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Autore: Manto    26/08/2015    8 recensioni
Colli Albani, 754 a.C.
Nella terra che i Greci chiamavano Esperia, nel Lazio, si nascondono uno specchio d'acqua di pura bellezza e la sacra selva di Nemi dove dimora la Cacciatrice.
Qui, all'ombra delle querce, durante la festa per l'avvento della Primavera ha inizio la storia di un amore immortale e triste, di Eternità e Tempo; qui, una Dea ed un uomo decisero la Storia e la loro stessa sorte.
Canto per Egeria e per il suo re, Numa Pompilio.
Genere: Introspettivo, Romantico, Triste | Stato: completa
Tipo di coppia: Het
Note: Lime, Missing Moments | Avvertimenti: nessuno
Capitoli:
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- Questa storia fa parte della serie 'Immortali'
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III - Un Uomo Diverso




Quindici anni.
Se tu mi chiedessi cosa ho provato, in tutti questi istanti passati al tuo fianco, ti direi che inizialmente ho sofferto: abituata alla mia libertà, l'ho dovuta cedere per non perderti, per darti quello che ti meritavi e aspettavi. Ma alla fine ho imparato ad essere felice, così come tu lo sei.
Ho guardato volare i giorni come fai tu, e anche se solo in parte ci sono riuscita, anche se saremo sempre diversi, abbiamo imparato a esserlo sempre meno.

Numa, accanto a me, continua a dormire, e neanche può immaginare i pensieri che attraversano la mia mente. Io lo osservo attentamente: così addormentato, l'espressione piena di serenità, sembra ancora l'innocente ragazzo che ho sposato un giorno lontano; eppure, le mie dita corrono su un corpo adulto, tonico e forte, scolpito dal lavoro e dal sacrificio.
Il volto si è affilato, è lontana da esso l'acerba dolcezza della gioventù; e la lunga barba, che gli cresce solo sul mento ma risparmia le guance, lo rende ancora più sfuggente, quasi enigmatico.
Spunta vistosa, ma solo a me, la piccola cicatrice sotto l'occhio sinistro, il regalo che gli fece, in giovinezza, un lupo. Lo sfioro, quel piccolo segno che mi ricorda sempre quanto il mio amato sia fragile e bisognoso di protezione; poi mi dedico ai suoi capelli, che scendono fino alla base del collo: onde d'oro dentro cui iniziano ad intrecciarsi candidi fili, figli del Tempo impietoso.
Lui apre gli occhi, mentre io gli bacio le possenti braccia e nei suoi occhi azzurri vedo le prime nubi di stanchezza, accompagnate dalla cangiante luce che compare ogni volta che mi guarda. Lo bacio sulle labbra, prima di strofinare il mio naso contro il suo, teneramente, come ogni mattino.
“Non te ne sei andata”, sussurra. Non passa giorno che me lo dica.
A volte, quando dopo averlo amato vado a purificarmi nel fiume vicino, al mio riemergere lo trovo intento ad osservarmi da lontano, senza il coraggio di avvicinarsi.
Allora esco e lo raggiungo, lo prendo per mano e lo conduco in acqua con me. Gli insegno, giorno dopo giorno, come ama un Dio, e alla fine lui si addormenta spossato tra le mie braccia e respira piano contro il mio seno. In quegli istanti provo ancora più piacere di quando mi possiede.

Ma oggi non lasceremo questa umile casa che amo come le mie fonti: l'aria è colma dell'odore di una tempesta che rapida cavalca nel cielo, e Numa, come tutti gli uomini, teme le tempeste.
Anche lui percepisce il sentore della pioggia, e mi avvolge il corpo nudo con un abbraccio, capovolgendomi e salendo sopra di me. “Finalmente ti posso avere per tutto il giorno”, mi sussurra solleticandomi la nuca con la barba. Sorrido mentre inizia a coprirmi la schiena di baci, e io devo mordermi le labbra per non gemere dal piacere.
Un fulmine squarcia il cielo e illumina ogni cosa, il rombo del tuono scuote la terra; dalla stanza accanto alla nostra si alza un urlo e nelle stalle vicine si sentono forti nitriti. Il nostro idillio ha fine con un sospiro.


