XVII
Il
sequestro di Aldo Moro aveva cambiato tutto.
Lo aveva fatto
all'interno del quarto Governo Andreotti, che aveva ricevuto la
fiducia proprio il giorno del rapimento e si trovava a gestire una
situazione nuova sotto ogni punto di vista; lo aveva fatto nella
stessa Democrazia Cristiana, che si vedeva privata del suo Presidente
oltre che in un leader di correte, un tassello di certo fondamentale
per tenere insieme le mille anime del partito che da oltre trent'anni
governava l'Italia.
Ancora di più, se possibile, lo aveva fatto
nel Pci di Berlinguer.
I Comunisti, non un gruppo marginale nel
panorama politico dell'epoca, vedevano da almeno due anni l'Onorevole
Moro come il collegamento tra loro e l'approdo all'esecutivo, prima
con altri e poi magari anche da soli, ma quell'attacco allo Stato,
per altro operato da persone che dicevano di rifarsi alla loro stessa
ideologia, rimetteva di nuovo in discussione ogni futura azione od
occasione politica.
Soprattutto, però, i più sconvolti dalla
situazione erano i cittadini comuni che, per quanto tristemente
abituati alla striscia di sangue degli anni precedenti, si vedevano
incapaci di paragonare quella vicenda a tutte le altre, come se la
vita di un politico contasse più di quella di un uomo
qualunque. Di
certo Aldo Moro era diventato un argomento di discussione molto
più
interessante da quando era in mano ai terroristi, soprattutto vista
l'ilare magnanimità delle Brigate Rosse nel concedere al
prigioniero la possibilità di inviare lettere a colleghi e
compagni
di partito.
Se il povero Democristiano sperava di aprirsi tramite
quello un canale per il dialogo tra i suoi e i rapitori,
però, aveva
completamente sbagliato, perché da parte sua la DC aveva fin
dall'inizio chiuso le porta ad ogni possibilità di
trattativa, pur
conoscendo l'alto prezzo che avrebbero pagato a causa di quella
scelta.
Non solo; per motivi incomprensibili ai più il partito di
governo stava anche facendo passare il messaggio che quelle epistole
avessero solo la grafia di Aldo Moro, e che quindi i pensieri
espressi appartenessero ad altra mate, quella di qualcuno che glieli
dettava o la sua stessa ma drogata da qualche sostanza.
Al popolo,
probabilmente, di tutto quello poco importava, volevano solo che il
sequestro si concludesse il più rapidamente possibile,
magari in
modo positivo, e che il paese tornasse a una vita normale, senza
l'assurda paura che quel periodo metteva in tutti, indipendentemente
dal ruolo sociale o dalla posizione politica.
Il giorno del
rapimento, quel sedici di Marzo, la signora Maria era nel centro di
Roma con una collega per fare acquisti.
Era una mattina di inizio
primavera e diversi pensieri affollavano la mente della donna; il
compleanno della figlia, che cinque giorni dopo avrebbe fatto
vent'anni, e il secondo anniversario della morte di Rodolfo, che
sarebbe invece caduto esattamente due settimane più tardi.
Cercava
quindi di bilanciare tristezza e gioia come ormai da tempo era
costretta a fare per vivere in modo normale, anche se spesso tutto
crollava sotto il peso dell'ultimo dolore della sua vita,
l'allontanamento del figlio Bruno.
Per questo quando verso le
undici si erano fermate, lei e l'amica, ad un bar per un aperitivo e
avevano scoperto della drammatica azione di via Fani si era sentita
male, soprattutto alla vista dei corpi senza vita degli uomini della
scorta e al pensiero delle loro famiglie, costrette a vivere una
tragedia simile alla sua per colpa di qualche sedicente
rivoluzionari.
Era rimasta apatica per giorni, la signora Maria;
certo, aveva continuato a fare come se nulla fosse, discutendo anche
un poco di quello che era accaduto, ma qualcosa dentro di lei si era
rotto per la seconda volta dopo la strage, e il triste anniversario
di fine mese fu molto più pesante di quello che si
immaginava.
