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Autore: WhiteWitch    24/08/2015    1 recensioni
Léo, studentessa di storia dell'arte alla Sorbona, sembra avere una vita perfetta. Tanti amici, feste e bei vestiti, un fidanzato intraprendente che non fa troppe domande. Sa di essere bella e si mette in mostra, dispiega le sue ali di farfalla perché tutti possano ammirarle, fa sentire in colpa gli altri per non sprofondare a sua volta, ha una morale tutta sua e ne è così consapevole da odiarsi. Ma Léo porta con sé una fragilità così profonda da renderla delicata come una goccia di vetro. Qualcosa le sfugge, qualcosa nel suo rapporto con Paul non funziona, forse è lei stessa a non funzionare. Léo è un'artista che deve scoprire l'Arte della Felicità.
Genere: Angst, Introspettivo | Stato: completa
Tipo di coppia: Het, Slash
Note: nessuna | Avvertimenti: Tematiche delicate, Triangolo | Contesto: Universitario
Capitoli:
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Nda: Saaalve! Diluvia, nevvero? Amo questo clima, molto crepuscolare: adatto a starsene svaccati sotto il piumone con una tazza di Ciobar e un buon libro! Peccato che io e molti di voi siamo sotto torchio con lo studio hahahaha beh, a parte questa triste parentesi godetevi il nuovo capitolo! La storia è anche su Wattpad e non dimenticate di bloggeggiare su Gaiman in the T.A.R.D.I.S. :)



Capitolo 23.

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Non dissi a nessuno di quello che mi aveva detto George, mi confidai solo con Marie, ma a lei dicevo tutto e perciò non contava. Lei ebbe la reazione peggiore, iniziò a balbettare e la schiuma del cappuccino che mi stava porgendo si rovesciò sul bancone del bar.
«Oh, merdaccia», disse mentre si affrettava a pulire. Si scostò una ciocca di capelli dalla fronte e sospirò. «Léo, cosa possiamo fare?».
Rammentai ciò che George aveva detto e risposi: «Niente». Mi sistemai meglio sullo sgabello, accavallando le gambe. Era strano parlarci attraverso il ripiano di un bar. «Se Bette avesse voluto dircelo, lo avrebbe fatto. Non sappiamo perché prenda quella roba».
«Ma...».
«Non sono affari nostri», mormorai sconsolata, «sai bene che è così. Credimi, vorrei intervenire io per prima. Però, oggettivamente, se io fossi al posto suo e tutti cercassero di ficcare il naso nei miei farmaci mi incazzerei».
«Poverina, chissà che periodaccio sta passando», mormorò Marie sconsolata, lasciandosi cadere sulla sedia oltre il bancone. «Vorrei poter fare qualcosa».
Tamburellai con le unghie sul bordo della mia tazza. «Ho cercato su internet. La venlafaxina ha un sacco di effetti collaterali».
«Non bisogna mai cercare su internet, per queste cose!», mi riprese lei. «Che ti ha detto la testa? Mia sorella una volta ha cercato i sintomi dell'infarto. Dopo un quarto d'ora ha iniziato a urlare dicendo di avere un arresto cardiaco in atto».
«Sono seria, guarda qua». Allungai un braccio verso il pavimento e rovistai nella mia borsa, estraendone una busta di plastica trasparente. «Ho stampato delle cose».
Marie mi fulminò con lo sguardo. «Ma è Wikipedia!», esclamò con disdegno. «Léo, magari sono tutte sciocchezze!».
«E magari no», mi ostinai. «Dunque, qui dice che la venlafaxina è utilizzata per i disordini dati da ansia sociale...».
«Ansia sociale?».
Annuii. «Bette dice di non sentirsi a suo agio con il suo aspetto. Ricordi la prima sera, quando vi ha conosciuti? Sembrava fuori di sé dall'entusiasmo».
Marie annuì con fare sapiente, scuotendo tutti i suoi boccoli scuri. «Vero. Che altro dice?».
Le indicai una parte che avevo cerchiato con un evidenziatore rosa. «Guarda l'elenco delle controindicazioni. Non credi che sia paurosamente lungo?».
Mi indicò uno degli effetti indesiderati. «Che significa “stipsi”?».
