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Autore: WhiteWitch    31/08/2015    3 recensioni
Léo, studentessa di storia dell'arte alla Sorbona, sembra avere una vita perfetta. Tanti amici, feste e bei vestiti, un fidanzato intraprendente che non fa troppe domande. Sa di essere bella e si mette in mostra, dispiega le sue ali di farfalla perché tutti possano ammirarle, fa sentire in colpa gli altri per non sprofondare a sua volta, ha una morale tutta sua e ne è così consapevole da odiarsi. Ma Léo porta con sé una fragilità così profonda da renderla delicata come una goccia di vetro. Qualcosa le sfugge, qualcosa nel suo rapporto con Paul non funziona, forse è lei stessa a non funzionare. Léo è un'artista che deve scoprire l'Arte della Felicità.
Genere: Angst, Introspettivo | Stato: completa
Tipo di coppia: Het, Slash
Note: nessuna | Avvertimenti: Tematiche delicate, Triangolo | Contesto: Universitario
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Nda: Ciao amicy, sono di nuovo qui tra una pagina e l'altra dei libri di testo! Bene, ci stiamo lentamente avviando verso la conclusione: siamo già al capitolo 24! Quindi grazie a chi sta seguendo, spero di trovarvi qui fino alla fine <3  La storia è anche su Wattpad e invece io sono anche su Gaiman in the T.A.R.D.I.S. :)



Capitolo 24.

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C'era qualcosa di primordiale e grottesco nella paura che provai all'idea di aver perso George per la seconda volta. Mentre mi nascondevo in un fagotto subumano nel mio letto o facevo finta che mi importasse delle lamentele dei clienti al Gitem Euronics, mentre facevo la spesa per la settimana con Manuel o mentre guardavo Mansfield Park con Marie, in ogni momento pensavo a lui. Non fraintendetemi, non ero diventata una specie di Bella Swan che per capitoli interi pensa a Edward senza fare niente della sua vita. Ovviamente non pensavo troppo a George: diciamo solo che c'era sempre un piccolo angolino, un cantuccio speciale nel mio cervello riservato a lui. Era come una musica di sottofondo, la ascolti senza accorgertene, si trasforma in un suono abituale, finché non diventa parte di te.
Chiaro, c'erano momenti di intensa disperazione. Era come se mi fossi impiccata da sola, ero stata io stessa a portarmi via l'ossigeno. Eppure continuavo a respirare: smisi di chiedermi come avessi fatto a sopravvivere dopo i primi giorni, quando ormai Jacques e Marie avevano capito la situazione e avevano chiesto agli altri di non parlarne. Fu quando smisero di domandarmi che fine avesse fatto George che cessai di pensare a come fossi brava e in gamba ad essere ancora al mondo anche senza di lui.
Elisabeth Kübler-Ross scrisse che ci sono cinque fasi di elaborazione del lutto – perché dal mio punto di vista qualcuno era come morto. La negazione: avevo saltato a piè pari questo momento, perché solo una stupida scema avrebbe negato. La rabbia: che senso aveva infuriarsi? Era stata colpa mia e potevo avercela solo con me stessa. Il patteggiamento: cosa c'era da patteggiare? Non potevo fare niente, l'unico tentativo che avevamo fatto era andato a farsi fottere in tre, due, uno. La depressione: non ero depressa, ero solo così piena di rimpianti e così schifata da me stessa da non riuscire più a guardarmi in faccia.
Infine c'è l'accettazione.
Si tratta di un momento magico, quasi estatico: quando ti rendi conto che peggio di così si muore, che non c'è nulla che si possa fare, che è il caso di prendere coscienza di quello che è successo e di cercare di vedere il lato positivo, sempre che si riesca a trovarlo. Diciamo che io non riuscivo a trovare nulla di buono in quella situazione, ma devo anche ammettere che non credo molto nella psicologia – un po' mi spaventa che qualcuno riesca a guardarmi nella testa, non so se si era notato.
Comunque nel giro di un paio di settimane avevo “accettato”, se così si può dire. E da quel momento George divenne il mio costante compagno di viaggio, come un ronzio nell'orecchio o un debolissimo mal di testa, come un tic nervoso o l'abitudine al caffè. Era lì dalla mattina quando aprivo gli occhi alla sera quando crollavo stremata nel mio letto, le mani ancora sporche di carboncino e tempera.
