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Autore: Nanek    28/08/2015    7 recensioni
E da sciocco credo sia anche una buona idea prendere un pezzo di carta, una penna e fingermi come la mamma, piccoli miei, fingermi scrittore e non compositore, fingermi autore di questa storia che chissà se mai vi verrà voglia di conoscere, di leggere.
Io la scrivo lo stesso, forse perché mi sento troppo ispirato, forse perché ora capisco cosa prova la mamma quando dice di dover sfogare su carta quello che le frulla in testa.
E pensare che tutti non ci avrebbero scommesso un dollaro su di noi.
E pensare che doveva finire nell’arco di qualche mese.
E pensare che era considerato tutto impossibile.
Perché, dai, chi crede che un cantante famoso possa innamorarsi perdutamente di una fan?

Una tra mille, milioni, una che non la distingui neanche dalla folla, una che è lì e ti sembra uguale a quella accanto.
Solo una fan in mezzo ad un mare di volti che cantano le tue canzoni, volti sempre diversi.
Dai, chi ci crede che questo possa funzionare davvero?
Beh, io e la vostra mamma lo abbiamo fatto.
~
Trailer: https://www.youtube.com/watch?v=kLzoGYhAfeE
Genere: Fluff, Romantico, Slice of life | Stato: completa
Tipo di coppia: Het | Personaggi: Luke Hemmings, Nuovo personaggio
Note: nessuna | Avvertimenti: nessuno
Capitoli:
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- Questa storia fa parte della serie 'Lune's Love'
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9. Can't have you

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I miss those blue eyes
How you kiss me at night
I miss the way we sleep
Like there's no sunrise
Like the taste of your smile
I miss the way we breathe.
But I never told you
What I should have said
No, I never told you
I just held it in.
And now I miss everything about you
I can't believe it, I still want you
After all the things we've been through
I miss everything about you.
 
 
 
Quindi era finita, bambini.
Era finita e avevo fatto tutto da solo.
Mi ero impuntato per così tanto tempo su una fan che, alla fine, avevo scelto la strada più sbagliata per allontanarmi da lei.
Avevo fatto una grande cazzata, quella volta.
Avevo fatto una grande cazzata e… mi sentivo colpevole per ogni cosa.
Ero l’unico meritevole di rimproveri, ero l’unico da punire, da etichettare come stronzo, coglione e insensibile.
Non solo per averla lasciata, ma per tutte le parole che mamma non mi aveva mai detto e che, finalmente, era riuscita a liberare.
Everything I didn’t say.
Come se quella canzone l’avessi scritta per quel momento così freddo, difficile.
La mamma teneva dentro di sé cose che neanche lontanamente potevo immaginare.
Mi sembrava fosse tutto bello, tutto tranquillo, tutto normale: la nostra relazione che dava problemi –ma si sapeva già-, il suo libro che veniva preso in considerazione da una casa editrice, la felicità nei suoi occhi che mi pareva di vedere… non era altro che un errore.
Perché lei soffriva, a causa mia.
Soffriva perché, per colpa mia, aveva perso la sua vita, la sua quotidianità, il suo essere una ragazza qualunque.
Ed io non ne sapevo nulla.
Io non credevo che… non credevo che facesse tutte quelle cose per me, per la mia immagine.
Io… su un punto aveva più che ragione: io non mi fermavo mai a chiedermi il perché di molti cambiamenti.
L’Università, la sua scelta di fermarsi, di non continuare, non mi sono mai chiesto perché, semplicemente, pensavo che fosse stufa di studiare, a ventitré anni non si ha più quella voglia che si può avere prima; credevo volesse trovarsi un lavoro, credevo volesse entrare nel mondo vero, quello senza libri e insegnanti, quello dove la vita si respira e non si studia, dove la vita è un continuo esame e non solo durante le sessioni invernali o estive.
Credevo, sì, credevo fosse stata una scelta presa da questo punto di vista.
Non mi sarei mai aspettato una confessione del genere, non mi sarei mai aspettato che lei fosse insicura riguardo al suo futuro: la mamma ha sempre quello sguardo fiero, deciso, sembra sempre sapere ciò che vuole… eppure, mi sbagliavo, mi sbagliavo da morire.
Chissà quante volte aveva avuto il desiderio di confessarmi quel segreto.
Chissà quante volte aveva contato fino a dieci per potermene parlare, per poi rinunciare e rimandare ad un altro giorno.