«Stitichezza».
«Ah».
«Si parla anche di sogni molto vividi e incubi», aggiunsi. «Ti ricordi che Bette si lamenta spesso di non riuscire a dormire bene per i sogni che fa? E qui parla anche di un'altra cosa».
«Cosa?».
«La venlafaxina potrebbe, nei soggetti più instabili, essere una specie di istigazione al suicidio».
Con un broncio rattristato, Marie mi prese i fogli e li scorse con lo sguardo. Vedevo i suoi occhioni scattare a destra e a sinistra man mano che leggeva. «Senti, Léo, questo non significa affatto che Bette tenterà di uccidersi».
«Lo so».
«La mamma di George prendeva questa cosa, giusto?», ricordò porgendomi i fogli. «E lei, ora, sta bene».
Annuendo mi dissi d'accordo. «Sì, è vero. Sono sicura che stia facendo tutto seguendo le precise istruzioni di uno psicologo. Dico solo che mi si spezza il cuore al pensiero di Bette che prende psicofarmaci perché qualcosa nella sua vita non va».
«Dio solo sa cosa sta passando», confermò Marie.
Allungò una mano verso di me e la strinsi: dovevo averla messa in agitazione più di quanto non volesse ammettere. «Non possiamo nemmeno trattarla come se fosse malata», dissi con una smorfia, il cervello in piena riflessione. «Voglio dire, non sarebbe orribile?».
«No, hai ragione». Marie passò la punta di un dito su uno degli anelli che portavo, sovrappensiero. «Secondo me la cosa migliore è aspettare».
«E basta?».
«Non è che possiamo fare molto altro», soffiò con disappunto. «Pensaci: non possiamo chiederle cosa c'è che non va perché non sappiamo come reagirebbe, per quel che ne sappiamo potremmo peggiorare la situazione».
«E non possiamo nemmeno iniziare a comportarci diversamente con lei, sarebbe tremendo», conclusi io. Emisi un sospiro stanco. «Sarà faticoso».
Mi sfilò l'anello e se lo mise al dito. Con un mezzo sorriso capii che non lo avrei riavuto troppo presto. «Léo, forse George potrebbe parlarle, visto che sua madre prendeva la stessa cosa».
«Praticamente non si conoscono».
«Vero», ammise. «Con lui come va?».
A lei potevo anche dirlo. «Uno schifo. Uno schifo, ti assicuro. Non mi sono mai sentita peggio in vita mia, perfino quando cornificavo Paul stavo meglio». Mi presi la testa tra le mani, sbuffando. «Sai cosa mi fa incazzare?».
«Cosa?».
«Due cose», spiegai. «La prima: era mio, capisci? Era mio, eravamo perfetti, ma sono stata troppo stupida per capirlo. Mi sono spaventata e ho preferito rinunciare, piuttosto che provarci. Mi mangerei le mani».
Sapevo che Marie non avrebbe fatto commenti finché non avesse sentito l'intera storia, quindi non mi sorpresi quando disse: «E la seconda?».
«La seconda è la peggiore. Prima di arrivare a questo punto, prima di riuscire a guardarmi in faccia di nuovo, deve avermi odiata con tutto se stesso. Ed ora prova solo indifferenza».
«Questo non è vero, un po' di affetto deve provarlo o non avrebbe voluto rivederti».
Avevo le lacrime agli occhi, ma non potevo mettermi a piangere in un bar, in mezzo alla gente. Scossi il capo. «Magari un po'. Ma prima di questo deve avermi cordialmente detestata».
«Non so cosa dire, Léo».
La guardai con tanto d'occhi. Marie, che aveva sempre un materno e giudizioso consiglio da dare a chiunque – per non parlare delle sue famigerate occhiatacce – non sapeva cosa dire. Era un risultato mai ottenuto nella storia, al pari della bomba atomica e della stampa a caratteri mobili.
«Wow».
«Beh, è vero. Che posso dirti? Hai sempre fatto ciò che ritenevi giusto per te stessa e questo è l'importante».
