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Autore: Shadeyes    31/01/2009    5 recensioni
Fanfiction trasferita
Racconto vincitore del 5° Concorso indetto dal Writer's Dream Forum.
“Muori, figlio di puttana.” ringhiai e, nello stesso istante, premetti il grilletto.
Genere: Dark, Drammatico | Stato: completa
Tipo di coppia: non specificato
Note: nessuna | Avvertimenti: nessuno
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Lacrime di sangue


Li sentivo ridere. Si divertivano in quella sudicia camera che per tante notti mi aveva tenuta prigioniera. Quella stessa stanza che mi aveva fatto perdere la ragione.
Dalla finestra vidi che era già sera inoltrata. La luna risplendeva, illuminava i campi di grano e batteva sulle mura della nostra villa.
Salii le scale con la Firestar impugnata da entrambe le mani; sentivo battere il mio cuore, il ritmo veloce che teneva era assordante. Ora basta.
Ero stanca di subire. Non avrei più dovuto tacere.
Sentivo quei concitati sospiri attraversare la porta e stordirmi a tal punto da farmi venire la nausea. Lo stavano rifacendo quei maledetti bastardi.
Sperai per loro che ne fosse valsa la pena perché presto tutto sarebbe finito.
Niente più violenze né dolorose punizioni. E finalmente avrei vendicato mio padre.
Mi appostai proprio dietro la porta e sentii mia madre gemere.
Quella dannata puttana!
Come diamine ha fatto mio padre a sposare una troia simile?
Mio padre, quell’uomo dal cuore d’oro che mi leggeva sempre le favole prima di andare a dormire. Quell’uomo dalla vivacità contagiosa che mi aveva insegnato a giocare a baseball.
Tutto era solo un lontano ricordo, morto insieme al corpo esanime dell’unica persona al mondo che mi aveva voluto bene.
Mia madre, quella stronza dal cuore di ghiaccio che lo aveva sedotto solo per avere i suoi soldi, lo aveva ucciso. Chi mai lo sapeva che aveva anche un amante?
Ma, crescendo, lo capii.
Capii perché vedevo quell’estraneo entrare in casa nostra ogni sera e perché ne usciva solo a tarda mattinata. Compresi il motivo per cui gli occhi languidi di mia madre scintillavano ogni qualvolta il campanello suonava.
E imparai a temere quei momenti. Imparai a nascondermi quando la porta d’ingresso si apriva.
Sul mio viso si potevano ancora scorgere le cicatrici che lui mi aveva inflitto. Riuscivo ancora a sentire il freddo metallo del suo anello lacerarmi il labbro mentre cadevo a terra, spinta dalla forza del suo pugno. E riuscivo a vedere mia madre stare ancora in disparte mentre l’ennesimo schiaffo del suo ragazzo mi frastornava, mi apriva nuovi tagli, mi doleva.
Strinsi con forza il calcio della pistola, rinvigorita da nuova adrenalina, la rabbia repressa che per tanti anni avevo dovuto sopprimere e che ora finalmente sentivo scorrere nelle vene.
Tolsi la sicura alla Firestar, pronta a diventare ciò che una normale sedicenne non avrebbe mai dovuto essere. Un’ assassina.
Tirai fuori dalla tasca la chiave di riserva della stanza e la infilai nella serratura cercando di fare il minor rumore possibile. Il mio cuore pompava rapido il sangue in tutto il corpo e il sudore mi imperlava la fronte, ma non avevo paura. Fremevo per l’eccitazione di poter porre fine a quell’inferno. E l’avrei fatto senza esitare.
Feci scattare la mandata e diedi un calcio alla porta con la potenza di una furia. Finalmente lo tenevo sotto tiro.
Il loro gioco perverso s’interruppe all’istante e fissai negli occhi esangui la mia rovina. La sua espressione si contendeva l’ira e il terrore. Sapevo di avere lo sguardo di una carnefice. Freddo come il gelido inverno. Lo sguardo di chi non avrebbe titubato.
“Muori, figlio di puttana.” ringhiai e, nello stesso istante, premetti il grilletto.
La pallottola gli bucò la fronte nel perfetto centro e solo quando lo vidi accasciarsi su mia madre seppi di averlo ucciso. Le urla di quella donna sovrastarono ogni mio pensiero.
Lo avevo ammazzato e mi sentivo libera. Se quel sentimento era sbagliato, non me ne rammaricai. Ormai la pazzia si era impossessata di me dandomi come ultimo obbiettivo la pura e dolce vendetta.
Presi la mira e, un secondo dopo, le grida cessarono. Mio padre era stato vendicato a dovere. Lasciai quei due mostri a giacere su quello sporco materasso, esattamente dove avevano deciso di eseguire la loro ultima, sadica danza.
Ora ero io a voler rivendicare la mia vita.
Scagliai la pistola sul pavimento del corridoio.