Chissà quante volte mi aveva guardato nella speranza che io capissi qualcosa, solo guardandola negli occhi.
Stupido, idiota, egoista.
Perché la mamma aveva ragione, perché la mamma doveva solo stare lontana chilometri da uno come me, uno che si preoccupa solo per se stesso e mai per gli altri: io non avevo pensato alle conseguenze che ci sarebbero state una volta usciti allo scoperto.
Non ci avevo pensato, avevo agito d’istinto, avevo solo considerato la mia pace e la mia tranquillità: non volevo fare le cose di nascosto, non volevo girare in incognito quando potevo svelare la verità, non volevo complicarmi ancora di più la vita, senza considerare la possibilità che avrei complicato la vita della mamma.
Solo per me, aveva smesso di andare in locali troppo appariscenti.
Solo per me, si era tolta da ogni social network.
Solo per me, aveva deciso di rendersi invisibile pur di apparire la ragazza perfetta e meritevole di stare con uno come me.
Lei aveva fatto tutte queste cose per noi, per la nostra relazione, per la mia immagine.
Ed io… io l’avevo lasciata.
L’avevo lasciata, la sera stessa che lei mi aveva raggiunto per stare con me, ubriacandomi e strusciandomi su ragazze che neanche conoscevo, tutto questo sotto i suoi occhi.
Occhi blu che, ancora una volta, non avevano osato versare una lacrima, non avevano osato guardarmi con rabbia e odio, come se il mio comportamento fosse più che giustificato.
Come se Luke Hemmings potesse fare davvero quello che vuole, perché è una rock star, perché, si sa, con uno come lui non si può durare per sempre.
La mamma mi aveva dato il meglio di lei, mi aveva dato ogni cosa, mi aveva dato fiducia, aveva cercato di essere la persona perfetta che meritava di stare con uno come.
Dalla nostra ultima chiamata, quel 4 agosto 2016, ho cominciato il periodo più buio di sempre.
Ho mandato a quel paese tutto.
Discoteche, locali, alcool, ragazze, mal di testa.
Ho mandato a quel paese pure Calum, il suo sorriso che si vedeva solo alle feste e mai quando ne avevo più bisogno.
Ho mandato a quel paese pure il mio lavoro, la mia carriera, la musica, e ci è mancato davvero poco che mandassi a quel paese pure la mia fidata chitarra.
Tutto questo, perché?
Perché mi sono reso conto mesi dopo di essere cambiato.
Non ero cambiato per la mamma.
Non ero cambiato quando stavo con lei.
Io ero cambiato da quando l’avevo lasciata.
Con lei io ero me stesso, con lei la musica aveva senso, le canzoni che cantavo avevano il blu dei suoi occhi, il giallo che lei ama, il biondo dei suoi capelli, il rosso delle sue guance arrossate per un mio bacio.
Tutto aveva senso, quando stavo con lei.
Ma, ora, lei non c’era più, lei non faceva più parte della mia vita, del mio mondo.
E tutto era cambiato.
Io ero cambiato.
E mi sono odiato a morte per essermi reso conto troppo tardi del mio errore.
Le canzoni che cantavo mi facevano solo stare male, le canzoni tristi non avevano più neanche un briciolo di speranza, di positività futura, le mie canzoni erano la tortura più viva che potessi sentire, perché le cantavo io, perché le avevo scritte io.
Senza la mamma ero perso.
Lost boy.
Senza la mamma io non avevo più nulla per cui essere felice.
Avrei tanto voluto che le parole di Amnesia diventassero reali.
L’ho desiderato tanto, ogni notte, ogni momento di silenzio, solo con i miei pensieri.
Il colpo di grazia, bambini, è arrivato a Natale 2016.
Perché neanche a Natale ero felice, neanche a Natale avevo voglia di stare in compagnia.
A Natale ero sul divano a casa dei nonni, quella sera tardi, quando tutti stavano già dormendo.
E quella stessa notte, ho scoperto l’esistenza di qualcosa di più doloroso di quello che già vivevo.
Facebook.
Ad Ashton Irwin piace una foto.
Un profilo Facebook che era stato riattivato.
Una foto che ho guardato per cinque minuti, senza fiato.
La foto era della mamma.
Nella foto… c’era la mamma.
La mamma, i capelli lunghi, biondi, la solita frangetta, i soliti occhiali, i soliti occhi blu.
Un sorriso, un sorriso che mi mancava da tempo, un sorriso che non ero io a provocarlo.