Sembra assurdo, ma più George ed io ci facevamo del male, più la mia arte fioriva. Avevo tanto da dire, tanto da raccontare, oppure tanto da non dire affatto. Una sera rimasi a fissare la tela vuota, immacolata, per quasi due ore, in silenzio, il mio respiro come unico suono e il fantasma di George Addison appollaiato su una spalla. Alla fine avevo capito che era esattamente quello, era il silenzio, che mi piaceva di quella tela. Era di silenzio che avevo bisogno, era il nulla quello che avrei tanto voluto provare. Così mi limitai a dipingere una cornice barocca color oro sui bordi della tela; il resto rimase bianco. Mi piaceva.
Volete sapere la verità? Il fatto è che ero rimasta parecchio disillusa dopo la laurea. Il mio lavoro faceva schifo, odiavo il nostro appartamento – e ancora di più il tizio a cui versavamo centinaia di euro di affitto – e perfino Parigi mi sembrava meno chic. Poi era tornato George e solo la Madonna sa quanto mi era sembrato l'unico in grado di tirarmi fuori dalla quotidianità. George che sapeva far diventare un noioso pomeriggio uggioso la più magica delle avventure, che vedeva in ogni oggetto una Passaporta per Hogwarts e che mi sapeva dare un calore umano di cui avevo un bisogno disperatamente ossessivo.
Ed ora non avevo più nemmeno lui.
In un certo senso mi sentivo un po' privilegiata, devo confessarlo. Mentre me ne stavo in piedi sul binario della metro, circondata da sconosciuti, interrogandomi sulla loro vita, mi sentivo un po' meglio pensando che George ed io avevamo avuto qualcosa. Era come un segreto: conoscete quella sensazione? Avete mai avuto un segreto di importanza universale che gli altri non conoscono e che solo voi potete custodire? Non ci si sente straordinariamente importanti, forse perfino un po' più felici? A volte capitava che mi sentissi così, come se quel cantuccio nella mia mente in cui pensavo sempre a George mi rendesse migliore.

***

Il fatto che Bette prendesse un antidepressivo divenne sempre più ovvio: era costantemente scossa da tremori alle mani, che a volte si estendevano alle spalle. Marie ed io avevamo letto su internet che è uno dei primi segni. Lei, comunque, non ce lo disse. Si comportava come se non succedesse, come se non facesse fatica ad infilare il badge nel foro per marcare il turno, come se quella mattina in cui la accompagnai in posta per una raccomandata non avesse dovuto fare uno sforzo per mettere una semplice firma.
In compenso sembrava che tutte le sue energie fossero concentrate su Henry – Henry Philippe Schmitt, impiegato di una ditta di riparazioni di caldaie di quarantadue anni e mezzo – e sul modo di convincerlo a incontrarci.
«Giuro», mormorò un pomeriggio particolarmente caldo di fine febbraio. «Ce la sto mettendo tutta. Ogni volta che gli propongo di uscire tutti insieme dice che non ha tempo, che non può...».
Sorrisi con fare incoraggiante. «Magari non ha davvero tempo, no?».
Bette si sventolò con un pacco di post-it e annuì. «Io, però, ci tengo sul serio. Insomma, lui mi piace».
«Che fate quando siete insieme?».
Lei roteò gli occhi, riflettendo. «Beh, parliamo. E facciamo...», esitò, diventando all'improvviso paonazza ovunque, al punto che la sua frangetta fucsia sembrò sbiadire. «Beh, facciamo sesso, tantissimo, non mi era mai capitato».
Scoppiai in una fragorosa risata. «Oddio, Bette!».
Émile, il tirapiedi di Sophie, si avvicinò squadrandomi con un'espressione che oscillava tra l'arroganza e il terrore per quello che avrei potuto fargli. «Abbassa la voce, Gentilini, siamo in mezzo alla gente!».
«Sono in pausa, sceriffo, lasciami in pace», sbottai fissandolo con astio. Émile era molto più facile da gestire di Sophie, forse perché era talmente fifone che non avrebbe mai riferito tutto alla sua signora e padrona per paura di venire assalito alla fine del turno.
Il nostro amico se ne andò guardandoci di sottecchi e sparì oltre il bancale delle macchine da caffè. Io tornai a guardare Bette con entusiasmo. «Scherzi? E com'è? Bravo?».
Si strinse nelle spalle. «Beh, a me piace. Insomma, è gentile. Non mi serve un vero principe, capisci? Mi fa sentire...».