Ora toccava ai figli di quella carogna. Quei piccoli depravati che mia madre aveva accettato in grembo e cresciuto con tanto amore. L’amore che io non avevo mai ricevuto.
Entrai nella stanza del più grande. Lo trovai rannicchiato sotto le coperte che tremava tanto era impaurito.
Vedendomi, si scoprì un poco e mi fissò con occhi pieni di spavento.
“Ho sentito degli spari. Cos’è successo, Roxanne?”
La sua voce vibrava di terrore. Di delizioso terrore.
Mi sedetti sul bordo del suo lettino e gli carezzai la testa.
“Non è niente, piccolo. Tra poco sarà tutto finito.”
Otto anni. Otto anni e già assomigliava in tutto e per tutto a suo padre. Quella fronte alta e il mento pronunciato, quegli occhi scuri che odiavo. Ancora ricordavo come quei pozzi neri mi fissavano arrabbiati, come si divertivano a infliggermi del male.
Era morto. Giaceva nella camera affianco, ormai freddo, pallido, con un bel buco in fronte. Ma si stava reincarnando in quel bambino. Non avrei permesso che il suo ricordo sarebbe sopravvissuto. Mai.
Le mie mani, sporche di sangue invisibile, si strinsero intorno alla gola di Michael e rinserrarono la presa quando prese a dimenarsi.
I suoi strilli morivano in gemiti silenziosi mentre tentava di respirare. L’adrenalina mi impregnava i sensi incitandomi a continuare.
Muori, muori. Salda i tuoi debiti e vendicami con il tuo sangue.
L’ultimo spasmo e le sue pupille si fecero vacue, sgranate per la paura, mentre le sue gelide dita allentavano l’ appiglio sulle mie. La morte rubò la sua anima nera quando un rivoletto di sangue prese a sgorgargli dal naso.
Mi alzai osservando il suo piccolo corpo inerte abbandonarsi al sonno eterno.
Non potevo più fermarmi, ormai. Uscii da quella stanza con l’odore della morte che esaltava l’essenza della mia anima lacerata. Attraversai il corridoio fino a raggiungere la porta chiusa delle gemelle. Piccole streghe che avrebbero seguito le orme di quella troia che non era nemmeno degna di essere mia madre. Avrebbero fatto la sua stessa fine.
Aprii la porta e le trovai dormienti nei loro due lettini, uguali come loro. Non avrei permesso che soffiassero sulla sesta candelina della torta. Meno impregnavano il mondo della loro malvagità e meglio era.
Mio padre non c’entrava più con quella carneficina. Ero io a volere il riscatto di sedici anni d’inferno.
Al tenue chiarore della luna, le svegliai e le presi per mano portandole giù, in cucina.
“Roxy, dove stiamo andando?” mi domandò la piccola Celine.
“La mamma ha detto di darvi la medicina.”
Risposi desiderando di farle scomparire dal tenero faccino quell’innocenza che non le apparteneva. Era crudele come lo stronzo che l’aveva generata e nulla mi avrebbe illusa del contrario.
Quelle piccole manine che stringevano le mie erano identiche a quelle che avevano impugnato il fucile e premuto il grilletto contro mio padre. La loro colpevolezza andava espiata. Il loro più grande peccato doveva essere risarcito.
In cucina, si sedettero sulle sedie, assonnate come chi non sospetta di nulla.
“Io non la voglio la medicina! E’ cattiva…” mugugnò Amelie, l’altra gemella.
Mentre versavo la candeggina mista a coca-cola nei bicchieri dei cartoni animati, mormorai: “Oh, ma questa è buona. Sa di zucchero e vi farà diventare belle e magiche come Sailor Moon.”
Era l’unico modo per ucciderle insieme. Se ne avessi strozzata una, l’altra si sarebbe svegliata e non avevo tempo di rincorrere una stupida mocciosa per tutta la casa.
“Bevete.”
Porsi loro il cocktail mortale e tremai d’eccitazione mentre lo ingoiavano sorso dopo sorso.
“E’ un po’ amaro.” commentò Celine.
“Vedrai che ti farà bene.” Le dissi.
Le riaccompagnai in camera e si addormentarono con il veleno che già circolava nel loro giovane stomaco.
Chiusi per un attimo gli occhi e respirai profondamente. Stavo per completare l’opera. Stavo per uccidere una parte di me e ne ero felice.
Entrai in camera mia dove la culla era installata vicino al letto. Dentro dormiva la progenie di Satana.
Mi avvicinai a guardare quella creatura che riposava e mi venne il voltastomaco quando notai come quei piccoli ciuffi scompigliati avevano il mio stesso colore di capelli. Quello non era mio figlio. Era il seme dell’erede di quel bastardo che mi aveva crudelmente imposto in grembo tredici mesi fa.