Accanto a lei, un ragazzo.
Un ragazzo dai capelli castani, ricci, gli occhi azzurri e le labbra troppo attaccate alla guancia della mamma.
Sopra la foto, una scritta “I need your love to guide me back home. When I'm with you, I'm never alone”.
Un colpo al cuore.
Never be.
Ricordi di ogni tipo davanti ai miei occhi.
Un commento sotto, il ragazzo in questione che rispondeva con un cuore e qualche parola in italiano che non capivo.
Il panico.
L’ansia.
La rabbia.
Non ho chiuso occhio quella notte.
Dovevo farlo, dovevo tentare di riprendermela, dovevo correre indietro, anche se ormai, era davvero troppo tardi.
Dovevo riprendermi quello che mi rendeva felice, dovevo trascinarla via dalle braccia di un altro.
*
E l’ho chiamata davvero, bambini.
Esattamente due giorni dopo.
Esattamente dopo due giorni di intensa riflessione sul da farsi.
Ho elaborato un discorso degno di uno scrittore, degno di Shakespeare, degno di ogni romantico possibile ed immaginabile.
Ho controllato l’orario, ho controllato di avere tutto sotto controllo.
Dalla mamma erano le quattro del pomeriggio, a Sydney l’una di notte.
Tuttavia, non mi aspettavo di sentire una voce a me sconosciuta dall’altra parte del cellulare.
«Cosa cazzo vuoi ancora?!»
«Vane?»
«No, stupido faccia da culo! Non sono la Vane, sono Mary!»
«Mary…»
«E qui al rapporto c’è anche Giada! Che cazzo vuoi, stronzo?!»
«Sicuramente non parlare con voi due, dato che ho chiamato Vanessa, non voi»
«E chi ti dice che tu abbia ancora il diritto di chiamarla? Il suo numero dovresti cancellarlo! Brutto stronzo»
«Voglio parlare con lei, se permettete»
«No, non ti permettiamo di romperle ancora i coglioni dopo il tuo comportamento!»
«Sentite, senza che vi offendiate troppo: fatevi gli affari vostri e passatemela»
«Cosa vuoi ancora da lei? Vuoi ripeterle che non state più insieme? Guarda che l’ha capito sai, ed è andata oltre!»
«Per favore, passatele il telefono»
«No! Anche perché non può rispondere, siamo tutte dalla parrucchiera per tagliarci i capelli per Capodanno»
«C-come?»
«Hai capito benissimo»
«Pure lei li taglia?»
«Sì, e allora?»
«Passatele il telefono, cazzo! Fatevi i cazzi vostri!»
Ma, forse, essere così volgare non era la scelta migliore, infatti, hanno riattaccato.
Ho aspettato due minuti per calmarmi.
Due minuti per pensare a lei, dal parrucchiere, lei che si voleva tagliare quei capelli così lunghi, quei capelli che ci aveva impiegato anni a farli diventare così.
Quei capelli che… mi hanno scatenato ricordi troppo forti, mi hanno aperto ferite senza preoccuparsi del mio dolore.
Due minuti dopo, l’ho richiamata.
Ci ha impiegato un po’ prima di rispondere.
«Pronto?»
«Dimmi di no»
«L-Luke?»
«Hai già tagliato i capelli?»
«Ma cosa stai dicendo?»
«Vane, non tagliare i capelli»
«Luke, sei ubriaco»
«Ti giuro di no»
«Allora stai male di tuo, il che è anche peggio»
«Non tagliare i capelli»
«Cosa te ne frega a te, scusa?»
«Lo so, lo so sembra una cretinata, ma non tagliarli»
«Carino da parte tua chiamarmi per darmi consigli da parrucchiere ma, sai, io faccio quello che mi pare»
«Come puoi tagliarli? Non ti ricordi? Non ti ricordi quando passavo le dita tra i tuoi capelli? Ti ricordi quando li prendevo e ci giocavo, dopo aver fatto l’amore con te?»
«Tu stai male»
«Non tagliarli, Vane, non tagliarli per cercare di dimenticarmi»
«Io ti ho già dimenticato»
«E allora perché vuoi tagliarli?»
«Luke, mai sentito parlare di “aria di cambiamenti”?»
«Eppure mi hai sempre detto di odiare i cambiamenti, mi hai sempre detto di aver paura dei cambiamenti»
Silenzio.