Il mio cappuccino era ormai diventato freddo e aveva un saporaccio orrendo. «Beh, evidentemente dovevo avere delle aringhe affumicate ad otturarmi la sinapsi, perché ho fatto una enorme sciocchezza a lasciare il suo appartamento quella sera», borbottai sopra alla tazzina. «Dio, odio avere rimpianti. Prima di rivederci riuscivo a convivere con questa cosa!», aggiunsi. «Sì, è proprio tutta colpa sua, con il suo “restiamo amici”».
«Non è colpa sua».
«Certo che lo è!».
«Léo, non dire idiozie. Se proprio vogliamo incolpare qualcuno, beh, quel qualcuno sei tu. Ma», anticipò la mia protesta sollevando l'indice, «capisco che all'epoca tu non te la sia sentita per via di Paul».
Non era Paul, non era mai stato Paul. Come spiegarglielo? Delle due preferivo tornare a parlare di psicofarmaci.
«L'altro giorno ha telefonato la madre di Jacques», dissi per cambiare discorso. Marie mi guardò male, ma non mi interruppe. «Non ci crederai, ma si è scusata».
«Davvero?».
«A quanto pare, dopo quella famosa conversazione che César voleva avere insieme a Jacques e Manuel, ha pensato che vuole ancora bene a suo figlio».
Credo che questo fosse bastato a distrarre Marie, perché il suo viso si aprì in un largo sorriso. «Oh, wow, meno male!».
«Già. Sai, penso che non riuscirà mai a venire a patti del tutto con l'idea che il suo unico figlio sia gay. Insomma, non ne sarà mai del tutto contenta. Ma almeno non lo ha disconosciuto».
«Credo che Jacques fosse più preoccupato di suo padre».
Feci una risatina. «Come ci si può preoccupare di un uomo che non parla?».

***

Vidi George dal fotografo. Era un negozio piccolo, in vetrina c'era un monitor che trasmetteva una serie di fotografie di matrimoni e battesimi e sulla porta di vetro c'erano attaccati adesivi colorati che dicevano cose come “Qui solo polaroid!” e altre frasi del genere.
George era seduto dietro il bancone e stava sfogliando un catalogo di album fotografici da rivendere. Quando sentì la campanella della porta sollevò lo sguardo e sorrise. Indossava la felpa della Fruit of the Loom che aveva quando ci eravamo visti al Louvre, praticamente dodici mesi prima.
«Ce l'hai fatta».
Appoggiai la vaschetta di gelato ai frutti di bosco e i cucchiaini sul ripiano. «Sei sicuro che non si arrabbierà, il tuo capo?».
Scosse il capo. «Il signor Masson è un tipo gentile. È anziano, credo che tenga aperto il negozio perché si annoierebbe, in pensione».
Mi indicò una tenda tirata che copriva l'entrata della stanza dove scattavano le fototessere. Sbirciai oltre la soglia e sorrisi nel notare un uomo addormentato su una poltroncina, le braccia conserte e le sopracciglia cespugliose aggrottate in un'espressione molto seria. Era il classico pensionato: camicia a quadri, pantaloni cachi, calze che spuntavano dai mocassini. Russava piano.
Tornai da George e mi guardai intorno, alla ricerca di una sedia. Non ne trovai nessuna e piazzarmi sulle sue ginocchia era fuori discussione, così mi arrampicai sul bancone e mi impossessai di un cucchiaino.
«Senti, George».
«Sento, Léo».
«Pensavo, c'è un concerto di Charles Aznavour tra qualche settimana».
George aggrottò la fronte e si infilò in bocca una cucchiaiata enorme di gelato. «Scusa, ammetto la mia abissale ignoranza. Chi è?».
Si era sporcato la barba. Non tanto, era praticamente un millimetro di gelato rossiccio incastrato appena sotto le labbra, eppure il mio primo istinto fu quello di allungare un dito e toccarlo. Non volevo fare altro, solo toccarlo. Non potevo.
«Ehm. È un cantante. Fa musica jazz, cabaret, un po' di pop. Canta in sette lingue diverse», aggiunsi come argomento definitivo. «Ti prego, dimmi che ti ho convinto e che ci verrai».
«Sei disperata perché fino ad ora non hai trovato nessuno?», indovinò.
«Forse», ammisi con un mezzo sorriso.