Lo presi in braccio senza percepire quell’affetto materno che caratterizzava tutte le madri. L’unico ricordo che quella creatura risvegliava nella mia mente era il profondo dolore che avevo subito per metterla al mondo. Niente ci legava, nessun affetto ero disposta a concedergli.
Estrassi il coltello dalla tasca interiore dei pantaloni e lo appoggiai a terra mentre le sue piccole dita cercavano invano il mio seno. Quello che per quattro mesi lo aveva nutrito con ribrezzo. Gli avevo donato il mio latte e niente più gli avrei concesso.
“Come ti ho fatto nascere ora posso farti morire.”
Con quelle parole gli recisi lentamente l’arteria del collo con la lama affilata.
Potevo sentire ogni giuntura della morbida pelle che si squarciava come fosse stata la mia. Il mio stomaco prese a contorcersi mentre le mani si bagnavano di sangue caldo, giovane, viscido. Esattamente come il ragazzo che mi aveva ingravidato.
Il suo strillo mi penetrò nella testa e urlai anche io. Strinsi l’elsa e affondai la lama più a fondo che potevo toccando la trachea. Ucciso così piccolo, mio figlio da me rinnegato sciolse l’ultimo legame che avevo con Andrè. Ora non era più padre di nessuno e non poteva più rivendicare i suoi diritti.
Sarebbe stata la mia ultima vittima quel figlio di puttana che mi aveva preso con la forza e imprigionato in quella casa.
Sentii la macchina del diciottenne che rientrava nel cortile dopo una notte di passione con una di quelle battone che lo facevano estasiare per il loro piacere. Sapevo che aspettava solo di potermi sbattere sul letto ancora una volta. Ma quella sera sarebbe andata diversamente.
Con il sangue scuro che iniziava a sporcare la moquette, mi alzai e corsi nel corridoio per recuperare la Firestar metallizzata. Rimaneva una sola pallottola da utilizzare e sapevo di non poter sbagliare. E non avrei sbagliato.ora una volta.tte di passione con una di quelle battone che lo facevan
Scesi le scale con slancio percependo il mio corpo scattante come mai prima di allora.
Mi bloccai a qualche metro davanti alla porta d’ingresso e, nell’ombra notturna, attesi con le braccia tese e l’indice posato sul grilletto.
La chiave scattò nella serratura mentre il mio cuore stanco martellava nel petto come non mai.
La figura di quel bastardo comparve indefinita, delineandosi in ogni suo particolare quando accese la luce, ignaro di cosa lo aspettava.
I suoi occhi guizzarono sul mio corpo e si sgranarono quando incontrarono i miei.
“Piaciuta la scopata di stanotte, tesoro?” lo schermii con notevole disgusto nel tono di voce che usai.
Sapevo di avere le iridi che lampeggiavano rosso fuoco e ne fui compiaciuta. Nessuno di loro sarebbe sopravvissuto all’alba successiva.
“Roxanne, metti via quell’arnese.” mi implorò quasi. Era stanato come una preda che stava per diventare cibo del predatore.
“Spiacente.” dissi con finto rammarico “Tu sei l’ultimo.”
Lo sparo riempì il silenzio circostante mentre sul suo petto si formava una chiazza rossa che si allargava secondo dopo secondo. La sua espressione sgomentata lo accompagnò fino alla tomba. Crollò sul tappeto e lo lasciai lì a dissanguare, proprio come lui aveva fatto con me quando mi aveva posseduta per la prima volta.
La pistola mi scivolò dalle mani. Ora tutto taceva.
Quel silenzio divenne assordante mentre l’adrenalina cessava di inebriarmi i sensi e le lacrime colpevoli prendevano a scorrermi sulle guance come lava incandescente.
Era finita e ne ero felice.
Con il sorriso sulle labbra salii le scale e tornai in camera mia dove giaceva per terra il figlio rinnegato di Satana. Sputai sul pavimento come a sottolineare il mio disprezzo e aprii la porta finestra che dava sul mio balcone.
La luna spiccava sovrana dal mantello nero del cielo notturno, bianca e argentea come mai l’avevo vista. Le stelle le facevano compagnia risplendendo come lucciole al suo fianco.
Mai avevo apprezzato la bellezza di quella semplice visione ed ora finalmente potevo farlo senza timore.
“Ce l’ho fatta, papà.” mormorai sorridente.
Risi e lo feci con gusto.
Ero libera. Mi sentivo libera.
Strinsi le sporche mani di sangue coagulato alla ringhiera del balcone e con un dolce pensiero che aleggiava nella mia mente, mi buttai.
Con il vento che mi sferzava i capelli e le lacrime di gioia che si gettavano nel vuoto come il resto di me, pensai: “Ho vinto, papà, e ora ti raggiungo.”

Fine

Racconto vincitore del 5° Contest indetto dal Writer's Dream Forum

Con affetto, Karim.





   
 
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