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Autore: Reaper_Hel    29/08/2015    2 recensioni
"Il mondo è di chi rimane, e tu non devi avere paura. Non sei solo." Questo recita la guida alla sopravvivenza del Superstite Responsabile.
Quando però Miriam si sveglia, quella mattina, non è rimasto più nessuno.
Genere: Horror, Introspettivo, Science-fiction | Stato: in corso
Tipo di coppia: Nessuna
Note: nessuna | Avvertimenti: Contenuti forti, Violenza
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Quando si risvegliò era notte fonda. Aveva dormito con la bocca aperta e a terra. Faceva un freddo tremendo. La schiena e le gambe le facevano un male cane, ma quando la sua mente tornò sul pezzo si rese conto che la situazione era molto meno disperata di così. C’erano molte cose da fare. Molte cose da provare.
 «Non sono mica sola!» disse ad alta voce, per poi scoppiare a ridere accorgendosi di avere paura. Era presto per lasciarsi scoraggiare. Era presto per lasciarsi andare. C’erano tante motivazioni, tante possibilità: andavano esplorate tutte.
Si alzò in piedi e non fece che pochi passi sulla via di casa quando capì di non essere sola per davvero. Da qualche parte tra i cespugli, lungo la strada piena di siepi e piante da fiore, c’era qualcosa. Lo poteva sentire dall’odore di pesce marcio. Lo poteva percepire dalla strana sensazione che aveva addosso. Come una lieve scossa elettrica. Decise di sentirsi troppo sola e troppo spaventata per rimanere ad indagare su quella strana sensazione, e prima ancora di pensarlo si accorse di stare correndo come una forsennata verso casa.
Richiuse la porta dietro di sé, a chiave, e afferrò il giornale, per poi lanciarsi sul divano raggomitolandosi sotto una coperta di lana. Doveva per forza esserselo immaginata: sin da bambina aveva sempre avuto un’immaginazione fervida e anche un po’ fetente. Le bastava leggere un libro per percepire la nitida sensazione di trovarvisi dentro, di doverci vivere senza mai volerne uscire, e non c’era momento in cui non avrebbe scambiato la sua vita per quella di qualcuno di cui aveva visto un film o giocato un videogame. Anche se alla fine morivano.
Soprattutto, se alla fine morivano. Che morti gloriose, piene di senso! E lei invece era lì, a vegetare e aspettare che le cose piovessero sulla sua testa...
Prese in mano il telefono e non poté fare a meno di sentirsi, nonostante quella situazione drammatica, in difficoltà. Detestava telefonare. Specialmente a persone che non conosceva, e specialmente per fare una richiesta.
Compose il numero d’emergenza e si sfregò la faccia.
Doveva solo aspettare un po’…
Qualcuno tirò su il telefono dall’altra parte.
 «Pronto? Potete aiutarmi?»
Silenzio dall’altra parte dell’apparecchio.
 «Vivo a Fontanelle, e questa sera quando mi sono svegliata non c’era nessuno. I miei genitori sono spariti, e forse anche il resto del paese. Pronto?»
Nessuna risposta. Solo un rumore sottile, quasi impercettibile. Come un respiro trattenuto.
 «Potete venirmi a prendere? Abito al-»
Dall’altra parte riattaccarono. Nessuna parola. Nessun segno.
Se prima la paura di Miriam era strana e senza forma, ora si mescolava alla confusione e diventava un attacco di panico in piena regola. Si lasciò scivolare contro il bracciolo del divano e accese la televisione, cercando di ignorare quella crescente sensazione di paralisi.
Il segnale era disturbato, come sempre, ma funzionava. Scorrendo la lista dei canali, non impiegò molto a capire che non c’erano programmi in diretta. Sembrava tutto registrato.
Si lasciò scappare una risatina. Che cos’era quello? Il Truman Show? Presto qualcuno che avrebbe fatto trovare sul tetto di casa lo striscione di un prodotto per lavare i pavimenti? Un esperimento sociale di cattivo gusto? Di certo, i suoi genitori avevano trovato il modo per impiegare la sua vita in modo produttivo!
 «Hai visto, Bombalurina? A quanto pare siamo in un film,» distese le gambe sul divano, raggiungendo con le dita dei piedi l’enorme gattone nero e bianco che aveva deciso di dormire lì. Anche lei, adesso, era sola al mondo.
 «Dove hai messo i tuoi padroni? Li hai fatti scomparire apposta, secondo me.»



