Lacrime di sangue
Li sentivo
ridere. Si divertivano in quella sudicia camera che per tante notti mi
aveva tenuta prigioniera. Quella stessa stanza che mi aveva fatto
perdere la ragione.
Dalla finestra vidi che era già sera inoltrata. La luna
risplendeva, illuminava i campi di grano e batteva sulle mura della
nostra villa.
Salii le scale con la Firestar impugnata da entrambe le mani; sentivo
battere il mio cuore, il ritmo veloce che teneva era assordante. Ora
basta.
Ero stanca di subire. Non avrei più dovuto tacere.
Sentivo quei concitati sospiri attraversare la porta e stordirmi a tal
punto da farmi venire la nausea. Lo stavano rifacendo quei maledetti
bastardi.
Sperai per loro che ne fosse valsa la pena perché presto
tutto sarebbe finito.
Niente più violenze né dolorose punizioni. E
finalmente avrei vendicato mio padre.
Mi appostai proprio dietro la porta e sentii mia madre gemere.
Quella dannata puttana!
Come diamine ha fatto mio padre a sposare una troia simile?
Mio padre, quell’uomo dal cuore d’oro che mi
leggeva sempre le favole prima di andare a dormire.
Quell’uomo dalla vivacità contagiosa che mi aveva
insegnato a giocare a baseball.
Tutto era solo un lontano ricordo, morto insieme al corpo esanime
dell’unica persona al mondo che mi aveva voluto bene.
Mia madre, quella stronza dal cuore di ghiaccio che lo aveva sedotto
solo per avere i suoi soldi, lo aveva ucciso. Chi mai lo sapeva che
aveva anche un amante?
Ma, crescendo, lo capii.
Capii perché vedevo quell’estraneo entrare in casa
nostra ogni sera e perché ne usciva solo a tarda mattinata.
Compresi il motivo per cui gli occhi languidi di mia madre
scintillavano ogni qualvolta il campanello suonava.
E imparai a temere quei momenti. Imparai a nascondermi quando la porta
d’ingresso si apriva.
Sul mio viso si potevano ancora scorgere le cicatrici che lui mi aveva
inflitto. Riuscivo ancora a sentire il freddo metallo del suo anello
lacerarmi il labbro mentre cadevo a terra, spinta dalla forza del suo
pugno. E riuscivo a vedere mia madre stare ancora in disparte mentre
l’ennesimo schiaffo del suo ragazzo mi frastornava, mi apriva
nuovi tagli, mi doleva.
Strinsi con forza il calcio della pistola, rinvigorita da nuova
adrenalina, la rabbia repressa che per tanti anni avevo dovuto
sopprimere e che ora finalmente sentivo scorrere nelle vene.
Tolsi la sicura alla Firestar, pronta a diventare ciò che
una normale sedicenne non avrebbe mai dovuto essere. Un’
assassina.
Tirai fuori dalla tasca la chiave di riserva della stanza e la infilai
nella serratura cercando di fare il minor rumore possibile. Il mio
cuore pompava rapido il sangue in tutto il corpo e il sudore mi
imperlava la fronte, ma non avevo paura. Fremevo per
l’eccitazione di poter porre fine a quell’inferno.
E l’avrei fatto senza esitare.
Feci scattare la mandata e diedi un calcio alla porta con la potenza di
una furia. Finalmente lo tenevo sotto tiro.
Il loro gioco perverso s’interruppe all’istante e
fissai negli occhi esangui la mia rovina. La sua espressione si
contendeva l’ira e il terrore. Sapevo di avere lo sguardo di
una carnefice. Freddo come il gelido inverno. Lo sguardo di chi non
avrebbe titubato.
“Muori, figlio di puttana.” ringhiai e, nello
stesso istante, premetti il grilletto.
La pallottola gli bucò la fronte nel perfetto centro e solo
quando lo vidi accasciarsi su mia madre seppi di averlo ucciso. Le urla
di quella donna sovrastarono ogni mio pensiero.
Lo avevo ammazzato e mi sentivo libera. Se quel sentimento era
sbagliato, non me ne rammaricai. Ormai la pazzia si era impossessata di
me dandomi come ultimo obbiettivo la pura e dolce vendetta.
Presi la mira e, un secondo dopo, le grida cessarono. Mio padre era
stato vendicato a dovere. Lasciai quei due mostri a giacere su quello
sporco materasso, esattamente dove avevano deciso di eseguire la loro
ultima, sadica danza.
Ora ero io a voler rivendicare la mia vita.
Scagliai la pistola sul pavimento del corridoio.
Ora toccava ai figli di quella carogna. Quei piccoli depravati che mia
madre aveva accettato in grembo e cresciuto con tanto amore.
L’amore che io non avevo mai ricevuto.
Entrai nella stanza del più grande. Lo trovai rannicchiato
sotto le coperte che tremava tanto era impaurito.