Si leccò le labbra - “Oh, santissimo Iddio, non farlo” – e portò via il gelato dal mento. «Quindi recluti le riserve! Grazie, apprezzo molto».
«Ci vieni o no?».
«No», disse lui. «Ho mentito, conosco Aznavour e non mi piace».
Le mie spalle crollarono sotto il peso del rifiuto. «Cosa?», mi lamentai. «Me la stai facendo pagare, ammettilo!».
George accusò il colpo. Lo vidi esitare: eppure era stato lui a dire che dovevamo parlarne liberamente. Si strinse nelle spalle e sfiorò per errore il mio ginocchio con la mano, ritraendola immediatamente.
«Devo trovarti una sedia», borbottò.
Io non dissi nulla. Guardai la vaschetta di gelato, all'improvviso non avevo più appetito. Eppure io amavo i frutti di bosco.
Aveva parlato con una freddezza quasi glaciale. A dispetto della tranquilla chiacchierata da amici che stavamo tenendo, quell'ultima frase era stata pronunciata con un distacco che quasi sfociava nella rabbia. Mi sarei strappata la faccia, mi sentivo così in colpa da voler sparire. E lui non mi aveva ancora perdonata, era ormai ovvio.
Prese dal retro una sedia pieghevole e la spalancò davanti alla sua. Saltai giù dal bancone e mi sedetti. Lui mi imitò, ma non disse più niente. Restammo semplicemente in silenzio, solo che questa volta era diverso: ci era capitato spesso di rimanere zitti, a volte a fissarci, e l'assenza di parole non era mai stata un peso. In quel frangente mi sentivo in dovere di dire qualcosa.
«George».
«Sì?».
Esitai. «Niente, io... Niente».
Mi fissò a lungo con quegli occhi che adoravo. Erano così chiari, avevano una sfumatura artica al loro interno, era come guardare il sole attraverso uno di quei ghiaccioli che si formano nel sottotetto. Brillavano ed erano caldissimi, ma allo stesso tempo facevano una paura incredibile.
Si piegò in avanti, verso di me, appoggiando le braccia alle ginocchia, e prese un bel respiro. «Léo, perché siamo qui?».
Sbattei le palpebre, chiedendomi perché non avevo ancora iniziato a piangere. Indicai con un'occhiata il gelato. «Per quello».
C'era un sole accecante, fuori. Me ne resi conto solo quando George guardò verso la vetrina e il suo volto venne inondato da un raggio di sole che lo costrinse a strizzare gli occhi. Aveva le labbra così strette che erano diventate sottilissime.
Perché ero lì? Era un'ottima domanda. Perché mi ostinavo ad organizzare appuntamenti con lui e a desiderarlo ogni giorno di più, senza rendermi conto che mi stavo facendo un male intollerabile con le mie mani?
E lui perché era lì? E non dite che era perché ci lavorava.
«L'altra notte dipingevo», dissi all'improvviso. Non appena ebbi parlato lui si volse di scatto verso di me ed io mi diedi della stupida: che cosa mi diceva il cervello? Perché glielo avevo detto? Eppure non riuscii a fermarmi, continuai a parlare senza posa, senza alcun intento preciso. Parlai e basta e ad ogni parola sapevo di starmi scavando la fossa, ma non potevo smettere. «Dipingevo e pensavo a te. Al modo in cui mi sentivo quando stavo con te. Ero terrorizzata, George. Guardandoti mi sembrava di guardare uno specchio, vedevo la mia anima riflessa in te e ciò che mi rimandava il tuo sguardo mi faceva una paura folle». Sentivo il respiro farsi pesante. «Era una cosa nuova e terribile e tu avevi su di me un controllo incredibile. Ce l'hai ancora», aggiunsi con una punta di amarezza.
George si era appoggiato allo schienale della sedia, il gomito appoggiato al bancone e l'indice a coprirsi le labbra. Non disse una parola.
«Potresti spezzarmi il cuore da un momento all'altro, anche qui, anche adesso e l'unico modo che avevo per proteggermi era scappare via. Paul non avrebbe mai potuto farmi soffrire come potresti fare tu». Mi fissava senza battere ciglio, ma io non mi fermai. Ero così nervosa che mi venne da ridere. «Dio, eri la cosa migliore che ci fosse. Sei la cosa migliore che ci sia. Ed io ti ho perso, ti ho lasciato andare e forse è stato meglio così, perché non credo di averti mai meritato».
