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Autore: Lost on Mars    23/08/2015    2 recensioni
SEQUEL DI "INDACO" (http://www.efpfanfic.net/viewstory.php?sid=2746316&i=1), è consigliabile la lettura.
C’è stato un momento in cui Amelia e Ashton sono rimasti intrappolati in una vecchia istantanea in bianco e in nero: nessun colore a determinare la loro gioia, felicità, paura o tristezza. Nedlands sembra aver congelato la loro esistenza, li ha tagliati fuori dal mondo e non c’è stato niente se non pace e tranquillità. Dall’altra parte dello Stato, però, Luke è a piede libero e va cercando la propria vendetta. Responsabilità e pericoli di duplicano e il mondo li poterà a schierarsi: bianco da una parte e nero dall’altra, in perenne lotta tra di loro. Chi vincerà?
Dalla storia:
«Non ho altra scelta. La mia vita e quella di mio figlio contro la felicità della mia famiglia, so benissimo che li farò soffrire, ma se fossi io a morire sarebbe peggio, non credi?»
«Se non fermiamo Luke passeremo la vita a fuggire da lui. Anche se riuscissimo a cavarcela per i prossimi mesi, spostarsi con un bambino sarebbe impossibile.»
«Fermarlo? Ci abbiamo provato e lui è fuggito dal carcere. Non possiamo fermarlo, è inarrestabile.»
«Ma non è immortale.»
Genere: Azione, Romantico, Thriller | Stato: completa
Tipo di coppia: Het | Personaggi: Ashton Irwin, Calum Hood, Luke Hemmings, Michael Clifford, Nuovo personaggio
Note: OOC | Avvertimenti: nessuno
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20 - LA PRIMA LUCE
 
Successe tutto al sorgere della prima stella nel cielo.
Calum non era ancora rientrato in casa, aveva delle cose da sbrigare e stava facendo gli straordinari a lavoro. Successivamente, si sarebbe fermato in uno dei pochi negozi ancora aperti per comprare un piccolo pensiero per Nola, qualche ora dopo, avrebbe capito che quei minuti erano stati solamente uno sbaglio. Ma in quel momento, durante il tramonto, Calum non poteva ancora immaginarlo.
Nola si trovava a casa, erano rare le occasioni in cui usciva, e quando lo faceva era sempre accompagnata da qualcuno. D’altronde, a volte temeva addirittura stare a casa da sola, ma dopo che Ashton e Amelia si erano trasferiti in un’altra zona della città aveva dovuto farci l’abitudine, anche perché Calum aveva un lavoro e non poteva mollarlo.
Quella sera, dopo aver preparato qualcosa da mangiare e averlo lasciato a raffreddarsi, Nola aveva deciso di dare un’occhiata a tutti quei libri che Calum teneva sulla sua scrivania e sulle mensole fissate al muro. I libri l’avevano sempre affascinata, ma per qualche motivo, non aveva mai avuto occasione di leggerne molti. Per leggere ci voleva silenzio e concentrazione, la mente doveva essere completamente dedicata a ciò che si stava leggendo. Nola non aveva mai avuto la testa per mettersi a leggere seriamente. La sua infanzia e la sua adolescenza erano state segnate principalmente dalla mancanza di tempo, anche se, ripensandoci, leggere avrebbe potuto renderle le cose paradossalmente più semplici.
Ne prese uno, senza curarsi del titolo, e cominciò a sfogliarlo solo per il gusto di sentire l’odore della carta, vecchia o nuova che fosse. Poi lo ripose e ne prese un altro. Calum aveva così tanti libri che Nola si chiese dove avesse trovato tutto il tempo di leggerli. Arrivò a sfogliare un volume intitolato “Il rumore dei tuoi passi”, riconobbe subito qualcosa di strano, perché tra tutti i libri sfogliati fino a quel momento, quello che teneva in mano era il primo romanzo che parlasse solo ed esclusivamente di una storia d’amore. Lesse velocemente la trama sul retro della copertina: due ragazzi che prendono la stessa metropolitana ogni giorno e la storia del loro amore, nato, cresciuto e finito unicamente sotto terra, sotto i passi degli altri. Quando lo aprì, notò immediatamente qualche riga scritta a matita sulla prima pagina bianca e capì che si trattava di un regalo, non di un libro che Calum aveva comprato da sé. La dedica diceva: “Nedlands e le metropolitane di New York non sono poi così diverse, con la differenza che noi sotto terra non ci rimaniamo. Buon compleanno, ti amo.”
Non fu difficile immaginare chi avesse scritto quelle parole. Nola ripensò a quello che le aveva detto Calum tempo prima, ripensò alla sincerità nei suoi occhi e all’assenza di dubbio e esitazione nella sua voce. Ma adesso, a leggere quelle cose, scritte non molti anni prima, avvertiva una strana sensazione al petto. Tuttavia, aveva deciso di fidarsi di lui, perché era una delle prime persone che le mostravano ciò che tutti meriterebbero di avere: affetto. E forse qualcosa di più.
In tutta la sua vita, non aveva conosciuto molte persone del genere, eccetto sua madre e i suoi secondi genitori adottivi. Nessuno di loro, però, le aveva mai dato quello che aveva Calum. Per la prima volta, qualcuno aveva deciso di proteggerla e amarla in un modo diverso.
Improvvisamente, tra le pareti del salone echeggiò il suono acuto del campanello. Nola ripose accuratamente il libro sulla mensola e, ancora con la testa tra le nuvole, corse ad aprire. Stava ancora pensando alla dedica scritta da Amelia ed era convinta che fosse Calum alla porta, avrebbe dovuto essere a casa da un’ora, ormai.
L’unico problema era che chi aveva suonato alla porta non era Calum.
 