Vedendomi, si scoprì un poco e mi fissò con occhi
pieni di spavento.
“Ho sentito degli spari. Cos’è successo,
Roxanne?”
La sua voce vibrava di terrore. Di delizioso terrore.
Mi sedetti sul bordo del suo lettino e gli carezzai la testa.
“Non è niente, piccolo. Tra poco sarà
tutto finito.”
Otto anni. Otto anni e già assomigliava in tutto e per tutto
a suo padre. Quella fronte alta e il mento pronunciato, quegli occhi
scuri che odiavo. Ancora ricordavo come quei pozzi neri mi fissavano
arrabbiati, come si divertivano a infliggermi del male.
Era morto. Giaceva nella camera affianco, ormai freddo, pallido, con un
bel buco in fronte. Ma si stava reincarnando in quel bambino. Non avrei
permesso che il suo ricordo sarebbe sopravvissuto. Mai.
Le mie mani, sporche di sangue invisibile, si strinsero intorno alla
gola di Michael e rinserrarono la presa quando prese a dimenarsi.
I suoi strilli morivano in gemiti silenziosi mentre tentava di
respirare. L’adrenalina mi impregnava i sensi incitandomi a
continuare.
Muori, muori. Salda i tuoi debiti e vendicami con il tuo sangue.
L’ultimo spasmo e le sue pupille si fecero vacue, sgranate
per la paura, mentre le sue gelide dita allentavano l’
appiglio sulle mie. La morte rubò la sua anima nera quando
un rivoletto di sangue prese a sgorgargli dal naso.
Mi alzai osservando il suo piccolo corpo inerte abbandonarsi al sonno
eterno.
Non potevo più fermarmi, ormai. Uscii da quella stanza con
l’odore della morte che esaltava l’essenza della
mia anima lacerata. Attraversai il corridoio fino a raggiungere la
porta chiusa delle gemelle. Piccole streghe che avrebbero seguito le
orme di quella troia che non era nemmeno degna di essere mia madre.
Avrebbero fatto la sua stessa fine.
Aprii la porta e le trovai dormienti nei loro due lettini, uguali come
loro. Non avrei permesso che soffiassero sulla sesta candelina della
torta. Meno impregnavano il mondo della loro malvagità e
meglio era.
Mio padre non c’entrava più con quella
carneficina. Ero io a volere il riscatto di sedici anni
d’inferno.
Al tenue chiarore della luna, le svegliai e le presi per mano
portandole giù, in cucina.
“Roxy, dove stiamo andando?” mi domandò
la piccola Celine.
“La mamma ha detto di darvi la medicina.”
Risposi desiderando di farle scomparire dal tenero faccino
quell’innocenza che non le apparteneva. Era crudele come lo
stronzo che l’aveva generata e nulla mi avrebbe illusa del
contrario.
Quelle piccole manine che stringevano le mie erano identiche a quelle
che avevano impugnato il fucile e premuto il grilletto contro mio
padre. La loro colpevolezza andava espiata. Il loro più
grande peccato doveva essere risarcito.
In cucina, si sedettero sulle sedie, assonnate come chi non sospetta di
nulla.
“Io non la voglio la medicina! E’
cattiva…” mugugnò Amelie,
l’altra gemella.
Mentre versavo la candeggina mista a coca-cola nei bicchieri dei
cartoni animati, mormorai: “Oh, ma questa è buona.
Sa di zucchero e vi farà diventare belle e magiche come
Sailor Moon.”
Era l’unico modo per ucciderle insieme. Se ne avessi
strozzata una, l’altra si sarebbe svegliata e non avevo tempo
di rincorrere una stupida mocciosa per tutta la casa.
“Bevete.”
Porsi loro il cocktail mortale e tremai d’eccitazione mentre
lo ingoiavano sorso dopo sorso.
“E’ un po’ amaro.”
commentò Celine.
“Vedrai che ti farà bene.” Le dissi.
Le riaccompagnai in camera e si addormentarono con il veleno che
già circolava nel loro giovane stomaco.
Chiusi per un attimo gli occhi e respirai profondamente. Stavo per
completare l’opera. Stavo per uccidere una parte di me e ne
ero felice.
Entrai in camera mia dove la culla era installata vicino al letto.
Dentro dormiva la progenie di Satana.
Mi avvicinai a guardare quella creatura che riposava e mi venne il
voltastomaco quando notai come quei piccoli ciuffi scompigliati avevano
il mio stesso colore di capelli. Quello non era mio figlio. Era il seme
dell’erede di quel bastardo che mi aveva crudelmente imposto
in grembo tredici mesi fa.
Lo presi in braccio senza percepire quell’affetto materno che
caratterizzava tutte le madri. L’unico ricordo che quella
creatura risvegliava nella mia mente era il profondo dolore che avevo
subito per metterla al mondo. Niente ci legava, nessun affetto ero
disposta a concedergli.