“Mamma... mamma, dove sei?”, piange Mamerco, stretto a me. Fuori la tempesta infuria violenta e lui cerca il grembo di Tazia per rifugiarvisi contro.
“La tua mamma non c'è, ora”, sussurro, “ma ci sono io.”
Il bimbo mi guarda, mi sfiora il petto con una mano. “Lei è calda... invece tu sei sempre fredda, come l'acqua.”
La tua mamma di calore non te ne darà più, penso, mentre lo bacio sui capelli e canto una nenia.
Tazia era bella, era gentile. E per quanto provassi ad odiarla, non ci riuscivo.
Suo padre, il cupo Tito Tazio, Re di Roma insieme al figlio di Marte, Romolo, l'aveva data in sposa a Numa, in cambio della supervisione di questi sulla Sabina. Lui avrebbe voluto replicare; ma io gli avevo fatto promettere che non avrebbe fatto parola con nessuno della nostra relazione, e quindi, per non destare sospetti, era stato costretto ad accettare.
Per tredici anni avevo condiviso Numa con quella giovane dagli occhi neri e dall'animo riservato.
“Per quanto io lo ami, è per te che i suoi occhi si illuminano... e io non voglio che soffra per causa mia. Giace con me per generare un figlio, per pietà, perché io non debba sottostare alle crudeli punizioni di mio padre, se dovesse sapere che io non riesco nel mio compito di moglie... ma lui è tuo, e io non ho alcun diritto di portartelo via”, mi diceva spesso, e io sapevo che era la verità. Alla fine avevo imparato ad amarla anche io, e la sua morte mi aveva fatto piangere lacrime che mai pensavo avrei versato.

Mamerco si lamenta, nel sonno. Smetto di pensare a Tazia e faccio vagare la mia mente altrove, in ricordi e sensazioni più serene; allora, sento che il bambino si calma.
Così piccolo... e né io né suo padre abbiamo ancora trovato il coraggio di dirgli che la sua mamma non verrà mai a cantare per lui... anche se, essendo incredibilmente precoce, forse lo ha già capito.
“Non fa altro che dormire. Lo odio.”
Mi giro e Pompone, il maggiore, entra nella camera, lo sguardo torvo. Ha preso tutta la bellezza del padre, ma essa è rovinata da un animo roso dall'invidia, triste e aggressivo. Ha tredici anni, sta diventando un giovane uomo, inizia a fissare le donne con uno sguardo nuovo. E io non faccio eccezione.
“Furor ha rotto il recinto e tuo padre sta tentanto di riprenderlo. Sicuramente sta implorando gli Dèi per un tuo aiuto”, dico gelida, stringendo di più Mamerco al seno.
Pompone mi guarda a lungo, senza muoversi. “Abbracci Mamerco, ma a me non hai mai dato neanche una carezza. Non mi hai mai baciato come baci mio padre.”
Non è vero: l'ho vezzeggiato e coccolato a lungo, fin da quando era uno scricciolo indifeso. Ma ora la voglia di un corpo da possedere gli fa dimenticare qualsiasi cosa. “Quando avrai una moglie...”, inizio.
“Non cominciare con queste sciocchezze. Perché non posso avere te?”, mi interrompe con asprezza.
“Perché io sono la moglie di tuo padre.”
“No. Tu sei solo la sua sgualdrina.”
Appoggio Mamerco sul letto accanto a me e fisso l'irrispettoso fanciullo, per costringerlo ad abbassare il capo. Ma non lo fa; anzi, con uno scatto è accanto a me e mi afferra l'orlo della veste, per strapparmela. Gli assesto un sonoro schiaffo e lui in cambio mi morde un piede. Mi lacera la carne ma io, come Dea, non provo dolore, né sanguino. Lui rimane ad osservare l'acqua che esce dalla ferita, poi guarda me.
Io lo afferro per i capelli, talmente forte da farlo gemere dal dolore. “Lui lo verrà a sapere!”, urla istericamente, e le lacrime iniziano a rigargli le guance.
“Sì, perché sarò io stessa a dirglielo”, sibilo; quindi lo lascio andare, e lui corre via.
Mi giro verso Mamerco, vedo che mi sta fissando. “Si è innamorato di te.”
“Ma io amo il tuo papà. E lui deve capirlo.”
Il bimbo annuisce e poi chiude gli occhi. “L'ha già capito. Eppure non può fare a meno di amarti", sussurra prima di ripiombare nel sonno.
Pompone riappare, gli occhi ancora arrossati. “Perché hai scelto lui? Perché non hai scelto un Dio? Tu sei così bella, così perfetta. Noi, invece... siamo tutti destinati a morire.”
Sospiro. Davanti alla sua espressione affranta, che esige una risposta, non riesco a rimanere fredda. “Se prometti di non tentare di farmi del male, ti do il permesso di sederti accanto a me”, dico, e lui obbedisce.
Prendo Mamerco tra le braccia, e Pompone si appoggia al mio fianco. Mi cinge la vita con le braccia e appoggia la testa sul mio grembo, lasciando da parte ogni malizia, mostrando quel che resta del suo lato infantile; io lo lascio fare e gli accarezzo i capelli mentre ascolto il suo respiro farsi sempre più regolare.
Poco dopo sento rientrare Numa, e lo vedo apparire sulla soglia. Sorrido mentre si libera dei panni fradici e si avvolge in un mantello, per poi venire a sedersi sul fianco libero del letto.
Mi sfiora la fronte con un bacio e io mi immergo nei suoi occhi. Un altro rombo e la terra trema di nuovo, ma noi non ce ne accorgiamo. Il silenzio si prende la casa, i nostri respiri sono appena udibili mentre cadiamo nell'incoscienza.