Aveva dovuto trattenersi a lavoro per ben quaranta minuti oltre l’orario. Doveva finire di sistemare alcuni documenti importanti e revisionare alcuni articoli che doveva far trovare sulla scrivania del suo capo la mattina seguente. Quando era finalmente uscito, per strada aveva notato un piccolo negozio di bigiotteria e aveva visto un braccialetto che a suo giudizio era molto grazioso, poi aveva chiesto anche il parere della commessa che, intenerita, gli aveva consigliato l’acquisto.
Infine si era incamminato verso casa. Non appena giunse davanti al portone, notò subito che quest’ultimo era stato lasciato aperto, allora si innervosì un poco. Non molto tempo prima aveva affisso un foglio alla base delle scale con scritto di chiudere bene il portone ogni volta che si usciva.
Insomma, nascondere una ragazza ricercata da un’organizzazione criminale e lasciare il portone della palazzina aperto non era esattamente una mossa che si dice astuta. Dimenticandosi presto di quel particolare, prese l’ascensore e salì fino al terzo piano.
Davanti alla porta, perse qualche secondo a cercare le chiavi nelle tasche dei pantaloni e poi le infilò nella toppa della serratura, fece girare una volta sola, sapendo che Nola era in casa, e poi aprì.
Non appena varcò la soglia e alzò lo sguardo, rimase paralizzato.
In casa sua c’erano due completi estranei, incappucciati. Uno di loro teneva Nola per le braccia.
«Calum, vattene!» gridò lei, in preda al panico. Gli occhi azzurri erano spalancati ed era completamente rossa in viso.
L’altro l’uomo, con fare spazientito, le mise un pezzo di stoffa attorno alla bocca, per farla stare zitta, poi disse: «Non muoverti, o uccidiamo la ragazza.»
Calum cominciò a respirare profondamente. Razionalmente, sapeva che non avrebbero mai ucciso davvero Nola: erano lì per portarla via, per portarla dal padre. Una vocina, però, cominciò a dirgli che potevano essere lì anche per conto di Luke, che aveva tentato già di eliminarla una volta, per evitare che venisse a far parte della sua famiglia. Non poteva sapere con sicurezza scientifica per chi lavorassero quei due uomini. Se l’avesse saputo, avrebbe agito di conseguenza, ma in quel momento non riusciva a muovere un muscolo. Si sentiva impotente e incredibilmente in colpa.
«Sono disarmato» provò a dire.
«Fai due passi in avanti. Lentamente.»
Calum fece come gli avevano detto. Avanzò di due passi e cercò di mantenere la calma. Guardò Nola negli occhi. Avrebbe voluto prometterle che sarebbe andato bene, ma non voleva mentirle. Guardando la situazione da un punto di vista realistico, non c’erano molte probabilità di uscirne vincitori. Eppure, un modo c’era.
«Cosa volete? Soldi?» chiese Calum.
«Vogliamo la ragazza» rispose quello più alto, che tratteneva Nola. «Stai fermo, non chiamare aiuto. Lei viene con noi e tu continuerai a vivere tranquillamente.»
«Non credo di potervelo permettere» ribatté Calum. Cercò nella sua mente un modo per distrarli. Sapeva che Nola era molto abile nel corpo a corpo, ma intrappolata in quel modo non poteva fare nulla per difendersi. Una buona distrazione avrebbe permetto a lei di liberarsi e a Calum di colpire almeno uno dei due aggressori.
Studiò ciò che aveva davanti: il più alto tratteneva Nola per le spalle ed era dietro di lei, che aveva il corpo girato in direzione del più basso, che si trovava esattamente di fronte a lei. Con un calcio ben piazzato avrebbe potuto metterlo fuori gioco per un minuto o due, il tempo necessario a far sì che l’altro uomo si distraesse e che Calum potesse dunque attaccarlo, mentre Nola si liberava e si occupava di quell’altro.
Sembrava un piano perfetto, ma come si poteva attuare. Doveva far capire a Nola che doveva essere lei a fare la prima mossa.
«Avvicinati piano» disse ancora uno dei due.
Perfetto. Mentre camminava, Calum guardò Nola, poi spostò lo sguardo sull’uomo che le stava di fronte e poi mimò un piccolo calcio, che nessuno dei due aggressori notò, tanto erano impegnati a scrutare il suo volto e le sue mani, per vedere se fosse in possesso di qualche possibile arma.
Nola capì che doveva scalciare. La sua mente, che sembrava essere sulla stessa lunghezza d’onda di Calum, seppe anche dove colpire. Slanciò la gamba destra con tutta la potenza che aveva, andando a colpire l’uomo proprio in mezzo alle gambe. Quest’ultimo lanciò un urlo assordante e si piegò sulle ginocchia. Il suo compagno si voltò immediatamente verso di lui, allentando la presa su Nola; lei si liberò velocemente si buttò sull’uomo accasciatosi a terra. Calum, senza perdere nemmeno un secondo, piazzò un pugno sulla mascella dell’altro.
Nola si rialzò da terra qualche dopo qualche minuto, e dopo aver regalato graffi e pugni al secondo aggressore, che adesso sanguinava copiosamente dal naso. Vedendo che Calum era ancora impegnato con il primo, corse verso il ripiano della cucina e afferrò il coltello che aveva utilizzato per cucinare.
«Prendi il tuo amico e vattene» sibilò, facendo voltare sia Calum che l’uomo col cappuccio nero.
«Non è l’ultima volta, ragazzina» disse quello, arrancando di qualche passo.
Calum le si parò di fronte e, insieme, attesero che i due sparissero dall’appartamento. Solo quando la porta sbatté e Calum chiuse persiane e finestre, Nola lasciò cadere il coltello per terra, insieme al suo sguardo, che divenne vuoto e perso.
«Ehi, va tutto bene adesso» le sussurrò Calum. Poi l’abbracciò e la strinse forte a sé. «Scusa, non avrei dovuto fare così tardi.»
«No, stai tranquillo. Non è colpa tua» rispose lei.
«Non ho saputo proteggerti davvero» disse lui.
«Ma cosa dici?» esclamò Nola. «Se non fossi arrivato mi avrebbero portata chissà dove…»
«Pensavo che non ti avrebbero uccisa davvero, ma poi mi sono detto che avrebbero potuto lavorare per Luke, non per tuo padre» disse Calum. «E ho avuto davvero paura.»
«Non pretendo mica che tu non abbia paura, Cal. Tutti ce l’abbiamo» rispose Nola, passandogli la mano tra i capelli. «Anzi, ti ringrazio per aver steso l’altro. Se fossi stata da sola, anche liberandomi, non li avrei mai battuti.»
«Sei eccezionale, piccola» sospirò, baciandole le fronte, senza mai togliere le braccia dalla sua schiena.
«Tu sei eccezionale. Perché mi trovi sempre quando ne ho bisogno, e allora mi salvi la vita. Il bello è che credi di non esserlo» gli rispose lei.
E poi lo guardò negli occhi e capì. Calum era la prima luce del mattino. La prima dopo tanto tempo passato nelle oscurità della notte.
 