Estrassi il coltello dalla tasca interiore dei pantaloni e lo appoggiai
a terra mentre le sue piccole dita cercavano invano il mio seno. Quello
che per quattro mesi lo aveva nutrito con ribrezzo. Gli avevo donato il
mio latte e niente più gli avrei concesso.
“Come ti ho fatto nascere ora posso farti morire.”
Con quelle parole gli recisi lentamente l’arteria del collo
con la lama affilata.
Potevo sentire ogni giuntura della morbida pelle che si squarciava come
fosse stata la mia. Il mio stomaco prese a contorcersi mentre le mani
si bagnavano di sangue caldo, giovane, viscido. Esattamente come il
ragazzo che mi aveva ingravidato.
Il suo strillo mi penetrò nella testa e urlai anche io.
Strinsi l’elsa e affondai la lama più a fondo che
potevo toccando la trachea. Ucciso così piccolo, mio figlio
da me rinnegato sciolse l’ultimo legame che avevo con
Andrè. Ora non era più padre di nessuno e non
poteva più rivendicare i suoi diritti.
Sarebbe stata la mia ultima vittima quel figlio di puttana che mi aveva
preso con la forza e imprigionato in quella casa.
Sentii la macchina del diciottenne che rientrava nel cortile dopo una
notte di passione con una di quelle battone che lo facevano estasiare
per il loro piacere. Sapevo che aspettava solo di potermi sbattere sul
letto ancora una volta. Ma quella sera sarebbe andata diversamente.
Con il sangue scuro che iniziava a sporcare la moquette, mi alzai e
corsi nel corridoio per recuperare la Firestar metallizzata. Rimaneva
una sola pallottola da utilizzare e sapevo di non poter sbagliare. E
non avrei sbagliato.ora una volta.tte di passione con una di quelle
battone che lo facevan
Scesi le scale con slancio percependo il mio corpo scattante come mai
prima di allora.
Mi bloccai a qualche metro davanti alla porta d’ingresso e,
nell’ombra notturna, attesi con le braccia tese e
l’indice posato sul grilletto.
La chiave scattò nella serratura mentre il mio cuore stanco
martellava nel petto come non mai.
La figura di quel bastardo comparve indefinita, delineandosi in ogni
suo particolare quando accese la luce, ignaro di cosa lo aspettava.
I suoi occhi guizzarono sul mio corpo e si sgranarono quando
incontrarono i miei.
“Piaciuta la scopata di stanotte, tesoro?” lo
schermii con notevole disgusto nel tono di voce che usai.
Sapevo di avere le iridi che lampeggiavano rosso fuoco e ne fui
compiaciuta. Nessuno di loro sarebbe sopravvissuto all’alba
successiva.
“Roxanne, metti via quell’arnese.” mi
implorò quasi. Era stanato come una preda che stava per
diventare cibo del predatore.
“Spiacente.” dissi con finto rammarico
“Tu sei l’ultimo.”
Lo sparo riempì il silenzio circostante mentre sul suo petto
si formava una chiazza rossa che si allargava secondo dopo secondo. La
sua espressione sgomentata lo accompagnò fino alla tomba.
Crollò sul tappeto e lo lasciai lì a dissanguare,
proprio come lui aveva fatto con me quando mi aveva posseduta per la
prima volta.
La pistola mi scivolò dalle mani. Ora tutto taceva.
Quel silenzio divenne assordante mentre l’adrenalina cessava
di inebriarmi i sensi e le lacrime colpevoli prendevano a scorrermi
sulle guance come lava incandescente.
Era finita e ne ero felice.
Con il sorriso sulle labbra salii le scale e tornai in camera mia dove
giaceva per terra il figlio rinnegato di Satana. Sputai sul pavimento
come a sottolineare il mio disprezzo e aprii la porta finestra che dava
sul mio balcone.
La luna spiccava sovrana dal mantello nero del cielo notturno, bianca e
argentea come mai l’avevo vista. Le stelle le facevano
compagnia risplendendo come lucciole al suo fianco.
Mai avevo apprezzato la bellezza di quella semplice visione ed ora
finalmente potevo farlo senza timore.
“Ce l’ho fatta, papà.”
mormorai sorridente.
Risi e lo feci con gusto.
Ero libera. Mi sentivo libera.
Strinsi le sporche mani di sangue coagulato alla ringhiera del balcone
e con un dolce pensiero che aleggiava nella mia mente, mi buttai.
Con il vento che mi sferzava i capelli e le lacrime di gioia che si
gettavano nel vuoto come il resto di me, pensai: “Ho vinto,
papà, e ora ti raggiungo.”
Racconto vincitore del 5° Contest indetto dal Writer's Dream Forum
Con affetto, Karim.