In
tutta quella situazione, poi, come ogni madre italiana, la donna si
sentiva obbligata a proteggere il suo figlio più piccolo,
Guido, che
con i suoi nove anni e mezzo era ancora un bambino, e dopo
ciò che
aveva già vissuto non si meritava di soffrire nuovamente per
la sola
colpa di essere nato in Italia nel momento sbagliato.
Ninni, che
qualcosa aveva capito ma non molto, si era però intristito
parecchio
quando aveva visto passare in televisione le immagini dei funerali
degli agenti di scorta, poiché gli avevano ricordato quelli
di suo
papà.
Un venerdì pomeriggio di brutto tempo, era l'inizio di
Aprile, Mirella si trovava a casa a studiare, chiusa nella sua
camera.
Continuava a dividersi tra lo studio, la famiglia,
Maurizio e il suo terribile segreto, che in quel periodo faceva
indubbiamente i conti con la situazione del paese.
Manlio aveva
deciso di fermarsi un po' con le azioni, almeno finché le
acque non
si fossero un minimo calmate, ma non tutti i compagni si trovavano
d'accordo con questa visione delle cose, e le discussioni in via
Gozzi si facevano sempre più accese.
Mirella,
per l'appunto, cercava di star fuori da tutto quello per concentrarsi
sullo studio e le altre attività che la rendevano
insospettabile.
Continuava, inoltre, ad avere i sensi di colpa per quello che
faceva; anche se era l'unico modo per vendicare suo padre sapeva che
prima o poi si sarebbe trovata a ferire o addirittura ad uccidere, e
quel pensiero la martoriava, anche nell'eventualità che
tutto
finisse nel migliore dei modi.
Il peso più grande era stata la
sua scelta, e da quella non poteva tornare indietro neanche smettendo
immediatamente ogni attività illegale.
Quel venerdì pomeriggio,
dunque, era sedut6a alla sua scrivania con il libro dell'esame che
stava preparando davanti agli occhi e la testa da tutt'altra parte
quando sentì un urlo provenire dalla sala della casa.
Riconobbe
subito la voce di sua madre e si preoccupò molto, tanto da
alzarsi
di scatto con il cuore in gola e correre nell'altra stanza.
Vide
subito la signora Maria muoversi frenetica intorno all'apparecchio
televisivo mentre Guido, rannicchiato su una poltrona, la guardava
con gli occhi tristi.
- Ma cosa è successo? Ti ho appena sentita
urlare!- Domandò la ragazza ancora agitata.
- Stavo guardando la
televisione ma la mamma me l'ha spenta... non volevo vedere nulla ma
sono annoiato, fuori piove e non so cosa fare, uffa.- Sbuffò
il
bambino.
Mirella voltò lo sguardo verso la madre in cerca di
risposte a quel suo comportamento; si ricordava che la televisione in
casa c'era sempre stata, anche quando il canale era solo uno, ma la
madre mai l'aveva spenta loro in quella maniera, neanche quando lei e
Bruno erano piccoli.
Quel pomeriggio qualcosa era evidentemente
diverso, lo si scorgeva negli occhi di quella donna che era sempre
stata forte e che, in quel momento, pareva fuori di sé,
quasi come
la sera in cui aveva buttato fuori di casa il figlio maggiore.
-
Puoi spiegare, mamma?- Le chiese cercando di mantenere la calma e,
soprattutto, di non dire nulla che potesse alterare ancora di
più
l'altra.
- C'erano quelle immagini di quando hanno rapito Moro,
quelle della sparatoria. Non le deve vedere, è solo un
bambino.-
Ripeté più volte quelle quattro parole
“è solo un bambino” e
Mirella, dopo un lungo respiro, chiese al fratellino di andare a
giocare un poco nella sua camera e lasciarle sole.
La signora
Maria iniziò a piangere e riprese a parlare –
È solo un bambino,
non deve vedere certe cose... è mio figlio, lo devo
proteggere...-
La ragazza le si avvicinò e le prese le mani che ancora
tremavano per il nervoso.
