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Autore: Ciacinski    22/08/2015    1 recensioni
L'ultima porta, posta proprio alla fine della via piastrellata, troneggiava orgogliosamente chiusa, seria ed autorevole, forse tanto quanto la persona dietro di essa. Quella era la parte principale della struttura: era l'ufficio del signor Muniz.
Genere: Generale, Mistero | Stato: completa
Tipo di coppia: Nessuna
Note: nessuna | Avvertimenti: nessuno
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Il signor Muniz


Lungo Via Garibaldi, in direzione Campo Marconi, non ci importa sapere in quale città, c'era una fermata del bus. Se avvicinandosi a questa fermata si fosse guardato a destra si sarebbe potuta notare una viuzza, un vicolo umidiccio come ce ne sono tanti nelle metropoli.
Lo si percorreva tranquillamente, stando attenti alle pozzanghere di acqua sporca per terra, causa occasionalmente di qualche imprecazione e di scarpe rovinate.
Uscendo si veniva investiti dall'aria più asciutta e fresca di erba di Viale dei Giardini, ci si sistemava la borsa, per chi l'avesse avuta, e si ripartiva, già dimenticato il vicolo.
 E con quella viuzza, il più delle volte, si tendeva a dimenticare anche l'edificio che le faceva da angolo, nonostante il pacchiano cartello giallo e viola che recitava "SIAMO APERTI" attaccato alla porta.
La grande maniglia di acciaio opaco sembrava supplicare di essere usata, di impugnarla per svelare il mistero che quella porta nera racchiudeva dietro di sè.
Il suo fascino magnetico strideva contro la vivacità della scritta, ma nemmeno un contrasto così netto riusciva ad attirare l'attenzione. Pochissimi, nemmeno i dipendenti, usavano quella porta.

Circa a metà del vicolo c'era una insignificante porta antincendio grigia. Era stata pensata come uscita di sicurezza, ma il maniglione anti panico dalla vernice scrostata suggeriva che fosse usata più spesso che non esclusivamente in caso di emergenza. Di fatto, quella porta fungeva da ingresso di servizio. Spingendo e varcandola, ci si ritrovava nella versione riveduta e corretta di un vecchio corridoio, ma dove una volta dovevano trovarsi le pareti, ora c'erano cubicoli di plastica, mini uffici di pochi metri quadrati. Ad indicare la vecchia struttura rimanevano solo le piastrelle bianche per terra, che caratterizzavano il corridoio, mentre nella zona dei cubicoli il pavimento era ricoperto da linoleum blu elettrico. Si proseguiva lungo il non-corridoio costellato di sedie di plastica per i clienti, passando oltre la misteriosa porta nera e lucida che dava sulla strada, trovando due stanze che ogni luogo di lavoro che si rispetti possiede: i bagni.
L'ultima porta, posta proprio alla fine della via piastrellata, troneggiava orgogliosamente chiusa, seria ed autorevole, forse tanto quanto la persona dietro di essa. Quella era la parte principale della struttura: era l'ufficio del signor Muniz.

Il signor Muniz era una persona importante, in tutti i sensi. La sua persona era importante: vantava un'altezza notevole e una naturale possenza, un fisico degno di un rugbista, ma con il passare degli anni la muscolatura si era nascosta sotto strati di grasso, appesantendolo e rallentandolo, ma senza indebolirlo. I suoi passi rimbombavano sulle piastrelle del corridoio, che ogni volta sembravano gemere sotto tutto quel peso.
Vestiva sempre in modo elegante: abito blu, camicia inamidata, cappotto di panno antracite d'inverno, ma la stazza lo costringeva ad alcuni accorgimenti, come la giacca doppiopetto sempre aperta o i primi due bottoni della camicia slacciati. Nonostante ciò, non dava un'impressione di sciatteria, quanto di disinvoltura.
Idea che si confermava vedendolo chiacchierare e scherzare con gli impiegati: sapeva essere gioviale, ma riconosceva i momenti in cui era necessario esercitare la sua autorità e spronare al lavoro.
Il signor Muniz era, per queste qualità, un direttore capace e rispettato, su cui poter contare con certezza, e l'ambiente rimaneva tranquillo ed organizzato: raramente sorgevano screzi fra i colleghi.