Sbattei le palpebre, cercando di incoraggiarla con lo sguardo. Ero abbastanza sicura che sapesse esattamente come si sentiva, forse semplicemente esitava a dirmelo. Per quanto potessi sforzarmi, non ero certa che sarei mai riuscita a mettermi nei suoi panni, così aspettai che prendesse un bel respiro.
«Mi fa sentire adeguata», concluse infine.
«Adeguata? Bette...».
Mi interruppe sollevando un dito. «No, Léo, è vero. Sai che non mi sento molto a mio agio con la gente. Sono a posto, con Henry, voglio dire... Non devo dimostrare niente. Sa esattamente chi sono e come sono».
Mi faceva un po' incazzare quell'atteggiamento da “scusate se esisto” da parte sua. Certo, non sono una strizzacervelli e non voglio improvvisarmi tale, né mi sarei mai permessa di sgridarla per i suoi disagi – da che pulpito! Però mi dava fastidio. Avrei dato via un braccio per vederla più serena.
Avevamo legato molto, ormai. Da quella prima cena, Bette era sempre con noi. Era diventata parte integrante della compagnia e in un certo senso ero un po' dipendente dalla sua presenza. Marie rimaneva la mia migliore amica e nessuno l'avrebbe mai sostituita, ma Bette aveva qualcosa di diverso.
Credo che fosse talmente abituata a sentirsi giudicata da aver smesso di sputare sentenze sugli altri. Un'altra persona si sarebbe incattivita, avrebbe reagito infuriandosi e diventando un po' sociopatica, ma non Bette. Se avessi dovuto definirla in una sola parola, avrei detto che era buona. Non ingenua, solo buona. E non mi aveva mai guardata storta, non mi aveva mai dato un'opinione non richiesta, mai, a meno che non fossi io la prima a domandare il suo parere.
A lei raccontai dell'ultimo incontro con George. Di come mi fossi sentita triste, dopo, di come non avessi fatto altro che accusare me stessa e poi lui, a intermittenza, fino a calmarmi. E Bette non aveva mai detto niente, mi aveva ascoltata e basta. Non mi aveva nemmeno abbracciata: si era limitata a fissarmi e i suoi occhi dicevano già tutto.
Per questo anche io mi limitai a non dire niente. La guardai con un sorriso gentile e lei si lanciò nella dettagliata descrizione del suo ultimo coito. Certo, non era la mia idea di passatempo, ma lei era troppo, troppo, troppo felice per interromperla.
Bette fu anche la prima a sapere che qualcuno aveva deciso di comprare uno dei miei quadri. Era un utente di Google+ che aveva visto un pezzo sul blog e mi aveva contattata in privato per patteggiare un prezzo.
All'inizio era stato strano perché, diciamolo, non avrei mai pensato di vendere qualcosa di mio. Farli vedere sì, esporli ad una mostra se mi fosse capitata l'occasione, ma venderli? Da un lato ero eccitata – chi non lo sarebbe? – ma dall'altro ero un po' contrariata. Era come dare via un pezzo di me.
Non che fosse uno dei miei dipinti migliori. Troppo buttato sul futurismo, se volete la mia opinione, non mi aveva convinta fin dal primo momento, ma quel tizio voleva proprio quello. Alla fine avevo accettato un incontro, con l'intenzione di decidere quando avessi visto la sua faccia.
Non so perché ci tenessi ad apparire professionale, all'appuntamento, ma mi lavai i capelli e misi un paio di ballerine rosa. Faceva decisamente troppo caldo per i jeans: scelsi un vestito a fiori. Lezioso, eh? Un centrino ambulante, in pratica.
Ero emozionata, almeno un po', mentre salivo le scale della stazione della metro con il mio piccolo dipinto bene impacchettato stretto sotto il braccio. Avevo quasi freddo, nonostante i trentacinque gradi all'ombra, continuavo a passarmi la lingua sulle labbra fino a farmele bruciare.
Aveva scelto lui il luogo dell'incontro e sinceramente trovo che abbia fatto una scelta talmente idiota da farmi dubitare del suo quoziente intellettivo: Place du Tertre, in piena Montmartre, ovvero il cliché peggiore. Pieno di artisti di strada, pittori che riproducono giorno dopo giorno migliaia di piccoli Moulin Rouge e basiliche del Sacro Cuore con l'acquerello, migliaia di cartoncini tutti uguali destinati ai turisti. A volte, lo ammetto, avevo accarezzato l'idea di mollare il Gitem e andare lì per fare quel lavoro: non so perché non l'abbia mai fatto.