Ero sul punto di dirgli che lo amavo. Stavo davvero per farlo, eppure quelle furono le uniche parole che mi morirono in bocca. Pensandoci ora, credo che sarebbero state le sole che avessero un minimo di senso, le sole che George avrebbe potuto forse accettare da parte mia. Invece gli avevo riversato addosso quella specie di stream of consciousness senza nemmeno respirare e dentro di me avrei voluto morire, perché non ero abituata a farmi guardare da vicino.
Ma non mi serviva parlare perché George mi vedesse. Non mi servivano gesti o parole perché George capisse quello che pensavo o provavo. Non potevo non odiarlo almeno un po', per questo, perché gli dava un potere enorme su di me.
Lentamente parve riprendersi. Quando allontanò la mano dalla bocca vidi che gli tremavano le labbra. Tornò a piegarsi in avanti come prima, sfregandosi le mani come se avesse freddo. Abbozzò un sorriso.
E aveva gli occhi lucidi.
«Non credevo l'avresti mai detto ad alta voce».
Tutto qui? “Non credevo l'avresti mai detto ad alta voce”? Mi sentii ancora più stupida. Era stata la dichiarazione d'amore più sentita che avessi mai fatto, l'unica che davvero mi era emersa dal cuore, e lui rispose con la verve con cui avrebbe commentato una partita di calcio. Avevo un sapore acre in bocca e ad ogni respiro mi facevano male le costole come se avessi corso. Mi sentivo accaldata, eppure avevo le mani ghiacciate.
Ci fissammo. Fuori, un paio di ragazzine in età da liceo passarono ridacchiando davanti alla vetrina, guardarono le foto nel monitor e una di loro fece un commento adorante riguardo il vestito della sposa ritratta. Pregai che non entrassero, sarebbe stato imbarazzante, ed io avevo bisogno di concludere quella conversazione una volta per tutte. Con mio sollievo se ne andarono.
Finalmente George parlò: «Non hai idea di quanto male mi hai fatto».
«La miglior difesa è l'attacco», mormorai. Era una cosa così idiota da dire.
Il suo viso si aprì in una smorfia, a metà tra un ghigno nervoso e il pianto. «Sei la persona più stronza che io abbia mai conosciuto», ringhiò con quella sua voce bassa. «Ti giuro, non ho mai provato una cosa così. Ho passato gli ultimi mesi a odiarti, lo sai?».
Annuii. Lo sapevo, Dio santo, lo avevo capito nel momento stesso in cui avevo visto il suo volto, su Youtube, e avevo udito la sua voce dire quelle parole così piene d'amore e di rabbia insieme. “Sittin' next to her doing absolutely nothing means absolutely everything to me”. Era stato orribile sentirlo e so che sembra un controsenso, ma mi aveva straziato l'anima.
George scrollò le spalle in una risatina che di felice non aveva niente. «Dici che avrei potuto distruggerti. Beh, era reciproco. Era troppo, per te, accettare che qualcuno provasse la stessa cosa?», sbottò. Era come se tutto d'un tratto potesse liberarsi di un peso. «Io adoravo il fatto che mi tenessi in pugno il cuore. Io... Ah... Oddio, non riesco nemmeno a parlare!».
Scattò in piedi, aggirò la mia sedia e si ritrovò al centro del negozio, gesticolando. Mi fissava con uno sguardo pieno di rabbia quando mi puntò un dito contro. «Avevamo un'intimità che non sono mai riuscito a trovare con altre! Con nessuno!», esclamò. «Mi sentivo così bene, Léo, così maledettamente felice che se mi avessero chiuso in una prigione con te per sempre sarei stato pienamente soddisfatto. Chiaro? Lo riesci a capire?».
Annuii e non risposi.
«Bene, ottimo! È proprio un piacere che tu lo capisca adesso. Potevamo essere due specchi insieme, perché era così che mi sentivo anche io! Ma a differenza tua non mi faceva troppa paura, sai?».
«Paul...».