«Non tagliarli, Vane. Vorrò sempre giocare con i tuoi capelli, vorrò sempre averli tra le dita dopo aver fatto l’amore con te»
«Luke, io e te non ci vedremo mai più»
«Lo sai che non è vero»
Ancora silenzio.
Un sospiro.
Una voce che ha confessato lieve quelle parole.
«Forse, voglio tagliarli perché… Non voglio che qualcun altro ci giochi come facevi tu»
E ha riattaccato, senza darmi il tempo di rispondere.
*
Sapete cos’ho fatto, bambini?
Ho agito nuovamente come un idiota, come un illuso.
Il primo volo per l’Italia.
L’arrivo lì per la sera del 31 dicembre 2016.
Gli zii Ashton e Michael che, anche se non me l’avevano detto, erano esattamente dove si trovava la mamma, dato che loro avevano da tenere saldi i rapporti con le zie Mary e Giada.
Sono atterrato e… li ho chiamati.
Mi sono fatto dire il nome del locale, mi sono fatto dire a che ora sarebbero arrivati, mi sono fatto dare tutte le informazioni possibili, omettendo il fatto di essere pure io in Italia.
Omettendo gli auguri di buon anno, dato che a Sydney la mezza notte era scoccata da un po’.
«Luke ma… sei fuori a festeggiare?»
«Certo, sono con… con Jack e Ben»
«E dove?»
«Ehm… devo andare, mi chiamano» che grande attore che è il vostro papà, bambini.
Alle undici e un quarto, ero già lì, ero già all’entrata di quel locale, non c’era nessuno, erano già tutti dentro da tempo, gli unici che sarebbero arrivati dopo cena erano coloro che stavo aspettando.
Non un solo minuto di più da aspettare, ho riconosciuto la voce di Michael a metri di distanza, quel gruppetto abbastanza numeroso che avanzava piano, senza fretta, tra risate e urletti, tra parole mezze in italiano e mezze in inglese.
C’era Michael, ovviamente vicino ad una ragazza dai capelli rasati dai lati con solo il ciuffo a coprirle un po’ il viso, un ciuffo blu, nuovo, appena fatto, una ragazza dal vestito nero, scollato davanti, i tacchi alti, camminava vicina allo zio Michael e gli rivolgeva un sorrisone unico.
Niente meno che la zia Giada, insomma, in tutta la sua unicità.
E, poi, come non riconoscere la risata di Ashton?
Lo zio Ashton era già brillo, ne ero più che sicuro, rideva troppo forte, mentre la ragazza al suo fianco gli teneva timidamente la mano: capelli a caschetto, color mogano, il viso timido e un sorriso nascosto, mentre sfoggiava un vestito scuro e delle scarpe vertiginose, quella sera non riusciva proprio ad essere cattiva nei confronti di Ashton, quella sera, la zia Mary, era troppo emozionata, dato che stava camminando con Ashton Irwin, mano nella mano, lui che le aveva prestato la sua giacca e stavano andando ad una festa insieme, festa che avrebbe portato a qualcosa di nuovo.
E, poi, per ultimi, le due persone che temevo di notare.
La luce del lampione sembrava farlo di proposito, vedevo perfettamente ogni cosa.
Quel ragazzo alto, i capelli ricci, castani, una camicia scura, i jeans stretti, il braccio attorno alle spalle di quella ragazza accanto a lui.
Ragazza dai lunghi capelli biondi, la solita frangetta, i soliti occhiali, in un vestito che riconoscevo alla perfezione, dato che era il vestito blu dei Brits, un vestito coperto da un giubbotto in jeans, fino troppo grande per essere suo.
Camminava lenta, quasi reggendosi al ragazzo al suo fianco, camminava bene su quei tacchi, camminava con un sorriso timido che mai avevo conosciuto, camminava con lo sguardo un po’ perso, mentre Ashton le rivolgeva la parola.
«Vane! Ma quindi possono entrare pure loro alla festa?»
«Ashy boy, non siamo in America, la maggiore età per bere, qui in Italia, è diciotto anni»
«Vane girl, che sfiga però! Era divertente fingersi sobri io e te, potevamo salvare il mondo!»
«Ashy boy, mi sa che sta sera avrai ben altro a cui pensare, sai?»
«Vane girl, zitta! Mi rovini sempre i piani!» e una risatina generale ha riempito l’aria, mentre la zia Mary sprofondava nel rossore.
Avanzavano, fino ad arrivare alla mia postazione, davanti all’entrata.
Non vi dico, bambini, le facce stupite di tutti quanti al vedermi lì.