Quando il direttore arrivava all'ufficio, precisamente alle otto e mezza, veniva accolto da una serie di "Buongiorno signor Muniz" ancora impastati di sonno, oppure profumati al caffè. Si concedeva un attimo per inspirare l'aria polverosa e l'aroma delle bevande calde distribuite dalla macchinetta nell'angolo, dava il buongiorno ai suoi dipendenti, poi chiedeva cortesemente a Giulia, responsabile delle entrate in teoria, in pratica segretaria di tutti, di non passargli chiamate e che per quel giorno non avrebbe ricevuto clienti, quindi si avviava verso il suo ufficio, apriva la porta quel tanto che bastava per entrare senza permettere a nessuno sguardo curioso di dare una sbirciatina all'interno -la sua mole lo aiutava molto in questo- e si richiudeva la porta alle spalle.
Ci si poteva regolare l'orologio, il signor Muniz non sarebbe uscito da quella stanza per quattro ore esatte, quando a mezzogiorno e mezzo si sarebbe concesso una pausa: pranzava con i colleghi, portandosi sempre qualcosa da casa, faceva sosta al bagno e tappa alla macchina del caffè, quindi tornava nel suo ufficio con in mano il bicchierino di plastica fumante, e non lo si rivedeva fino all'orario di chiusura.
Se per un qualsiasi motivo gli impiegati avessero avuto bisogno di lui, bastava che bussassero, senza entrare, ci avrebbe pensato lui ad uscire per risolvere la situazione. Non che riuscisse sempre a venire a capo dei problemi, non era certo infallibile, ma la mano di una persona intelligente come lui faceva sempre comodo.
La giornata finiva alle 18.00 precise, le 16.00 il sabato. Gli impiegati salvavano sul computer il loro lavoro, firmavano con uno svolazzo l'ultima pratica, raccoglievano borse e giacche e se ne andavano. L'ufficio in fondo al corridoio era l'unico ancora occupato: all'interno il signor Muniz lo stava sistemando, riordinando e svuotando il secchio che faceva da cestino. Avrebbe potuto non occuparsene e lasciare che l'impresa di pulizie facesse il suo lavoro, ma preferiva essere il solo a mettere le mani su quella stanza. Una volta finito, chiudeva a chiave la porta dell'ufficio, dava la buonasera alle signore impegnate a pulire i cubicoli e le scrivanie, e usciva dalla porta anti incendio, alias porta di servizio. Alzava il bavero della giacca per ripararsi dall'umidità della sera, e se ne tornava a casa.
Sembrava che la vita del signor Muniz ruotasse intorno al suo lavoro: nessuno lo aveva mai visto a passeggio per la città o a prendere una birra al bar con gli amici. Ma per quanto i suoi dipendenti lo rispettassero, a nessuno realmente importava della vita del signor Muniz. In fondo rimaneva sempre il capo, prima di tutto; anche se sotto il suo controllo aveva solo un piccolo ufficio amministrativo di una grande multinazionale, per aver ottenuto il posto di sicuro era stato spalleggiato da qualcuno ai piani alti, e in certe cose era meglio non immischiarsi.
Le domande cominciarono a sorgere il giorno in cui il signor Muniz andò in pensione. Da tempo le tempie gli si erano ingrigite e le mani macchiate, e la soglia dei sessant'anni si era avvicinata rapidamente.
Quel giorno uscì insieme ai suoi dipendenti, alle 18.00 precise, tenendo fra le mani una scatola di modeste dimensioni, i suoi effetti personali erano tutti lì: la sua laurea, una foto di una donna mora in bianco e nero, la Mont Blanc regalatagli poco prima dai dipendenti e qualche altra cosa. Fece un'ultima battuta, ringraziò tutti per gli anni passati insieme e passò il testimone al nuovo capoufficio: la chiave della porta in fondo al corridoio. Si alzò il bavero della giacca, prese la porta e la sua mole enorme sparì nel vicolo, come se non fosse mai esistito. Un'allucinazione, ecco l'impressione che dà un addio.
Il nuovo capoufficio, Christian, un tipo mingherlino che posto vicino al signor Muniz creava un contrasto grottesco, abbassò lo sguardo sulla chiave che teneva in mano. Una chiave semplice, come quella di un lucchetto, argentata e piena di graffi, vecchia. Guardando quella chiave si rese conto di aver sempre desiderato sapere com'era il suo nuovo ufficio. Nessuno, da che era arrivato il signor Muniz, aveva potuto mai mettere piede in quella stanza, carica ormai di mistero e domande inespresse.
Preso dalla frenesia della curiosità, si precipitò quasi di corsa in fondo al corridoio e aprì svelto la porta. La chiave fece scattare la serratura con un sordo CLACK, e lì Christian si fermò per un attimo. Cosa si aspettava da un ufficio? Credeva forse che ci fossero scheletri o fantasmi o altri mostri per giustificare tanta segretezza da parte dell'ormai ex capo?
Guardò oltre la sua spalla, incerto, verso il gruppo di colleghi che lo guardavano: anche loro avevano un certo modo di fissare la porta, una sorta di curiosità ed una avidità di conoscenza scoperte in quel momento, dopo anni di soppressione nel subconscio.
Giulia, responsabile delle entrate in teoria, in pratica segretaria di tutti, fece un impercettibile cenno del capo, come ad incoraggiarlo, un silenzioso "Avanti!". Christian le rispose con un altro cenno del capo, un segno per farle capire di aver inteso il messaggio. Posò la mano sulla maniglia di plastica nera, e spinse.
La prima cosa che vide fu uno scaffale di metallo, contro il quale la porta, a causa dello spazio ristretto, sbatté rumorosamente. Christian fece un salto indietro, come un bambino scoperto con le mani nella Nutella. Realizzato che non c'era nulla per cui spaventarsi, sorrise di se stesso a denti stretti, e si riavvicinò alla porta. Gli altri tendevano il collo per sbirciare. Lentamente la varcò, chiedendosi in che modo riuscisse a passare un omone come il signor Muniz in uno spazio così angusto. La stanza era ruotata verso sinistra, la porta si apriva su un lato, ed era minuscola. Almeno, lo spazio disponibile era pochissimo, occupato da una semplice sedia, un tavolino sospettosamente simile a quelli della birreria di fronte e cinque alti scaffali metallici, carichi di detersivi, rotoli di carta igienica e ricariche per la macchina del caffè. In un angolo riposavano una scopa, un moccio e un secchio.
Christian si guardò attorno perplesso. Uno sgabuzzino? Dov'era l'ufficio del signor Muniz? Perlustrò con lo sguardo lo spazio, toccando ovunque per accertarsi dell'effettiva presenza degli oggetti, cercando i  segni di un altro passaggio: una porta, una scala, una botola, un pulsante nascosto, perché no, ma non trovò nulla; quello era in tutto e per tutto semplicemente un ripostiglio. Si sedette sulla misera sedia, rossa e scolorita, cercando di assimilare la scoperta.
Perché il signor Muniz aveva scelto di lavorare in uno sgabuzzino? Come riusciva a stare in un ambiente così stretto, tanto più per lui? Dove teneva i documenti? Quella domanda lo risvegliò dalle sue riflessioni. Si girò  ancora, cercando cartelle o pile di documenti che potessero rispondergli, ma non ne trovò: nemmeno la traccia di un foglio.
Ma se non c'erano documenti, dov'era tutto il lavoro svolto dal signor Muniz?
Una vocina, quella che ci dice le verità più scomode, e che quindi preferiamo non ascoltare, con tono acuto e saccente gli suggerì la risposta, ed era peggio di un pugno allo stomaco: il signor Muniz non aveva mai lavorato in quell'ufficio.