Amelia non era pronta. Ashton nemmeno.
Era solo l’undici gennaio, era troppo presto, era troppo inaspettato.
Eppure era successo.
Era l’alba, dovevano essere le cinque di mattina. Amelia si era svegliata si soprassalto, con un forte dolore alla pancia e solo pochi minuti dopo aveva notato il materasso completamente bagnato. Dovevano essersi rotte le acque. Nel trambusto, Ashton si era svegliato e, in preda al panico, si era infilato una maglietta a caso sopra i pantaloni del pigiama, aveva messo le scarpe e aveva aiutato Amelia a mettere le sue, lei non aveva voluto togliersi nemmeno il pigiama: il bambino tava per nascere, non avevano tempo.
Avevano fatto tutto di corsa. Ashton aveva deciso di portarla in braccio per le scale, per paura che cadesse. Cinquanta chili più dieci presi durante quegli otto mesi di gravidanza.
Non appena arrivarono in ospedale, Amelia cominciò a chiedere di Doris ovunque. Quando era andata a casa sua, non molti giorni prima, le aveva chiesto se fosse disposta ad assisterla durante il parto. Inizialmente, l’idea era nata come una scusa, ma parlando con la zia di Ashton, Amelia aveva maturato una sorta di fiducia nei suoi confronti, e non voleva nessun altro ad aiutarla se non lei. Fortunatamente, Doris era di turno. Aveva appena attaccato, quando avevano messo Amelia sul lettino e l'avevano portata in sala parto. Ad un certo punto, lei e Ashton si erano divisi: le infermiere l’avevano portato in una stanza adiacente alla sala parto per fargli indossare un camice blu e una specie di cuffietta del medesimo colore. Poi, travestito dalla testa ai piedi, l’aveva raggiunta e per qualche istante Amelia aveva riso, perché lo trovava buffo, dimenticandosi delle dolorose contrazioni.
La zia di Ashton entrò in sala parto in fretta e furia, affiancata da un dottore. Ashton la riconobbe a stento, tanto era impegnato e guardare Amelia, ma quando alzò lo sguardo, quasi non credé ai suoi occhi. Doris, d’altra parte, sembrava scioccata per aver visto suo nipote dopo così tanto tempo, ma decise di mettere la professionalità al primo posto e si rivolse esclusivamente ad Amelia.
«Mi ascolti, adesso inizi a respirare profondamente e lentamente. Inspiri ogni volta che sente una contrazione ed espiri quando è rilassata. Tutto chiaro?»
Amelia annuì e cominciò a fare come le aveva detto. Inizialmente, si rivelò una pratica che serviva a rilassarla, ma dopo qualche minuto cominciò a perdere la sua efficacia.
Amelia strinse la mano di Ashton con una forza tale che sarebbe stata capace di spezzargli le ossa, se loro l’avesse voluto.
«È entrata in travaglio da più o meno mezz’ora. Ci vorrà ancora un po’» disse il dottore. «Siamo ancora a due centimetri e mezzo.»
«E a quanto dobbiamo arrivare?» domandò Amelia, con una smorfia di dolore sul volto.
«Dieci, signorina.»
«Oddio, morirò qui.»
 