«Oh, cazzo…»
«Quella birra mi fa avere le allucinazioni»
«No, Michael, è davvero lui»
«Ma come è possibile?»
«Vane girl, respira»
«Ma che vi prende? Vane?»
«Lui è…»
E a quel punto sono intervenuto.
«Luke Hemmings, piacere di conoscerti» un sorriso bastardo in volto, una stretta di mano con il nemico, mentre gli occhi di tutti mi fulminavano.
Poi, mi sono rivolto all’unica persona che mi importava davvero.
«Possiamo parlare?»
E posso scommettere di averla vista sorridere, nonostante si sforzasse di non farlo.
Ha semplicemente annuito, facendo cenno agli altri di andare dentro, dicendo di non preoccuparsi, lasciando che quel testa di cazzo le baciasse le labbra sotto i miei occhi.
Vendetta.
Vendetta pura, la sentivo dentro.
Una volta rimasti soli le parole che mi ero preparato… erano come sparite completamente dalla mia testa.
Succede sempre così, bambini, più cerchi di formulare un discorso perfetto, più questo verrà automaticamente cancellato dal tuo cervello quando è il momento di dirlo.
«Quindi, Michael e Ashton stanno con le tue amiche?» ho esordito così, facendola sorridere.
«Pensavo lo sapessi»
«In realtà… è da un po’ che non parliamo di relazioni»
«Troppo impegnato con Calum? Lui non ha di questi pensieri»
«Già. Calum tenta sempre e solo di farci vivere a pieno le nostre possibilità»
«Premuroso, non trovi?»
«Stanno insieme da molto?»
«In realtà… la stanno tirando un po’ per le lunghe»
«Dai, raccontami, mi sono fatto un viaggio lunghissimo, non mi va di tornare a casa senza una mezza novità»
Un altro sorriso.
La mamma ha iniziato a camminare, lontana dall’ingresso, verso un muretto poco distante, illuminato dalla luce del lampione.
Si è seduta lì, facendo attenzione a non farsi male, si è portata la borsetta sulle gambe e ne ha estratto un pacchetto di sigarette, porgendomelo.
«Ne vuoi una?»
«Da quando fumi?»
«Sono di Giada, qualche volta gliene chiedo una, è solo per… parlare»
Ha portato una sigaretta alle labbra, labbra colorate di quel rossetto scuro che ricordavo benissimo.
L’ha accesa sotto i miei occhi e pure mentre fumava, la trovavo bellissima.
Ho fumato una sigaretta, sedendole accanto, ascoltandola per la prima volta dopo mesi, ascoltando davvero le sue parole su Giada e Mary, guardandola e arrossendo un po’ al vederla gesticolare con quella sigaretta in mano.
Amavo ancora guardala, osservarla in quei gesti così semplici, amavo stare lì, accanto a lei, mentre la mia testa si riempiva delle sue parole, della sua voce che cambiava di tono a seconda quell’argomento, della sua risata quando certi ricordi la divertivano, dei suoi occhi blu che poche volte trovavano il coraggio di guardare i miei.
«Quindi… Giada è ancora un po’ titubante, lei è fatta così, tende a non farsi mille castelli, tende a non farsi prendere troppo. Però, Michael è Michael, lo sa anche lei. Lui non è uno a caso, lui è… quello che lei vuole. Non solo per qualche notte, per qualche pomiciata o per saziare l’astinenza da sesso. Michael è sempre stato speciale per lei, lei lo sa. Però… non sa ancora come ammetterlo»
Un sospiro.
Gli occhi verso il cielo.
Il fumo che si disperdeva nell’aria fredda.
Un brivido visibile sulle sue gambe.
Le ho dato il mio giubbotto, restando in felpa.
«Mettilo sulle gambe, o ti geli»
«E tu?»
«Io… parlami di Ashton»
Una risatina.
«Lui e Mary devono ancora baciarsi. Mi sa che lo faranno questa sera, a mezza notte. Lei… lui… sembrano entrambi spaventati dai loro sentimenti, non so perché»
«Ashton ha lasciato…»
«Lo so, Mary l’ha messo subito in chiaro di non voler essere la terza incomoda di nessuno. Ha persino già detto di non voler essere un nome su una lista»
«Ad Ashton spaventano le relazioni serie, lui… boh, teme di restare ferito»
«Lui è Ashton Irwin, non dovrebbe averle queste paure»
«Ashton è più fragile di quanto sembri, quel sorriso che si mette ogni mattina non è sempre un sorriso di gioia. Ha sofferto tanto, in passato»
«Credo che Mary lo sappia. Forse, è per questo che prendono le cose con calma, senza fretta, senza commettere errori»
In queste parole ho sentito una frecciatina, ho sentito come si stesse riferendo a noi, a me, alle scelte fatte senza consultarla, a tutti i casini che ho combinato, a come ho mandato tutto a puttane.