A qualche via di distanza, un alto e distinto individuo conosciuto come il signor Muniz si allontanava a passi tranquilli dal suo cosiddetto ex posto di lavoro. Nella tasca interna della giacca doppiopetto aveva una mazzetta di banconote di grosso taglio, ottenute negli anni dalle buste paga dei suoi dipendenti tramite scuse quali "detrazioni per migliorie d'ufficio" oppure "per spese burocratiche". Con il tempo erano diventate un bel gruzzolo, che gli avrebbe permesso di vivere con agio per almeno qualche anno, se speso ed investito saggiamente molto di più. Certo, per metterli da parte aveva dovuto stringere la cinghia, accontentandosi di poco per vivere, ma era soddisfatto ugualmente, considerato che non aveva lavorato quasi per nulla da che era entrato in quell'ufficio. Gli era bastato presentarsi con un plico di documenti falsi che lo designavano come direttore. L'appoggio di un complice altolocato aveva insabbiato i particolari più sospetti, così non aveva dovuto dimostrare nulla: tutti lo avevano semplicemente accettato come il nuovo capo, senza neppure controllare che i documenti fossero autentici. Fortuna volle che solo una vecchia impiegata fosse a conoscenza dello sgabuzzino, di cui aveva la chiave, e fu repentinamente mandata in pensione, così il signor Muniz poté appropriarsi della porta in fondo al corridoio. Da quel momento le sue giornate erano trascorse tranquille, leggendo quotidiani e romanzi seduto in mezzo ai detersivi, occasionalmente sbrigando qualche pratica per rimanere aggiornato riguardo il lavoro svolto dagli altri o risolvendo qualche problema.
In lui combattevano con uguale forza il senso di colpa e il compiacimento per la truffa riuscita; così che al contempo desiderava di essere stato scoperto e si rallegrava di essere sfuggito alla legge, e mentre i suoi pesanti passi lo portavano lontano dal vicolo, da Viale dei Giardini, da Via Garibaldi e da Campo Marconi, il signor Muniz si rese conto con amara ironia di essere un mistero anche per se stesso.

  
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