scendevano lungo la sua spalla, le palpebre che si abbassavano sempre più sotto l’effetto di quel dolore e di quella gioia celati dentro lui, proprio come successe a Marineford.
«Sei un’idiota» borbottò Sabo. «Ti fai carico di accuse che non ti appartengono, quando il colpevole qua sono io!» Udì la risata di Ace, ed era come essere tornati a dodici anni prima. «Io non merito il tuo perdono, o di essere tuo fratello, o…»
«Sì, tanto non sto ascoltando le tue stronzate!» esclamò l’altro, sempre con poco garbo, tirando su col naso.
Rimasero così per un po’, con il rumore del mare e del vento che accompagnavano quel raro e prezioso momento d’intimità. Sabo si chiese quanto fosse pazzo per immagine persino i rumori dell’oceano, ma non gliene importò più di tanto; per adesso, teneva le braccia ben salde sul collo del fratello, mentre quest’ultimo le aveva posate sulla sua schiena senza troppa forza – era pur sempre Ace, quel discorso era già troppo per i suoi standard!
«Ace?»
«Mmh?»
«Grazie» sussurrò Sabo, prima con titubanza, poi con fermezza. «Ti voglio bene.»
Non seppe cosa scattò in Ace per ricominciare a piangere con più enfasi di prima, ignorando il fratello che continuava a giustificarsi con diverse scuse. Strinse quel corpo con più forza, dimezzando il respiro a Sabo.
«Bastardo! Lo sai che detesto queste cose, e tu hai il coraggio di dirmele come se nulla fosse? E adesso, che cosa ti aspetti, che ti risponda a tono? Va bene, ti voglio bene anch’io, piccolo rivoluzionario del cavolo, e mi sei mancato! Soddisfatto?» urlò Ace con voce rotta.
In verità, voleva dirgli le stesse cose che aveva detto a Marineford a Rufy, ringraziarlo di avergli voluto bene, tuttavia non ce ne fu bisogno. Sabo scoppiò a ridere tra nuove lacrime, stavolta di gioia, riconoscendo in quella frase il ragazzino con cui setacciava il Grey Terminal. E il fatto che sapesse del suo ruolo nell’Armata, non gli faceva aver più alcun tipo di dubbio che quello fosse Ace, che lui vegliasse effettivamente sui suoi fratelli. 
«Se Rufy ci vedesse in questo stato…» disse Sabo, non smettendo di piangere e ridere allo stesso tempo.
«Probabilmente ce lo rinfaccerebbe a vita!» affermò l’altro, e il silenzio calò ancora una volta.
Quando tutto si fece più sfumato, più sbiadito, entrambi i fratelli rimasero impassibili, staccandosi da quel contatto protrattosi troppo per i loro gusti. Si scambiarono un ultimo sorriso, prima che Ace parlasse di nuovo. «Non ho idea di quando ci rivedremo, per cui devo chiederti un favore.»
Sabo annuì con decisione e perplessità allo stesso tempo.
«Prenditene cura per me, okay?» Ace fece un sorriso luminoso, uno di quelli che raramente illuminava il suo volto.
Il biondo non ebbe tempo di domandargli ulteriori dettagli, se si riferisse al frutto Mera Mera o al loro fratellino Rufy, avvertendo la terra sprofondare sotto di lui.
E comprese che il sogno fosse finito, quando una violenta luce lo colpì agli occhi.


Quando arrivò alla tomba di Ace, stavolta per davvero, non ci fu bisogno di dire niente.
Come c’era d’aspettarsi, a svegliarlo dal suo stato di torpore fu Koala, che lo trovò a ronfare sulla sua scrivania in assoluta pace, avvertendolo che erano arrivati a destinazione.
Certo, Sabo dovette prima metabolizzare quello che gli stava attorno, che non si trovava più in un sogno, ma non cambiò molto da quello che fece proprio in quest’ultimo.
Posò il mazzo di fiori, affisse l’articolo di giornale che riportava la notizia su Rufy e la sua ciurma, sistemò le tazzine e versò il sakè, il tutto senza aggiungere una parola. 
Non ce ne fu bisogno, appunto.
Si erano già detti tutto, non doveva aggiungere altro. Solo, doveva ancora rispondere alla richiesta di Ace, poiché aveva intuito l’allusione che aveva fatto.
Lui gli stava lasciando il suo frutto, ritenendolo l’unico che fosse degno di possederlo.
Lui gli stava lasciando il suo ruolo di fratello maggiore, cedendogli l’arduo compito di proteggere Rufy. 
Ace era morto, ma Sabo era tornato in vita; si poteva quasi dire che fosse stato il moro a farlo rinascere, a farlo risorgere.
Per questa ragione, il biondo stette a fissare la tomba senza far nulla, facendosi trasportare dal vento, aggiustandosi il cappello sul capo e sorridendo malinconico nel ricordare le immagini del sogno.
Poi, alzò lo sguardo, un ultimo sorriso d’intesa a dipingergli le labbra, quasi come se la figura di Ace non fosse solo nel sogno, ma fosse anche lì, nella realtà, ma lui non poteva vederla. Ed è per questo che le uniche parole che disse, erano rivolte a lui. 
«Lo farò.» 

Un uomo è fatto anche di ricordi.
Privatelo di questi e vedrete che non gli sarà rimasto più nulla.




Parla l’autrice che scrive cose senza senso:
In attesa dello special, ecco a voi una storia fresca fresca su Ace e Sabo!
(tanto lo so che scriverò qualcosa anche dopo averlo visto, me lo sento fin nelle viscere…)
Che dire, era da un po’ che volevo scrivere una storia solo su loro due, perché mi sembra che il loro rapporto venga trattato poco in questo fandom; ritengo che sia uno dei più importanti, in quanto Sabo e Ace erano già amici prima che arrivasse anche Rufy a combinar danni. 
E volevo scrivere anche qualcosa che trattasse dello struggente, quanto attesissimo, flashback di Sabo: credetemi, Oda ha fatto la mia gioia con quel capitolo! *^*
Così ho deciso di impelagarmi in una storia che doveva – e, ripeto, doveva – essere importante, almeno quanto l’amore che sprizzano questi due che, per Rufy, hanno sempre dato il massimo. Sarò esagerata io, l’ammetto, ma questi personaggi mi piacciano proprio per questo! <3
Ho inserito la nota “Nosense” e il motivo mi sembra evidente: dopo aver visto un AMV su Internet ed essermi, di conseguenza, messa a piangere come non mai, mi sono chiesta cosa si sarebbero detti Ace e Sabo se ne avessero avuto la possibilità. Perciò, spero che questa versione strana delle tante che mi sono venute in mente vi sia piaciuta! :’3
In conclusione, vorrei ringraziare chiunque abbia letto e chiunque sia disposto a lasciare un’opinione, soprattutto se questa riguarda la caratterizzazione dei personaggi, che è il mio incubo peggiore. 
E adesso, aspettiamo tutti insieme di struggerci con questo agognato special! (?) :’D
Countdown: -6
Alla prossima e mai più,
_Lady di inchiostro_

P.S: la frase finale l’ho trovata su Tumblr. Se conoscete l’autore, vi chiedo di farmelo sapere. 
  
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