- Lo so, mamma, lo so che vuoi
proteggere Guido da tutto quello che accade in Italia ultimamente,
dal ricordo di come è morto papà, ma purtroppo
non lo possiamo
fare, e non perché siamo a rischio anche noi, ma
perché lui vede,
sente, sa, e per quanto sia assurdo e terribile crescerà
così, come
tutti i bambini della sua età, e non possiamo fare nulla per
impedirlo...-
La donna scoppiò in lacrime tra le braccia della
figlia, che per farle forza si obbligò a stringerla e
cacciare
indietro la sua voglia di piangere.
Come se i ruoli si fossero
invertiti.
- Più fastidiosi di posti di blocco e retate ci sono
solo certi compagni.- Aveva detto una sera in via Gozzi Manlio a
Chiara, Iris, Samuele e Agnese, la quale nel frattempo aveva assunto
il nome di battaglia di Claudia.
Il gruppo si stava avvicinando
irrimediabilmente a una rottura epocale, il capo banda lo sapeva e
non poteva farci nulla.
Quella storia di Moro li aveva messi in
un gioco molto più grande di loro, perché
benché non avessero
nulla a che fare né con il sequestro né con kle
BR tutta la
situazione del paese, in particolare quella della sinistra
extraparlamentare, li costringeva a prendere decisioni a cui non
avevano mai dato peso o minimamente pensato.
Già un paio di
settimane dopo il rapimento si era consumata la prima scissione con
un gruppo di quattro compagni guidati da Federico, tra i quali vi era
anche Giulio, e che visto il dramma che si stava consumando si era
chiamato fuori dal terrorismo a qualsiasi livello.
Manlio non
aveva detto nulla, la loro non era una scelta facile ed era
comprensibile che qualcuno, terminato l'entusiasmo iniziale, si
tirasse indietro spaventato, ma Graziano non la pensava allo stesso
modo, ed era seguito da tre o quattro altri compagni che viaggiavano
su posizioni simili, quelli con cui presto si sarebbero fatti i
conti.
Erano infatti convinti che proprio quello, così
confusionario, fosse il momento propizio per fare il salto verso il
terrorismo vero e proprio, su modello delle BR, forse anche entrando
nell'organizzazione di fondazione Milanese.
- A' Manlio, lassali
perde', nun te fa venì il fegato amaro pe' persone simili,
tanto
alla fine se vedrà chi davvero farà la
rivoluzione e chi invece
passerà la vita a guardare il solo a scacchi.- Gli disse
Samuele
girandosi uno spinello.
Già, la rivoluzione, pensò Manlio.
Beato quel ragazzetto che ci credeva ancora, sul serio.
Lui no,
lui aveva capito che erano in guerra, e al contrario di molti pensava
che la guerra non potesse contenere al suo interno una rivoluzione, e
bastava vedere la Russia per capirlo.
La verità era che la guerra
aveva bisogno di eserciti, gli eserciti di generali e i generali di
privilegi.
E
siccome i generali di certo non venivano dal proletariato una volta
finita la guerra avrebbero di certo voluto mantenere il loro status
impedendo quindi di fatto la fine delle differenze di classe.
No,
per lui la rivoluzione era un'altra cosa, qualcosa che partiva dal
basso e si sviluppava nei cuori e nelle menti delle persone prima di
tutto il resto, senza necessità di capi o generali,
perché la
scintilla sarebbe nata nei singoli, vero, ma tutti insieme.
A quel
punto la rivoluzione, spontanea e forte, sarebbe stata vittoriosa, e
l'approdo al comunismo vicino, privo anche del passaggio attraverso
la “dittatura del proletariato”.
Perché secondo Manlio il
termine stesso dittatura implicava l'esistenza di un nemico, ma
l'unico nemico era la classe borghese, e quella sarebbe stata
spazzata via già dalla rivoluzione.
Però
era tutto ancora molto lontano, e lui stesso sapeva che loro per
primi erano ben distanti dal poter fare la rivoluzione, un po'
perché
gerarchicamente organizzati, e quindi non del tutto comunisti, e un
po' perché, appunto, immersi in una guerra.