Ho sospirato, cercando di non farmi andare di traverso il fumo appena aspirato.
Ha sospirato pure lei, spostandosi una ciocca di capelli.
«Non li hai tagliati, alla fine»
E la mamma ha sorriso, spegnendo la sigaretta e gettandola a terra.
«Già, il mio ragazzo è rimasto sorpreso, dato che voleva vedermi con i capelli corti»
«Quello lì non capisce»
«Perché, tu capisci?»
«Se li avessi tagliati, avrei visto sparire i miei ricordi»
«I tuoi ricordi sono già stati cancellati, Luke»
«Non farmi ridere»
Ho buttato la sigaretta a terra.
Mi sono alzato, posizionandomi davanti a lei, avvicinandomi così tanto da aver sentito il cuore in gola, sentendo solo in quel momento la nostalgia farsi più viva, più forte.
Era passato davvero troppo tempo dall’ultima volta in cui i nostri respiri si erano mescolati tra loro.
Ho portato una mano sulla sua guancia.
L’ho accarezzata piano, lenta, fino a scivolare sul suo orecchio, fino a toccare quei capelli che mi mancavano come non mai.
Ne ho preso un ciuffo, l’ho intrecciato tra le mie dita, come fai tu, bambina mia, quando hai sonno e ti isoli dal mondo.
«Lui, quello lì, ci ha mai giocato con i tuoi capelli? Credo di no, dato che non vedeva l’ora di vederli corti, tagliati»
«Lui sa darmi amore, cosa mi importa dei miei capelli?»
«Dopo aver fatto sesso con te, ti canticchia qualche canzone? Ti canta Never be, come facevo io?»
«Luke… lui non è te»
«Rispondimi»
«No, Luke, non mi canta canzoni dopo aver fatto l’amore con me»
«Fare l’amore: quello lì lo usi solo per il sesso, lo sai bene anche tu che il vostro non è amore»
«Neanche con te lo era»
«Come puoi negare? Come puoi mentire a me?»
«Forse, mi piaceva solo fare sesso e, per giunta, lo facevo con una rock star: eccitante, davvero»
«Sei una stronza»
«Non ti meriti altro da me, non dopo quello che mi hai fatto»
«Sono qui adesso. Sono qui per riaverti»
«Forse è troppo tardi, non credi? Sei in ritardo di cinque mesi, io ero lì per te cinque mesi fa. Adesso non lo sono più»
«E allora perché tieni a mente di quanto sono in ritardo? Perché mi stai aspettando»
«Sei un presuntuoso, Hemmings»
«E tu sei mia»
Una mossa azzardata.
Le mie mani sui suoi fianchi.
Le gambe di lei attorno al mio bacino.
Le mie labbra sulle sue.
Un bacio pieno di rabbia.
La passione che bruciava.
Le nostre lingue che si cercavano con troppa impazienza.
Le mani di lei sui miei capelli.
Credevo davvero di riaverla.
Credevo davvero che quel bacio segnasse un nuovo inizio.
Mi sbagliavo di grosso.
Non appena ci siamo divisi, la mamma mi ha tirato uno schiaffo.
Un ceffone che non scorderò mai, più forte del primo che mi aveva dato.
Un ceffone pieno di odio.
Un ceffone che le ha riempito gli occhi di lacrime.
L’ho sentita spingermi via.
L’ho vista allontanarsi da quel muretto.
«Sei un fottuto stronzo!»
La sua voce spezzata dai singhiozzi.
Il mio tentativo di avvicinarmi di nuovo.
Il suo sfogo che feriva più di una lama.
«Sei un bastardo! Sei un emerito figlio di puttana!»
«Vane… ti prego»
«Lui mi ama! Lui mi ama davvero! Lui non mi lascia perché il suo amichetto crede che io sia una minaccia per la sua immagine! Lui non mi lascia per andare a scopare con tutte le troie che passano sotto tiro!»