Passano alcuni istanti, oppure delle ore. E improvvisamente, dal nulla, mi accorgo di sognare. Non ho mai sognato, gli Dèi non lo fanno mai. Eppure so cosa significa, perché Numa mi racconta spesso quello che vede nel sonno.
Mi sveglio immediatamente e non ho alcun ricordo di quello che ho visto, ma so che riguarda Numa. Mi volto verso il suo lato... e non c'è.
Dove sei?, gli chiedo. Nessuna risposta.
Provo a sentire il battito del suo cuore: lo percepisco distante, come se avesse lasciato la casa. Mi precipito alla porta, la apro.
Una nuova tempesta è in arrivo. Perché si è allontanato così dalla sua dimora?
Non ho il tempo di pensare; e per la prima volta dopo anni torno a rituffarmi nel sottosuolo, impetuosa come l'acqua di cui sono fatta.

****************


Ho sognato Tarpea.
L'ultimo sprazzo di lucidità che il sonno non aveva annientato mi ha spinto a volgere il capo altrove, riconosciuta la sua figura, ma lei mi ha richiamato. Ho trovato il coraggio di voltarmi di nuovo, e l'ho guardata.
Era bellissima, e ho provato dolore mentre ricordavo la sua candida figura che, folle d'amore per Tito Tazio, lo implora di prenderla in moglie in cambio della città di Romolo. Non avevo saputo difenderla, allora: né da questo suo desiderio smisurato, né dalla crudeltà di Tazio.
Avrei voluto risvegliarmi perché il dolore che le avevamo fatto patire era stato malvagio, ma lei mi ha trattenuto, ancora: mi ha preso il volto e ha cercato di dirmi qualcosa, che io non sono riuscito a comprendere. Infine il suo sorriso e il suo casto bacio sulla fronte, come una benedizione, seguito dal risveglio... lontano dalla mia casa, nel Bosco Sacro. Solo.
E ancora sto vagando in esso senza riuscire a trovare la via del ritorno, mentre l'aria mi porta il rumore e l'odore della pioggia. Alla fine non riesco più a camminare, scalzo e infreddolito quale sono, e mi siedo al suolo.
C'è una luce così intensa, tra questi alberi. Una luce che vedo solo nei sogni, nei ricordi... ed è a loro che penso: a Tarpea, a Tazia... e ad Egeria. A tutte loro avrei voluto dire e vorrei ancora dire tutti i miei sentimenti, i miei pensieri su di loro e per loro.
E se a Tarpea ho spesso dedicato le mie lacrime, per Tazia l'assenza di esse mi crea ancora una vergogna innominabile. Avevo imparato a volerle bene, lei che era così simile a me; ammutolivamo entrambi, in silenzio, davanti ad Egeria, sentendoci così inferiori, così limitati. Forse, in un'altra vita, avrei potuto renderla felice, realizzare i sogni che aveva intrecciato nella sua mente, essere l'uomo che desiderava, amarla come lei amava me.