Il travaglio durò più o meno nove ore. Verso le due del pomeriggio, dopo che Amelia ebbe rifiutato ogni tipo di cibo che Ashton le offriva, ricominciò a sentire il dolore, ma era un dolore diverso, più forte e più localizzato. Sentiva un’impellente bisogno di far uscire il bambino dal proprio corpo, come se le desse fastidio e dovesse per forza toglierlo. Un’infermiera chiamò in fretta e furia il medico e Doris.
Stava succedendo.
«Ci siamo. Nove e otto millimetri!» esclamò Doris.
«Ash, non ce la posso fare»
«Sì, amore. Ce la puoi fare.»
«No, invece!»
«Signorina, mi ascolti» iniziò il medico. «È molto importante che lei spinga quando glielo diciamo noi. So che sente l’impulso di farlo ora, ma dobbiamo aspettare la dilatazione completa.»
Amelia cominciò a respirare profondamente, solo che il ritmo era molto più veloce della prima volta.
Ashton non aveva mai avuto così tanta paura in vita sua. Era stato capace di uccidere uomini, sparare, scappare e aveva persino rischiato la vita un paio di volte, ma mai aveva sentito quel terrore nascere nel petto. E se qualcosa fosse andato storto? Non riusciva a sopportare l’idea che ad Amelia o al bambino succedesse qualcosa. E mentre la guardava, in preda al dolore, il viso perennemente contratto in qualche smorfia, non sapeva nemmeno come sentirsi.
E quando, dieci minuti dopo, il dottore e Doris le dissero all’unisono di iniziare a spingere e Amelia iniziò a gridare, non ci capì più niente.
Si sentì un tonfo.
«Padre svenuto, qualcuno lo porti di là» esclamò una delle infermiere.
«Oddio, io lo odio!» gridò Amelia, stringendo forte il lenzuolo sotto di sé.
 