«Vane io non ho mai…»
«Le ho viste tutte le tue foto, le vedo tutte quelle ragazze con cui passi le serate, a suon di musica, alcool e “baci passionali”, io vedo tutto, Luke, perché tu mi dai il tormento e mi fai ancora pensare a te!»
«Non ho scopato con nessuna di loro, cazzo! Perché non ti fidi di me? Perché non capisci che sono qui proprio perché sei tu il mio pensiero fisso? Cazzo, Vane, ma ti pare che ho fatto questo lungo viaggio solo per te? Solo per implorare il tuo perdono? Solo perché mi manchi da morire?»
Singhiozzi troppo rumorosi.
«Lui mi ama davvero. Lui me l’ha sussurrato, dopo aver fatto l’amore con me»
E in quelle parole non capivo quello che voleva.
Non capivo che due semplici parole, forse, sarebbero bastate.
«Lui mi ha aiutato, lui mi ha consolato, lui stava lavorando quando mi ha visto, quel giorno. Stavo piangendo, ero seduta al tavolino del bar dove lavora, e stavo piangendo»
Occhi bassi.
«Vane…»
«Piangevo per l’ennesima foto tua in discoteca, attorniato da ragazze troppo belle, ragazze con cui non posso neanche lontanamente competere. Piangevo e lui è venuto lì, non ha pensato al suo lavoro, non ha pensato al capo che sarebbe potuto tornare da un momento all’altro: lui è venuto lì, si è seduto con me, si è preoccupato per me, nonostante fossi solo una sua compagna di Università»
Una stretta al cuore.
La consapevolezza che, forse, esisteva davvero qualcuno in grado di renderla davvero felice, qualcuno migliore di me.
«Mi ha dato un fazzoletto, mi ha offerto un gelato, mi ha chiesto scusa per essere stato invadente, ma: “Non potevo stare a guardarti senza fare nulla, in fin dei conti, siamo amici, no?” anche se ci vedevamo solo ad una lezione a settimana»
Ho deglutito a fatica.
«Mi ha consolata, ha saputo farmi sorridere un po’»
Lacrime silenziose hanno cominciato a farsi sentire pure ai miei occhi.
«Lui mi ha aiutata, è lui che mi ha portata dalla casa editrice perfetta per me, è grazie a lui se il mio libro, forse, verrà finalmente pubblicato. È grazie a lui se ho avuto il coraggio di riprendere gli studi, studi che avevo lasciato per te. È grazie a lui se sono riuscita a lasciar stare le novità su Luke Hemmings, concentrandomi su altro: sugli amici, sulle feste, sul quanto sia bello vivere anche senza di te»
Lo sguardo della mamma si è alzato oltre la mia figura.
Mi sono girato, rendendomi conto che quella discussione era sotto gli occhi di tutto il gruppetto: Ashton, Michael, Giada, Mary e pure quello stronzo.
Lui, in particolare, sembrava compiaciuto da quelle parole.
«Andrea mi ha aiutato, Luke. Lui, forse, non giocherà con i miei capelli, come facevi tu. Lui, forse, non potrà mai eguagliare quello che ho provato per te. Ma lui c’è, c’è adesso. E io… io ci sono per lui»
L’ho vista allontanarsi piano.
Camminava malamente su quei tacchi, verso la figura di Andrea, già pronto ad accoglierla tra le sue braccia.
Quelle parole le ho lasciate scivolare a voce troppo alta.
«Ti amo!»
Una confessione che l’ha fatta voltare.
Una confessione che suonava come l’ultimo modo per riportarla da me.
Una confessione che l’ha fatta solo rattristare ancora di più, lasciando che due lacrime calde le solcassero le guance.
Andrea, logicamente, non ha esitato a portarle il braccio attorno alle spalle, un sorriso vittorioso in volto, gli occhi di sfida puntati sui miei.
Mi stava letteralmente sfottendo.
Solo con uno sguardo, ho colto la sua felicità nell’aver vinto contro di me.
Il problema, però, era che io non capivo più niente.
Preso dalla gelosia, dalla rabbia, dall’odio contro me stesso, ho lasciato che il tutto avvenisse senza ragionarci un po’.
Ancora una volta ho agito da egoista.
Ho agito per istinto.
Non volevo lasciarla andare.
Non volevo che lei fosse felice con lui.
Ero io quello che lei voleva, ero io e lo sapeva anche la mamma, nonostante continuasse a mentire a se stessa.
«Che cazzo hai da ridere?»
Tutti si sono voltati, bloccati sul posto, già pronti al peggio che stava per arrivare.