La mia colpa ritorna nello sguardo dei nostri figli: i primi due frutto della pietà, per paura di quello che Tazio le avrebbe fatto se non gli avesse dato un nipote... mentre gli ultimi sono il risultato di una passione selvaggia, animale, scatenatesi in notti solitarie e fredde, quando sentivo la mancanza di Egeria e il suo corpo poteva farmi dimenticare questo vuoto. Ma il mio animo impuro avrebbe potuto amare quel dolce cuore... se Lei non ci fosse mai stata.
Egeria è arrivata, intensa e profonda come un'onda, e mi ha incatenato ai suoi occhi. E anche se non riuscirò mai a comprenderla pienamente, cercherò di renderla sempre felice, di redimere le mie colpe con il suo sorriso, di ripagare la fatica che Lei deve sopportare per stare al fianco di un semplice uomo come me.
“Pensavo di trovare un cervo: ma tu sei anche meglio.”
Mi volto, e la punta di una freccia mi sfiora la fronte. Alzo lo sguardo e vedo un essere minuto, che può sembrare un uomo ma non lo è – stando con Egeria, ho imparato la quasi impercettibile differenza che corre tra l'umano e il divino –, e sorride crudelmente, mentre sposta il tiro e punta verso il mio collo. “Sei bello, per essere un umano. Dimmi il tuo nome.”
Non rispondo, perché se dovessi parlare tradirei la mia paura.
Lui tende l'arco, mentre al suo fianco compare un altro demone [1], con il corpo sformato da due orribili gambe caprine. Lo riconosco, perché su di lui corrono tante leggende: Fauno. “Solo torturandolo ti risponderà, Pico”, sogghigna questi.
“Stavo sognando, e mi sono ritrovato qui”, dico infine, alzandomi in piedi e fronteggiandoli, cercando nel mio animo il coraggio, “da umano, conosco e rispetto i limiti che sono imposti alla mia razza: mai avrei valicato una zona sacra a voi.
Ma se ritenete che io vi abbia comunque offeso, allora fate di me ciò che volete: ma sappiate che quello che ho detto è la verità.”
I due demoni mi fissano per qualche istante, e Pico abbassa l'arco. Si avvicina e non permette che io sposti lo sguardo. “Ti sbagli: già una volta hai oltraggiato una zona consacrata. O stavi per farlo.”
Deglutisco, riporto alla mente un giorno lontanissimo... la prima volta che vidi Egeria. “Ero solo un bambino, allora. Non sapevo cosa stessi facendo”, rispondo, ma la mia voce vacilla e loro se ne accorgono.
“Davvero?”, risponde Fauno, e si avvicina anche lui. Mi prende una mano, e il suo sguardo si illumina. “Vedo che una Dea ti ama”, sussurra.
“Il mio nome è Numa”, replico, “e non sono nessuno che possiate temere. Conduco la mia vita qui, a Cures, in tranquillità, e non ho motivo di provare pena, dato che una Ninfa vive al mio fianco come moglie.”
Entrambe le divinità sorridono, si scambiano un'occhiata. “Sei onesto”, dice Pico, “e parli bene; inoltre, devi avere qualcosa di speciale se una Dea ti ha scelto come suo sposo. Per questo ti lasceremo andare senza punirti e ti faremo un dono, oltre a quello di ritrovare la strada di casa.”
Fauno annuisce e mi fa segno di chinarmi. Obbedisco, e lui si avvicina di più per sussurrarmi qualcosa all'orecchio.