Il compito che gli
spettava, piuttosto, era risvegliare le coscienze e preparare il
terreno.
- Graziano non mi è mai piaciuto, ha sempre avuto un
modo di fare esageratamente provocatorio e questo, aldilà
delle
scelte che potrà fare, non lo porterà mai lontano.
A meno che
lontano non sia un camposanto, perché prima o poi uno
più grossi di
lui lo beccherà e saranno cazzi suoi.- Concluse.
- Sì, ma te
l'ho detto, davvero. Forse sarebbe meglio concentrarsi su di noi e su
quello che vogliamo fare quando tutto questo sarà finito,
no? Se poi
Graziano vole fa' er matto fatti sua, quella è la porta!-
Fu
l'ultimo commento serio di Samuele per quella sera prima che la canna
iniziasse a svolgere il suo lavoro di tranquillante e, come diceva
Manlio, rincoglionente.
lo strappo avvenne davvero, e fu circa dieci
giorni dopo, di nuovo di sera, quando l'indole provocatoria di
Graziano, che a volte pareva un fascista per come si poneva, si
scatenò contro il resto del gruppo.
- Non me ne sto con le mani
in mano mentre altri si danno da fare!- Aveva sentenziato urlando
dopo che Manlio aveva ribadito, ancora una volta, le sue posizioni.
-
Si danno da fare? Rapendo Moro? Ma lo vedi come lo stanno trattando i
suoi?! Stai a vedè che alla Dc le Biere stanno a fa' un
piacere,
altro che attacco finale ar core dello stato, l'attacco – de
core –
je viene ad Andreotti se Moro torna vivo, te lo dico io.-
-
Appunto! Per questo ti sto dicendo che abbiamo una grande
opportunità, perché se è vero che come
dici te le BR hanno
sbagliato significa che sono troppo pochi e troppo stupidi, quindi
hanno bisogno de 'na mano, no?-
- E che vorresti fare? Sparare a
Cossiga? Azzoppare Craxi? Rapire Berlinguere e chiedere ai rapitori
de Moro di farli incontrare e faje fa' il compromesso storico dalla
prigione del popolo? Finirai ar gabbio molto prima de vede' anche
solo da lontano le Brigate Rosse, fidate. Non è il momento.-
Graziano, però, non ci aveva visto più nel
momento stesso in
cui l'altro aveva parlato di galera, perché si poteva essere
di idee
e posizioni diverse, si poteva vedere in modo differente la faccenda
di Moro, ma era impensabile che un compagno augurasse il gabbio ad un
altro.
Lo sguardo del ragazzo si riempì di rabbia.
- Sai cosa
c'è, Danilo?- E lo chiamò con il nome reale di
proposito. - Che io
mi auguro di finicce, ar gabbio, e soprattutto me auguro de
incontravvece, perché a vedevve così me pare che
ben presto farete
la stessa fine de Federico e i suoi, altro che attendere per agire
senza rischi; voi avete paura adesso e l'avrete quando 'sta storia de
Moro sarà finita.
Speriamo di vederci davvero in galere,
“compagni”.-
Pronunciò l'ultima parola con sdegno, quasi a
volerli insultare neanche troppo velatamente.
Poi
fece segno a chi la pensava come lui di seguirlo fuori e
lasciò che
la porta dietro di sé sbattesse forte, forse per far
risuonare bene
il suo astio verso quelli che fino a qualche minuto prima erano stati
suoi compagni davvero.
Nell'appartamento erano rimasti gli stessi
della sera in cui avevano previsto quella scissione, e Samuele, che
stranamente non aveva toccato erba per tutta la giornata, si era
alzato di scatto impugnando la sua pistola appena l'ultimo dei
“cagnolini” di Graziano era uscito dietro al suo
padrone, ma
Manlio lo aveva immediatamente fermato con un gesto rapido.