Mi interruppe picchiando una mano sul bancone e facendo tintinnare i cucchiaini. Pregai che il suo capo non si svegliasse. «Non mi parlare di Paul, quella è solo una scusa. Eravamo io e te, ok? Io e te. E hai preferito nasconderti».
Improvvisamente si allontanò, ansimando, e si girò verso la porta. Mi dava le spalle e sapevo il motivo: aveva pianto davanti a me una volta e non voleva farlo di nuovo. Ricacciò indietro le lacrime senza versarle, tra profondi e strazianti sospiri, e quando si volse di nuovo era ancora scosso, ma non alzò più la voce.
«Quello che avevamo era unico», esalò con le mani sui fianchi. «Io non mi sono mai sentito tanto a mio agio con nessuno. Eri come...», esitò, guardandosi intorno, alla ricerca di un paragone, annaspava nel tentativo di trovare una parola che andasse bene.
E alla fine disse: «Io ti amavo».
Scoppiai a piangere. Era troppo, era ciò che non ero stata in grado di dirgli. E lui lo aveva detto con una tale semplicità ed onestà, a conclusione di tutto quel casino: tre parole che da sole erano la sintesi perfetta. Mi bastavano per capire tutto quello che dovevo capire. Cancellarono quanto mi aveva detto fino a quel momento. Per la prima volta avevo bisogno di sentirlo dire, per la prima volta nella mia vita amavo a mia volta con lo stesso trasporto e non ne avrei avuto mai abbastanza.
Feci per dirlo a mia volta, tentennando: «George, io...».
Mi interruppe di nuovo, la voce tremula: sentivo che aveva un groppo in gola. «No, non dirlo», impose. «Non farlo, chiaro? Non mi metterai nei casini un'altra volta, sono stato male a sufficienza».
Allora capii: George non aveva mai smesso di amarmi. Se qualche giorno prima avevo creduto che la sua fosse indifferenza o freddezza, finalmente compresi che era un meccanismo di autodifesa. Di protezione... da me.
«Questa cosa dell'essere amici non sta funzionando», mormorò.
Mi alzai in piedi. Non volevo rimanere lì, volevo scappare il più lontano possibile. «No, non funziona».
Presi la borsa e mi infilai il cappotto in fretta, sorpassai la mia sedia e mossi qualche passo verso la porta. Mi fermai perché George mi bloccava la strada: non riuscivo nemmeno a guardarlo, perché guardare lui voleva dire vedere il mio errore ed il dolore che gli avevo causato.
Esitava: mi guardava, ancora ansante, ma non si spostò. Sollevò le mani ed io, per un timido e un po' supponente momento, credetti volesse baciarmi. Invece le braccia crollarono di nuovo lungo il suo corpo e lui si limitò a tentennare.
«Io non ti odio». Lo disse con un tono infantile, lo stesso con cui lo avevo conosciuto, come se mi avesse appena fatto un dispetto e cercasse di farsi perdonare. «Non più. Lo sai?».
Mi mancava l'aria, dovevo andare via subito. «Sì».
Le sue mani erano lì, a portata: le sue dita con qualche callo di troppo per le corde della chitarra che suonava nel tempo libero, per gusto personale. E le sue labbra erano a portata, il suo respiro era lì ed io ero lì. Mi bastava piegare il collo e lo avrei baciato, da quanto eravamo vicini. Sentivo il gusto del gelato venire dalla sua bocca ed era un buon odore.
Credo che anche lui stesse per baciarmi, perché chiuse gli occhi e si avvicinò di qualche millimetro, una mossa impercettibile.
«No», mormorò alla fine. Mi appoggiò le mani sulle spalle – un tocco bruciante, da spezzarmi in due – e arretrò di un paio di passi. «No, non posso».
«Perché no?», sussurrai, le mie lacrime ormai asciutte.
«Perché adesso sono io che ho paura di te». Mi passò accanto, tornando indietro, ed appoggiò le mani al bancone, le spalle contratte, le gambe tese, in silenzio. La vista della sua schiena era anche peggio del bacio mancato, suonava come un addio.
Quando capii che non avrebbe detto altro – che altro doveva dire? – uscii, ben decisa a trattenere il pianto che mi avrebbe travolta almeno per qualche isolato.

 

   
 
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