Appena fuori dal Bosco sento la presenza di Egeria, e dopo qualche istante essa sorge dal terreno. Il suo sguardo è folle, e mi afferra il volto in una morsa ghiacciata.
Mi fissa per qualche istante, quindi mi stringe in un abbraccio. “Non riuscivo a raggiungerti. Sentivo che c'era qualcuno con te, e una forza che mi bloccava, frenava ogni mio potere. Oh, Numa... perché sei andato nel Bosco Sacro da solo? Avrebbero potuto ucciderti!”
Le sue lacrime colano lungo il mio petto. “Guarda tu stessa”, le sussurro.
Lei appoggia la testa al mio cuore, ascolta, viene a sapere quello che è successo; quindi rialza il capo, e mi accarezza il volto. “Numa... tu sei stato benedetto.”
Il rombo di un tuono ci scuote e io le stringo le mani. “Parleremo quando saremo al sicuro, in casa”, mormoro inquieto.
Lei osserva il cielo, le nubi che da nere stanno virando il colore in rosso sangue. “Numa... stai vicino a me”, dice, e in quell'istante un fulmine cade a poca distanza da lei. Spaventata mi prende tra le braccia, e io sento la sua forza avvolgermi.
“E-Egeria...”, balbetto, e nel punto dov'è caduta la saetta si alza un'imponente figura scura.
La mia sposa nasconde il viso nei miei capelli. “Obbedisci a qualunque cosa ti chieda di fare. Solo così ci potremo salvare”, sussurra, e io annuisco.
La figura avvolta di tenebre rimane immobile per qualche istante, quindi si volta verso di noi e comprendo che è fatta di nubi.
Giove è sceso sulla nostra terra. Per me.


Gli occhi neri come la notte del Dio mi scrutano con malignità per innumerevoli istanti, poi si spostano verso Egeria. “Ninfa, allontanati”, dice, la voce spaventosa e ancestrale, e avanzando velocemente afferra la mia Dea per la vita e la fa rotolare via.
Lei geme, io serro le mani a pugno. “Grande Giove, ti prego, abbi pietà di lui! Non è sua la colpa...”, tenta di replicare lei mentre cerca di rialzarsi.
“Silenzio!”
La voce rimbomba attorno al pari di un tuono, mi immobilizza e azzittisce la mia povera sposa, che nasconde il viso tra le mani.
Quindi Giove si rivolge a me, ghignando. “Non pensare di poter vincere. Due insignificanti demoni si sono presi gioco di me insegnandoti il modo per sfuggire ai miei fulmini, illudendosi di passare inosservati. Tu li hai ascoltati, quindi sei colpevole quanto loro.
Ma tu sei umano, per questo ti punirò per primo.
Ecco quello che farò: ti proporrò una prova, e se la supererai ti lascerò in pace per sempre; se invece fallirai ti ucciderò, e con te tutta la tua famiglia.”
Si volta per un istante verso Egeria e io sento la rabbia macchiare la mia lucidità, mentre già gode guardando il corpo della mia amata.
“Accetto”, dico, perché non posso sopportare il pensiero di vederla tra le braccia del Dio del Cielo, devo almeno tentare.
Giove ritorna a me; il suo è uno sguardo sorpreso, anche se solo per un istante. Sorride e annuisce, e io chiudo gli occhi.
“Prestami attenzione, Numa: dimentica quello che hanno detto Fauno e Pico; per sfuggire ai miei fulmini, uomo empio, devi costruire dei pali con delle teste.”
Si sta prendendo gioco di me. Come potrò mai farcela contro di lui?
Pensa, Numa, pensa.