Mezz’ora dopo, si intravide la testa. Un quarto d’ora dopo ancora il bambino era maschio, pesava due chili e otto etti  ed era tra le braccia di Amelia, con gli occhi semichiusi ad ammirare la prima luce della sua vita. Ashton era ancora privo di sensi e lei non ricordava più il nome che avevano deciso insieme, tanto era emozionata.
In quel momento, non capì cosa provasse davvero. Le sembrava qualcosa di indefinibile, le veniva da piangere e forse lo fece anche, senza nemmeno accorgersene. Doris rimase accanto a lei finché non dovette prenderlo per lavarlo.
Controvoglia, Amelia affidò suo figlio alle abili e fidate mani dell’ostetrica e poco prima di lasciarlo andare, si sentì come se anche lei stesse vedendo la luce per la prima volta.


 
 

Marianne's corner
Ah, che bella cosa la puntualità. E che bella cosa il capitolo 20! *-*
Posso fare due precisazioni? Sì, che posso, sono l'autrice u.u
Allora, il libro che Nola prende all'inizio, non esiste davvero. O almeno, io non ho mai letto un romanzo intitolato così e forse esiterà anche (confermo, Google dice che esiste), ma non è a quello che fato riferimento. Ho inventato totalmente tutto, sia il titolo sia la trama.
Poi, lo so che la scena del parto è stata molto affrettata e tutto, ma davvero, non avrei saputo descriverla nei dettagli dall'inizio alla fine. Nonostante le numerose ricerche su internet, io non so come si partorisce (Né probabilmente lo saprò mai) e questo è il risultato quindi se fa schifo perdonatemi ç_ç
Oh, finalmente è svelato il sesso del bambino. IT'S A BOY, ma per il nome vi faccio penare ancora un po'. Indizio: non è un nome strano, anzi, è davvero molto, molto comune nei paesi anglofoni, però a me piace da morire (sappiate che è il nome di ben due dei miei personaggi preferiti in due saghe in particolare).
Ok, ho ufficialmente finito. Se avete letto fin qui, vi ringrazio e vi invito a lasciare una recensione, anche piccina piccina, vi giuro che ogni considerazione è ben accetta, positiva o negativa che sia :D
Adesso vi lascio e vi do appuntamento a giovedì 27! ♥
Baci,
Marianne

 
   
 
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