«Sanji, abbiamo fame».
I suoi compagni erano visibilmente denutriti e gli andavano incontro con occhi imploranti.
Nami era quella ridotta peggio, un vero e proprio scheletro ambulante. Il suo volto era tremendamente scarnito e solcato da due profonde occhiaie, l’addome così piatto che si intravedevano le costole, le gambe sottili come manici di scopa.
«Sanji-kun, dammi da mangiare, ti prego».
Nami lo guardò un’ultima volta, poi si accasciò per terra e chiuse gli occhi. Sembrava un mucchietto inerme di ossa.
Sanji cadde in ginocchio, urlando disperato.
«NAMI-SAN!».


«NAMI-SAN!».
Sanji si svegliò di soprassalto. Aveva l’affanno, gli occhi pieni di lacrime e la fronte imperlata di sudore.
Nami, inginocchiata di fronte a lui, lo fissava con sguardo preoccupato. «Perché hai urlato il mio nome, Sanji-kun?».
«Nami-san... eri così magra». Le accarezzò il viso, le braccia e la schiena, come per tastarne la reale consistenza: era ancora forte e bellissima, tutto nella norma. «Ma io non avevo nemmeno un misero pezzo di pane da darti».
Nami gli fece poggiare la testa sulla sua spalla e gli cinse il collo con dolcezza, quasi fosse un bambino bisognoso di affetto.
«Tranquillo, era solo un incubo. La dispensa è piena e ti assicuro che qui siamo tutti sazi, ad eccezione di Rufy, ma lui non si accontenta mai».
Sanji sollevò lo sguardo. A Nami parve ancora poco convinto. «Facciamo così: stasera cuciniamo insieme la cena. Ti va?», gli propose.
Sanji sorrise, gli occhi finalmente asciutti. «Suona romantico, Nami-san. Non è che ti stai innamorando di me?~♥».
Nami distolse lo sguardo. «Continua a sognare, stupido cuoco». Eppure non riuscì a non sorridere.