Per qualche istante resto immobile; quindi mi dirigo verso il piccolo campo dietro la nostra dimora, seguito da Giove ed Egeria, che a malapena si regge in piedi. Non pensare il peggio, amore mio, le sussurro e lei comprende, annuisce. Percepisco il suo sconforto, ma devo tentare. Lo faccio per te.
Mi chino, prendo dei rami e li pianto a terra; quindi afferro delle cipolle e faccio per infilarle sopra di essi.
La risata del Dio del Cielo fa tremare il bosco, la terra e atterrisce gli uccelli, che volano via gridando. “Devono essere teste umane!”, tuona Giove.
Boccheggio, senza sapere cosa fare. La terra ti aiuterà, sento Egeria sussurrare nel mio cuore. Guardo il suolo e vedo ciuffi di erba spuntare ovunque: ne prendo alcuni e li metto sulle cipolle, in modo che assomiglino a dei capelli.
Di nuovo Zeus ride, e il peso della disperazione inizia ad incombere, tremendo, su di me. “Potrebbe andare... ma io voglio teste vive.”
Guardo Egeria e sto per chiederle perdono per quello che accadrà... il sapore delle lacrime inizia a bruciarmi la gola... e poi sorrido, e mi metto a correre.
“Non sfuggirai alla tua condanna, Numa! Ti torturerò senza pietà per la tua blasfemia, fino a farti implorare la Morte! E neanche quello mi fermerà!”, rimbomba la voce di Giove, ma io continuo a sorridere.
Raggiungo il fiume che scorre poco lontano dalla nostra dimora, quello dove Egeria mi ama ogni giorno; entro nell'acqua. Non posso fallire più.
Cosa vuoi fare?, urla la mia Dea, sconfortata. Lascio che i miei pensieri scorrano verso di lei, mi volto e la guardo; lei accenna un sorriso. Funzionerà, forse. Voltati.
Lo faccio e vedo che un grosso pesce si sta per avvicinando con una lentezza insolita. Lo afferro, corro al luogo dove avevo piantato i rami e con violenza lo infilzo su uno di essi, coprendolo con una cipolla e fili d'erba.
Giove sta per dire qualcosa, ma si blocca. Io cado in ginocchio, tremante, e fisso quell'orribile simulacro che sembra una grottesca testa umana agonizzante. E respiro, in attesa.
Giove china il capo; nel cielo le nubi si sfaldano, e il tramonto appare, dolce come una promessa. “Davvero non sei un mortale come gli altri, Numa. Ma ricordati: sei pur sempre un umano. I limiti imposti alla vostra razza valgono anche per te, anche se sei protetto da una Dea.
Anche se sei una luce nel buio, sei destinato a spegnerti. Ma non oggi.
Diffondi la notizia, uomo di Cures: che gli uomini non temano più la tempesta, grazie al tuo coraggio”, sussurra il Dio. Pone una mano sul mio capo, prima di voltarsi e andarsene.
Io mi lascio cadere al suolo, ansimante, e accarezzare dal vento della sera. Sento i passi di Egeria avvicinarsi, respiro forte. “Non avrei mai accettato di perderti”, le sussurro; lei strofina il naso contro il mio, mentre lascia scorrere le sue lacrime.
“Grazie per il tuo aiuto, Egeria. Grazie per amarmi”, sussurro infine, prima di cadere nell'oblio del sonno.





NOTE DELL'AUTRICE
[1] Anche se Fauno e Pico qua descritti non sono del tutto positivi, anticamente il demone indicava una divinità minore al pari delle ninfe, che poteva essere benevola (un genio tutelare) o malevola.
Con l'avvento del Cristianesimo essi diventano creature del Male.


ANGOLO DELL'AUTRICE Buongiorno a tutti!
Un paio di precisazioni: questa particolare versione del mito di Tarpea, la vergine Vestale che nella guerra tra Romani e Sabini (a seguito del rapimento delle Sabine) tradì la sua città, è ispirata ad un elegia del poeta Properzio (la IV,4), il quale tenta di rivalutare l'operato della giovane mostrando che fu l'amore, e non la cupidigia di ricchezze, come voleva la tradizione, a muovere le sue azioni.
Per quanto riguarda l'episodio di Pico e Fauno e delle teste, invece, l'ho ripreso da un libro, “I Sette Re di Roma” di Zullino, e ne parla anche Plutarco in “Vita di Numa”.
Infine un grazie in generale a tutti quelli che leggeranno, e in particolare alle mie care Sherazade e Sawadee.
A presto!

Manto
   
 
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