Solo che vendere un quadro dove tutti i turisti da manuale si aspettano di vederne vendere... Mi impensieriva, era un po' troppo scontato.
Comunque mi piazzai davanti ad un ragazzo che faceva stare in equilibrio sulla fronte una boccia con due pesci rossi mentre stava in equilibrio su un mono-ciclo e ridacchiai quando scese dal suo trabiccolo e mi strizzò l'occhio. Attesi: il mio orologio segnava le cinque del pomeriggio e la piazza era soffocante, piena di gente.
«Scusa, sei tu la Gentilini?».
Boom. Credetti di svenire. Non era possibile che fosse lui, non dopo tutto quel tempo. Non potei impedirmi di gettare la testa all'indietro, rischiando che mi crollasse lo chignon, e ridere forte.
Davanti a me, le mani infilate nei bermuda e con un paio di Rayban sugli occhi, un sorriso smagliante, divertito e la pelle abbronzata, c'era Paul Duval.
«Oh, cavolo», esclamai. Lo guardai con un mezzo sorriso, un po' stranita dalla situazione. Di sicuro era inaspettato. Esitai, incerta, senza sapere bene cosa fare. «Io... Ehm, Paul...».
Mi si avvicinò senza smettere di sorridere. Aveva quest'aria familiare da Love Boat, con i polpacci scoperti e le espadrillas bianche: quasi mi commossi. «Léo, è passato un anno, ormai! Non mi saluti?».
Era troppo strano per avere senso, è una di quelle cose che non capitano nella vita reale. «Beh, ehm, ok!», esclamai avvicinandomi. «Certo!».
Mi sollevai sulle punte e lo baciai sulle guance. Lui mi prese i gomiti nelle mani per aiutarmi a raggiungere il suo viso. Era familiare e repellente allo stesso tempo: non Paul, lui era bello come al solito, ma la situazione. Provai un misto di nausea ed orrore, con una puntina di divertimento.
«Caffè?», propose.
Scossi il capo. Andava sempre piuttosto male quando prendevo un caffè con la gente, guardate come era finita con George. «No, preferisco un aperitivo, ti prego!».
Rise forte. Io avevo il cuore incastrato in gola. Oddio, non pensate male: non mi sentivo attratta da Paul più di quanto potessi essere attratta da una cannuccia di plastica. Però era una situazione un po' stupida e incresciosa, il genere di casini nei quali io cerco sempre di non trovarmi.
Mentre camminava accanto a me, Paul non aveva l'aria di uno che voglia riprovarci. O almeno non mi sembrava dai segnali. Eppure era una cosa stranissima, non saprei descriverla.
Paul era un cavaliere quando stavamo insieme e quel giorno non fu un'eccezione: mi tenne aperta la porta del bistrot, mi scostò la sedia nel tavolo più bello, quello vicina alla vetrina. Mi lasciò ordinare per prima e poi prese la stessa cosa che avevo chiesto io. Ci limitammo a fissarci mentre aspettavamo i nostri mojito, lui calmo e divertito ed io nel più completo imbarazzo. Però non era un imbarazzo brutto, era abbastanza gradevole.
«Ok, scusa se lo chiedo», dissi mentre ci portavano i bicchieri e un piatto di stuzzichini salati. «Avevi capito che ero io, vero? Non è che ti sei sbagliato?».
«No, figurati», rispose lui. Appoggiò gli occhiali da sole sul tavolo e i suoi occhi brillarono. «Ero in vacanza e una sera ho trovato il tuo blog su internet. Non pensavo dipingessi».
«Già, beh, è solo una cosa», minimizzai con un gesto della mano.
«È una cosa interessante».
Arricciai le labbra in una smorfia. «Paul, perché sei qui?».
Ridacchiò. «Diretta, eh? Volevo sapere come stavi, tutto qui».
Continuai a studiarlo, poco convinta, gli occhi ridotti a due fessure. «Tutto qui? Veramente?».
«Veramente», replicò con un largo sorriso, tamburellando con le dita sul ripiano del tavolino.
Fu quel suono a farmi abbassare lo sguardo e così la vidi: all'anulare portava una fede d'oro. Ero troppo agghiacciata per ricordarmi di respirare.
Quando riemersi dall'apnea esclamai: «Ma sei sposato!».