«Vai a casa, Luke, qui non c’è posto per te»
Non l’avesse mai detto, quel testa di cazzo.
«Cosa credi, Andrea? Credi di aver vinto? Ti sbagli di grosso»
Una risatina da parte sua, un’alzata di occhi al cielo.
«Lei mi ama, si stancherà presto di te. Sei solo il suo giocattolo per fare un po’ di sesso»
Andrea ha lasciato la presa sulla mamma.
Il sorrisetto se l’era tolto di dosso.
«Ma come ti permetti ancora?! Sei solo un coglione!»
«È inutile che giochi al cavaliere che salva la ragazza dalla tristezza. Lei vorrà sempre e solo me»
«Mi sa che sogni troppo, Luke, lei sta bene con me»
Un passo avanti.
Gli occhi terrorizzati degli altri.
Commenti che tentavano di smorzare la tensione.
Commenti che non stavo neanche ad ascoltare.
«Tu dici? Lascia che ti dica una cosa, allora: sta così bene con te, che non ha esitato un solo secondo a baciarmi, esattamente dieci minuti fa, su quel muretto lì. Se ti avvicini, noterai sicuramente il segno del suo rossetto sulla mia bocca»
Effettivamente, Andrea si è avvicinato, bambini, ma non per verificare il fatto.
Mi ha tirato un pugno in pieno viso.
Mi ha fatto barcollare, prima di tirarmene un altro.
Mancava davvero poco a farmi cadere e a prendermi a pugni di santa ragione.
Ma… ovviamente c’erano gli altri.
Michael e Ashton non hanno esitato a togliermelo di dosso.
La mamma non ha esitato ad urlare e ad insultarci entrambi.
Non ha difeso me, ma neanche lui, un po’ di ragione, quindi, ce l’avevo: la mamma non aveva smesso di pensare a me.
Tuttavia, le parole che mi ha urlato, mi hanno fatto raggelare il sangue.
«Non farti più vedere»
Parole dette con rabbia, con odio, per poi andarsene, verso la macchina, seguita a ruota da Mary, Giada e Andrea, lasciandomi solo con Michael e Ashton.
E la mezza notte scoccava in quel momento.
Il 2017 aveva inizio, proprio in quel momento.
Purtroppo, però, dentro di me sentivo di essere davvero giunto alla fine.
Non mi avrebbe mai perdonato, lo ammettevo a me stesso, mentre gli zii mi riempivano di insulti per aver rovinato la serata, per aver fatto il coglione, per aver agito senza pensare, per aver mandato tutto a puttane, bruciando quella piccola possibilità di tornare insieme a lei.
Non mi avrebbe mai perdonato, lo sentivo dentro, bambini.
Eppure, il destino ha voluto concederci un’altra possibilità.
Ma se me l’avessero detto in quel momento… non ci avrei mai creduto.

 
 


 
 
Note di Nanek
SONO UFFICIALMENTE UNA LAUREANDAAAAAAAAAAA
Sclerate con me, anche se so che mi meriterei calci e pugni per il ritardo.
Ma sclerate con me.
Ho fatto l’ultimo esame e l’ho FOTTUTAMENTE PASSATOOOOOOO
Mi laureo.
Ma vi rendete conto?
Mi laureooooooooooooo
E Luke è uno stronzo in questo capitolo.
Già, da prendere a pedate.
E Vanessa che sta con un certo Andrea? Vi piacciono come coppia o lo brucereste vivo per lasciare il posto a Luke? Ahahah
Che domande banali che faccio.
Però… Luke si merita un po’ di sofferenza, poco da fare.
Io… non mi dilungo, sono in ritardo e devo fare un sacco di cose…
Per farmi perdonare ve le dico:
  1. Devo scrivere il capitolo 17 di Tomorrow never dies, che domani io e Jade aggiorniamo.
  2. Devo finire il capitolo uno di una cosetta nata da poco, una storia che ha come personaggi…. Punk 5sos! Con la collaborazione di Niall e Zayn :D ma di questa ff ne parliamo tra qualche mese.
  3. Devo finire il capitolo 13 di How I met your mother
  4. Se riesco, finire una long di due capitoli che avevo iniziato ma che ora è abbandonata lì ahahah
Beh, ho un bel po’ da scrivere, come potete notare :D spero di fare la vostra felicità!
Scappo, grazie di tutto quello che fate per questa storia <3
A presto ;)
Nanek

 
 
  
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