-
Lascia perdere, questa volta sono io che lo dico a te.-
- È un
coglione, Ma', non so proprio come abbiamo fatto ad avere avuto a che
fare con una testa di cazzo del genere.-
Ma l'altro scosse la
testa. - Magari fosse un coglione, ci toglierebbe un sacco di
problemi. In realtà quello è una testa fina,
basta guardare come si
è comportato poco fa: poteva venire qui con la voglia di
fare a
botte, stasera, o peggio di giocare al pistolero, invece ha solo
parlato, convinto di riuscire a fregarci con la retorica.
Ah, se
non fosse così facinoroso e attratto dalle armi, dal sangue
e
dall'illegalità sarebbe un ottimo politico.- Disse
amaramente.
-
Sì ma adesso noi cosa facciamo?- Domandò a quel
punto Claudia, la
più piccola tra loro.
Manlio squadrò i compagni rimasti; erano
cinque lui compreso, e le donne vincevano per tre a due.
C'erano
Claudia e Chiara, entrambe, bastava guardarle, decisamente fuoriluogo
ma con la necessità di una vendetta diventata ormai
questione di
vita o di morte, che fosse la loro o quella di altri.
C'erano
Iris e Samuele, che nella rivoluzione e in un futuro migliore ci
credevano davvero, forse perché, lo si sapeva, erano
compagni di
vita prima ancora che di lotta, e chissà, magari speravano
un giorno
di avere dei bambini da crescere in un mondo diverso, più
bello.
E
poi c'era lui, il capo.
Non si era mai visto bene per quel ruolo,
e se avesse potuto scegliere non lo avrebbe fatto.
Ma non c'erano
state possibilità di scelta, per lui.
Per gli altri, invece...
-
Io ho deciso, rimango della mia opinione, voi potete scegliere se
seguire Graziano, scappare come ha fatto Federico oppure rimanere qui
ad aspettare.- Disse tranquillamente.
Tanto lo sapevano tutti;
prima o poi, in un modo o nell'altro, quella storia sarebbe dovuta
finire.
E
difatti finì poche settimane dopo, nel primo pomeriggio del
nove di
Maggio, quando il corpo di Aldo Moro fu ritrovato in un bagagliaio di
una macchina parcheggiata nel centro di Roma.
Mentre Bruno Vespa
dava la notizia Chiara era occupata con un esame universitario,
Claudia tornava da scuola e Iris e Samuele erano insieme da qualche
parte, forse intenti a scambiarsi piacere a vicenda.
Solo Manlio
era alla base di via Gozzi, e lì rimase tutto il giorno,
perché
sapeva che i compagni sarebbero andati a cercarlo per chiedergli cosa
fare a quel punto, e la sua risposta fu sempre e solo una;
“Sparite,
non venite qui intorno, non incontratevi tra di voi e non provate ad
incontrare me. Ci vediamo tra un settimana esatta, sempre qui, la
sera.
Tentante di esserci, se da lì a due giorni non
avrà
nessuna vostra notizia capirò che avete fatto un'altra
scelta.”
Esattamente sette giorni dopo, la sera del martedì,
quando furono certi che non ci sarebbero stati né la
rivoluzione né
un golpe, si rividero.
E c'erano tutti e cinque.
Note
dell'autrice
So di essere in ritardissimo, ma da
gennaio ad oggi ho fatto di tutto (viaggi, esami di
maturità,
pubblicazione di un libro).
Inoltre l'ispirazione andava e veniva
– sigh -.
Questo capitolo parla da sé, abbiamo lo svolgersi del
sequestro Moro e gli effetti che questo ha su chi vive vite regolari
e chi, invece, si dà al terrorismo.
Come avevo preannunciato – I think –
molti dei personaggi sono spariti, e vedremo ancora Pg andare e
venire, per cui i principali, credo si capisca, sono i cinque
rimasti, che come ho detto verranno chiamati quasi sempre con il nome
di battaglia.
Niente, io proverò a fare il possibile per non
tornare tra altri sette mesi, anche perché la storia
dovrebbe
contare – udite udite – CINQUANTA capitoli, e non
posso metterci
diciassette anni a finirla XD
Io abbraccio e bacio chiunque ancora
segua questo farneticante racconto e alla prossima! :D