Paul annuì con l'aplomb di uno che dice “Fuori piove”. «Sì, è vero», disse con un sorriso. «Si chiama Clothilde, l'ho conosciuta in studio», spiegò. Notai una fossetta in una guancia, mentre parlava. «Ha un anno più di me e fa la giornalista per Vogue France».
Sgranai gli occhi. Lei faceva la giornalista per Vogue France ed io sgobbavo al Gitem. Ma non ero gelosa: stranamente non lo ero. Non avevo più nulla a che spartire con Paul, erano mesi che non pensavo a lui se non come un vago ricordo. Non provai molto, per lui e Clothilde. E poi non potevo fare a meno di domandarmi se lui non riservasse alla sposina lo stesso atteggiamento del cazzo che riservava a me: non la invidiavo per niente.
«Congratulazioni», dissi con un largo sorriso. «Davvero, sono contenta per voi».
«E tu? Sposata, fidanzata o single?».
Non c'era nessun bisogno di raccontargli i fatti miei, ma dopotutto lui mi aveva confessato l'inconfessabile. «Single», replicai. «Non per mia scelta, ma...».
C'era qualcosa di immensamente strambo in quella situazione. Prima di tutto non credevo che Paul avrebbe mai e dico mai capito un accidente di arte – sinceramente penso che abbia scelto il primo quadro che aveva visto sul mio sito e addio. E poi tutta quella storia del matrimonio. Incredibile.
«Beh, mi fa davvero piacere vederti», ripetei di nuovo, sforzandomi di trovare qualcosa da dire. Ma di che parlavamo quando stavamo insieme?
Quando muore qualcuno, spesso tendiamo a idealizzarlo. Alle volte capita anche quando ci lasciamo con un uomo. Nel ricordarlo, soprattutto se non ci ha causato un gran dolore, potremmo scordarci dei lati negativi. Paul era buono, è vero, ma era piuttosto sbagliato per me, era un po' come un bel vestito della taglia sbagliata. I suoi lati positivi erano anche quelli che mi facevano incazzare da morire.
Come quel suo modo di attaccare bottone. Non aveva comprato il quadro perché gli piaceva o perché lo aveva capito a fondo, lo aveva fatto solo per avere una scusa per parlarmi di nuovo. Non era un granché come premessa. E poi non siamo mai stati amici: che senso aveva?
«Allora, quanto ti devo per il quadro?», mi domandò allegramente una volta usciti dal locale, sul punto di salutarci.
Scossi il capo. «No, dai, consideralo un regalo».
«Non scherzare, dico davvero!».
Non volevo i suoi soldi. Avevo sempre accettato i suoi regali, ma quello no. Non avrebbe avuto nessun significato. «Dico davvero anche io, Paul, non è il caso che tu mi paghi per questo. Facciamolo valere come il regalo di compleanno che non ti ho fatto». Lasciai in sospeso che non glielo avevo fatto perché lo avevo lasciato troppo presto.
Si strinse nelle spalle, senza abbandonare quel bel sorrisone. «Va bene, se insisti. Grazie, Léo!».
Mi baciò su entrambe le guance. Io ricambiai con entusiasmo e lo guardai mentre si allontanava, probabilmente verso il parcheggio dove aveva lasciato la sua Giulietta. No, a ben pensarci avevo fatto bene. Farmi pagare da lui sarebbe stato un po' sporco e non volevo sentirmi peggio nei suoi confronti: lo avevo cornificato, non potevo anche farmi dare del denaro. Povero, innocente Paul.
Sulla via del ritorno, mentre mi avviavo alla fermata della metro davanti al Moulin Rouge, sentii la Marcia Imperiale di Star Wars provenire dalla mia borsetta. Solo due persone avevano il diritto a quella suoneria: mia madre e Marie.
«Pronto?».
«Léo, meno male che hai risposto subito!».
Marie stava urlando come una pazza isterica, rischiava di farmi saltare via il timpano. «Dimmi, cos'è successo?».
«Non ci crederai mai, Léo!».
«Ok, mi dici anche cos'è successo?».
La sentii prendere un bel respiro. Temendo che si sarebbe messa a strillare di nuovo approfittai della pausa per allontanare leggermente il telefono dall'orecchio.
«Oh, no, non ce la faccio!», strepitò alla fine. «Devi venire qui subito, ok?».
Esitai. «Ehm, va bene. Al bar o a casa?».
«A casa! Poi ti racconto tutto!».

 

   
 
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