Il mattino successivo non arrivò mai.
Quando l’orologio del salotto scandì le sette e mezza, Miriam era ancora sveglia e stava cercando di guardare una trasmissione sui salmoni che risalivano i torrenti al contrario, sentendosi esausta al loro posto.
Azzardò il naso oltre lo schienale del divano e guardò fuori dalla finestra: buio. Sentì lo stomaco che si rivoltava, e ricontrollò l’orologio per sicurezza.
Il buio era ancora lì, ed erano le sette e quarantacinque del mattino. Quando si affacciò per controllare, si accorse che il cielo non era solo buio, ma era coperto da un fitto strato di nubi dense e scure come velluto, le quali impedivano alla luce di filtrare. Sembrava che il cielo fosse oggi protetto da un umido palato, e la terra si trovasse nella bocca di un gigante. Ma c’era qualcosa di ancora peggiore, là fuori: nessun lampione era più acceso. Tutto il sistema aveva un timer settato per spegnersi con le prime luci dell’alba, al più tardi alle 6 del mattino.
E ora, era come se una coperta nera fosse stata gettata davanti alla finestra del salotto. Un sudario di oscurità che le impediva di vedere nitidamente a più di un paio di metri fuori dalla finestra. Proprio come nel suo seminterrato.
Se prima si era proposta di non urlare, ora le fu impossibile. Un grido acutissimo fece tremare i vetri della casa, e l’incertezza abulica di Miriam lasciò spazio a una sconfortante disperazione. Trattenendo a stento la forza per parlare tra le lacrime e il muco, Miriam ricompose il numero di assistenza.
 «Tipregotipregotiprego!»
La voce dall’altra parte dell’apparecchio era registrata. Proprio come il televisore.
 «Il servizio di assistenza ai parenti delle persone scomparse è sospeso fino a data da stabilirsi. Nel frattempo, invitiamo i Superstiti a non perdere la calma e cercare di riunirsi in gruppi numerosi, in modo da formare piccoli gruppi auto-sussistenti.»
 «E il buio? Che faccio con il buio, brutta troia? è tutto buio!» strepitò Miriam stringendo la cornetta del telefono con entrambe le mani. «Aiutatemi! Vi prego, ci deve essere qualcuno!»
Ricadde sulle ginocchia e afferrò l’apparecchio per strapparlo dalle prese a muro. Non vi riuscì. Piangendo a pieni polmoni, lo scaraventò fuori dalla finestra mandando il vetro in frantumi. Quando anche l’ultimo tassello di vetro si staccò, il suo grido isterico esplose di nuovo.

Dieci minuti e due shot di whisky dopo, era nuovamente stabile. Nonostante gli occhi rossi e gonfi si era data una ripulita, aveva messi un po’ di crackers e formaggio sotto ai denti e aveva riorganizzare le idee. Doveva andarsene da quella casa: doveva raggiungere la città di Helton e cercare aiuto. O meglio: cercare qualcuno. Anche che non fosse d’aiuto. L’importante era trovare persone vive, vere e soprattutto non registrate.
Senza curarsi della televisione, Miriam corse di sotto a cambiarsi: jeans e maglietta sarebbero stati più che sufficienti. Raccattò un po’ di indumenti, il sassofono e scarpe da infilare in un borsone sportivo. Trovò infine le chiavi della macchina e tirò fuori una birra ghiacciata dal frigo.
 «Forza Miriam. Puoi farcela. Sei da sola, sei già ubriaca ma sei anche capace di sopravvivere per un paio di giorni senza avere persone attorno. La mamma…»
La voce si ruppe. Rimase lì, il capo chino, a pensare ai suoi genitori per un paio di minuti. Tirò su forte con il naso, se lo asciugò con lo straccio da cucina (esattamente come sua mamma non avrebbe voluto) e si avviò verso l’auto di famiglia.
 «Bombalurina, che fai, vieni in città?»
L’enorme gatto seduto sul divano si limitò a girare la testa e sbadigliare.
 «D’accordo, fai la guardia alla casa. L’apriscatole è nel terzo cassetto, e il tonno nella dispensa. Cerca di non mangiarlo tutto prima che io torni.»
Spalancò la porta sull’oscurità esterna, e un vento maleodorante si introdusse, non richiesto, nel corridoio di casa. Si rese conto di non voler uscire. Quell’odore immondo e quella strana sensazione che qualcosa stesse aspettando proprio che lei mettesse il naso fuori di casa erano forse il frutto della sua immaginazione, come la maggior parte dei problemi della sua vita.
Le cose la spaventavano in anticipo sulla tabella di marcia, impedendole di intraprendere una qual si voglia attività senza avere la ferma certezza che qualcosa, prima o poi, sarebbe andato storto. Ora aveva paura ad uscire di casa: aveva paura di quello che sarebbe successo, e la paura forse si stava tramutando in quel tanto fetido. Poteva già vedersi sola in città, davanti a un mucchio di strade vuote e perfettamente ordinate. Poteva già immaginarsi a piangere in un vicolo, in assoluto silenzio, nella speranza che i singhiozzi non coprissero il suono di un’auto in avvicinamento.
 «Sai cosa c’è, maledetto schifoso? Se sei là fuori, e secondo me non ci sei, io verrò la fuori. Hai capito?»
Come minaccia, era veramente pessima.
 «Bombalurina, ti autorizzo a prendere a calci in culo qualunque cosa si avvicini a più di due metri dal perimetro della casa.»
Ma questa cosa era già dentro il perimetro della casa.
 «Non ho paura di nessuno e di niente. Ora prenderò quella maledetta auto e andrò in città a vedere di trovare qualcuno. Insomma, non sarò mica l’unica superstite del mondo.»
Così, con passo poco convinto, Miriam varcò la soglia. Un attimo di silenzio, e poi la corsa rocambolesca verso l’auto. Vi si rifugiò dentro mentre l’odore di marcio le riempiva i polmoni, nauseandola. Lanciando lo sguardo sullo specchietto retrovisore, si rese conto di aver lasciato la porta di casa spalancata.
Non aveva importanza, però. Ormai a Fontanelle non c’era più nessuno.
   
 
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